Documentare e raccontare la scuola

“Maestre di frontiera”. Storie di piccole scuole nel lungo corso del XX secolo

All’interno del progetto “Piccole scuole[1] sono state sviluppate attività di ricerca e di documentazione che hanno trovato una loro formalizzazione in appositi quaderni, suddivisi in “Storie”, “Strumenti” e “Studi”[2] ; essi costituiscono un omaggio a Mario Lodi e alla sua Biblioteca del lavoro[3] dove sono conservati molti dei materiali utilizzati.

Lo scenario

Faremo qui riferimento al Quaderno, ‘Maestre di frontiera’. Storie di piccole scuole nel lungo corso del XX secolo, curato da Pamela Giorgi e Raffaella Calgaro[4].

Il volume raccoglie le esperienze di dieci maestre di frontiera che, in un arco temporale tra inizi del ‘900 e anni ‘70, hanno lavorato in piccole scuole rurali dell’Italia settentrionale e centrale. La ricostruzione del contesto socio-economico e antropologico in cui hanno operato rende conto delle diversità di ciascun territorio, ma anche della comune condizione di marginalità e di esclusione delle popolazioni delle zone più interne dell’Italia. La scuola in questi luoghi, attraverso il lavoro delle maestre, rappresentava l’unico elemento di contatto fra la popolazione locale e il resto del Paese mentre la scolarizzazione delle giovani generazioni, se da un lato costituiva l’unica occasione di costruzione dell’appartenenza ad una stessa nazione sul piano linguistico e culturale, dall’altro forniva le condizioni per una prima emancipazione da una situazione di deprivazione o di vera e propria povertà.

Le prime forme di scolarizzazione in Italia

Senza voler qui fare un excursus dettagliato sulle relazioni fra interventi normativi, processo di scolarizzazione e progressiva diminuzione dell’analfabetismo in Italia dall’Unità agli anni ’70, periodo a cui fa riferimento l’ultima delle esperienze raccontate nel volume, pare utile ricordare che le numerose leggi volte ad allargare l’alfabetizzazione non garantissero effettivamente il diritto all’istruzione primaria su tutto il territorio nazionale. Ci riferiamo in particolar modo all’estensione della Legge Casati a tutto il territorio nazionale, all’obbligatorietà estesa al 9° anno di età (Legge Coppino, 1877) e poi al 12° anno di età (Legge Orlando, 1904), all’obbligo fino al 14° anno di età (Legge Gentile, 1923), al T.U. del 1928 che consentiva di assolvere l’obbligo scolastico principalmente nella scuola elementare, fino ad arrivare all’istituzione della Scuola Media unica (1962).

Una popolazione ad alto tasso di analfabetismo

Analfabetismo e bassa o bassissima scolarizzazione hanno caratterizzato la storia del nostro Paese, basti pensare che nel 1° censimento del 1861, tre quarti (75%) della popolazione sopra i 5 anni di età non sapevano né leggere né scrivere; nel 1959-1960 solo il 20% dei ragazzi di 13-14 anni arrivano al ciclo post-elementare, il 30% si colloca tra la quinta elemetare e la seconda media, mentre il 49% aveva già abbandonato la scuola; inoltre, come risulta dai censimenti sulla popolazione, la percentuale di iscritti alla scuola elementare sulla popolazione fra i 5 e i 15 anni era rappresentata nel 1881 dal 34,6%, nel 1888 dal 37,6%, nel 1896 dal 38,2% e nel 1913 dal 46,9%. Andando poi agli anni del secondo dopoguerra, può essere utile ricordare che, come risulta dai censimenti ISTAT, nel 1951 aveva il titolo di Licenza elementare solo il 59,0% della popolazione, che si abbassava tuttavia nel 1961 al 42,3% per risalire leggermente nel 1971 al 44,3%.

Maestre nei territori di frontiera

In questo scenario le scuole rurali finanziate dai comuni rappresentavano veramente un avamposto per la lotta all’analfabetismo.

Il volume ‘Maestre di frontiera’ rende una testimonianza della specificità, tutta femminile, delle scuole rurali dove venivano occupate prevalentemente insegnanti donne che erano disposte, pur di avere un lavoro retribuito, una autonomia economica e una conseguente emancipazione sociale, ad accettere uno stipendio più basso rispetto ai colleghi uomini occupati invece nelle scuole statali in contesti urbani.

L’incremento del numero di maestre a partire dalla seconda metà dell’ottocento è stato favorito dall’istituzione di un percorso formativo specifico per gli insegnanti della scuola elementare, prima con la scuola Normale e poi con la Scuola Magistrale.

In un contesto quale quello italiano, con debole industrializzazione, con ostacoli all’accesso a molti corsi di laurea e professioni, diventare maestre costituiva il canale privilegiato per accedere all’istruzione e per emanciparsi rispetto ad un contesto culturale segnato dalle rigide regole di una società sostanzialmente patriarcale.

Maestre per tutti i bisogni, anche delle mamme

Il lavoro di maestra era, sul piano sociale, più facilmente accettato perché in qualche modo l’educazione e l’istruzione dei bambini e delle bambine più piccoli rappresentava una estensione del ruolo materno e del lavoro di “cura”. Dai diari delle maestre raccolte nel volume emerge una forte contiguità fra scelte personali e coinvolgimento nelle pratiche di lavoro. I bambini e le bambine che vengono affidate a queste figure sono portatori di bisogni che vanno oltre la semplice alfabetizzazione; sono bambini e bambine che hanno sperimentato condizioni di vita difficili segnate anche dalla miseria e dalla fame. Le maestre si prendono cura di loro anche interrogandosi sui loro bisogni reali a cui adeguare i dettami della “didattica ministeriale”. In questo senso rimodulano anche i tempi e gli orari di lavoro che spesso si protraevano oltre quello stabilito, come la maesta Wanda Montanaro, che a Messercola (una frazione del comune di Cervino in provincia di Caserta) insegnava a leggere e scrivere alla mamma analfabeta di un suo alunno: aveva il marito emigrato negli Stati Uniti e si era stancata a farsi leggere da una vicina le sue lettere in cui le raccontava tutta la sua vita.

Rivela la maestra nel suo diario: “Andavo a casa sua, portavo i libri e ci sistemavamo in cucina dove cominciavamo a sillabare insieme. E con una grande forza di volontà, la mamma imparò a leggere e a scrivere”[5].

Una narrazione al femminile

I diari delle maestre rappresentano una narrazione non solo della vita “dentro la scuola” ma anche una narrazione della realtà “fuori dalla scuola” proprio perché tutto ciò che era fuori entrava nelle classi con i bambini e le bambine che non avevano abbastanza da mangiare a casa, o che saltavano giorni di lezione perchè c’era bisogno del loro lavoro nei campi. Molto spesso questi diari rappresentano una vera e propria denuncia sociale perché descrivono con parole semplici, ma efficaci nella sostanza, un mondo rurale, lontano dai processi di industrializzazione, in cui le diseguaglianze sociali ed economiche vengono spesso accettate come ineluttabili.

Sono pagine che recuperano anche una narrazione al femminile in cui il senso della memoria si fa testimonianza e non separa il personale dall’impegno sociale, e anche politico, che “l’essere maestre” richiedeva in contesti difficili. Ne è un esempio la maestra Gisella Galassi Ricci che insegnava in un paesino dell’appennino tosco-emiliano dal 1941 al 1950. Scrive: “Se ripenso ai primi anni del ‘40, mi si presenta l’immagine di una ragazzina incosciente non solo nell’affrontare compiti di cui ignorava responsabilità e contenuti, ma anche nell’imporsi fatiche, sacrifici; capace di andare incontro a situazioni che avrebbero richiesto maturità ed esperienza, con leggerezza senza pensare. Lontano da casa, la ragazzina maestra si affidava tranquilla alle persone del luogo, soprattutto alla bidella, personaggio importante nel rapporto con la gente, poi alle donne dei dintorni. A dir la verità non ebbe mai a pentirsene”[6].

Una scuola testimone di disagi

Tutte le narrazioni non nascondono difficoltà e disagi personali. Ce lo racconta la maestra Mercedes Bellin che, nell’anno scolastico 1941-1942, insegnava nella Pedemontana vicentina.

Il mio primo giorno di maestra ero arrivata a scuola con una bicicletta presa a prestito da una vicina di casa. Le lezioni non erano ancora cominciate e una maestra mi portò a vedere la mia classe. Salimmo le scale; l’aula, in verità, era una soffitta con il tetto spiovente e nella parte in cui si poteva stare in piedi erano stati sistemati 54 banchi. Lo stanzone era poco illuminato e il pavimento scricchiolava quando si camminava perché era fatto di assi in legno consumate e traballanti. Non c’erano carte alle pareti: solo i disegni dei piccoli e qualche lettera dell’alfabeto”[7].

Lo leggiamo anche nel diario di Maria Luisa Montanaro che ha insegnato a Piane di Maggio, frazione di Frisa, Chieti, negli anni 1952-1953 e a Mondola, Chieti, nel 1960-1961.

La disperazione che provai nei primi momenti fu ben presto superata dall’affetto sincero che mi dimostravano i pochi alunni che frequentavano. Erano bambini buoni e ben educati; avevano varie età ed erano maschi e femmine. (…). Un giorno capitò all’improvviso il direttore didattico: guardò i registri, fece delle domande ai ragazzi e prima di andare via mi disse: Ho notato i risultati positivi del suo insegnamento. È stata brava, ma mi dica. Come fa a venire qui ogni giorno nelle sue condizioni? Dove trova la forza per affrontare questa strada così accidentata? Mi vennero le lacrime agli occhi ed un groppo in gola non mi permise di rispondere. Il Direttore tacque ma capì. Del resto non c’era bisogno di parlare per comprendere: bastava guardare la scuola, la strada, l’aula. Rimasi ad insegnare fino a primavera inoltrata, combattuta tra l’affetto degli alunni e delle loro famiglie e il desiderio di ritornare a casa, mancava poco al parto”[8].

C’erano anche i problemi di come insegnare

Le difficoltà personali si intrecciavano con quelle professionali come racconta la maestra Gisella Galassi Ricci.

Ho accennato alla mia totale ignoranza della didattica, ignoranza che avvertivo più in aritmentica che in lingua. Dettato e pensierino erano stai i miei ‘compiti’, quelli dei miei fratelli, quindi erano giusti anche per i miei scolari e lo furono, finché non lessi ‘I diari di san Gersolé’ di Maria Maltoni, il terzo anno di scuola. In primavera, quale sarà stato l’argomento dei pensierini, il più adatto? Naturalmente i fiori! Silvano era un minuscolo gnomo di 6 anni, vivace come uno scoiattolo, perciò mi sorpresi quando lo vidi fermo, a capo chino, sulla pagina che era, contrariamente al solito, senza macchie di inchiostro. Cercai di sollecitarlo a parlare. Silenzio. Non capivo quale potesse essere la difficoltà. Ce ne erano tanti di fiori sulla cattedra. ‘Silvano non ti piacciono i fiori?’ A voce bassa con le orecchie rosse per l’imbarazzo mi sussurrò: ‘Non li ho mai mangiati’. Per fortuna avvertii che lo scarto profondo non era tra i diversi significati attribuiti al verbo, ma fra due mondi e che nessuna spiegazione verbale lo avrebbe mai colmato”[9].

Uno sguardo attento sulla storia politica

Infine non va trascurato come i diari delle maestre sono uno sguardo attento sulla storia politica dell’Italia che passa attraverso testimonianze sulle due guerre, sul fascismo, sulla persecuzine degli ebrei e sulla Resistenza. Un esempio è quello del diario della maestra Essiba Paggi che dà testimonianza della scuola “speciale ebraica a Siena (1938-1940), costituita come scuola separata per le bambine e i bambini ebrei in cui, ovviamente, lei insegna come maestra ebrea espulsa dalla scuola statale”.

Oltre la testimonianza

Oltre ad essere una significativa fonte documentale, le pagine di questi diari ci consentono oggi di aggiungere ulteriori elementi di riflessione su due questioni, la professionalità docente e il dirittto ad una istruzione di qualità per tutti e per tutte come previsto dalla nostra Costituzione.

Le “frontiere” oggi non sono soltanto nelle aree rurali e più isolate del Paese, ma sono anche le periferie urbane o i centri storici degradati di grandi città. Vecchi e nuovi analfabetismi caratterizzano oggi fasce deboli della popolazione, bambini e giovani adulti che non riescono a raggiungere i livelli essenziali di conoscenze e competenze che consentano l’esercizio della cittadinanza. Il dibattito sulla lotta alla “povertà educativa” richiede una forte assunzione di responsabilità da parte del sistema scuola che postula un intervento coraggioso sulla qualità della professionalità docente.

Dalla narrazione allo sviluppo professionale

Narrare e documentare può essere, ancora oggi, una occasione di sviluppo professionale per i docenti di tutti gli ordini di scuola e una utile pratica di riflessività.

Imparare a riconoscere le ricadute, positive e negative, dell’agire professionale in classe; osservare e interpretare i bisogni degli alunni e delle alunne e negoziare scelte didattiche e culturali, sono azioni che comportano una professionalità alta e la consapevolezza di essere soggetti di cambiamento. Le maestre di frontiera, come traspare dalle pagine dei loro diari, avevano assunto in pieno il loro ruolo e proprio per questo la loro testimonianza può essere oggi un invito ad un impegno civico per tutti i docenti perché la scuola possa garantire effettivamente quanto previsto dalla nostra Costituzione. Inoltre, queste maestre ci insegnano che mantenere alta l’attenzione sui discenti come persone costituisce una condizione irrinunciabile del “fare scuola”.


[1] https://piccolescuole.indire.it

[2] https://piccolescuole.indire.it/quaderni/studi

[3] L’opera editoriale della Biblioteca del lavoro era costituita da schede didattiche e piccoli volumi che, con un linguaggio semplice, riportavano esperienze didattiche significative che hanno costituito per molti insegnanti strumenti di formazione e che hanno contribuito alla diffusione di modi di fare scuola attiva, inclusiva, democratica.

[4] Il documento è accessibile sul web, anche con il podcat https://piccolescuole.indire.it/maestre-da-ascoltare-i-diari-delle-maestre-di-frontiera-letti-ad-alta-voce-in-podcast

[5] Pag. 108.

[6] Pag. 85.

[7] Pag. 77.

[8] Pag. 105.

[9] Pag. 92.