Il caso di Martina Carbonaro, giovane adolescente di 14 anni uccisa da un giovane “fidanzato” di 19 anni, richiama la nostra attenzione sulle responsabilità educative della scuola. Martina poteva essere alunna di una qualsiasi scuola secondaria del primo ciclo. Eppure non si è detto nulla sui suoi percorsi scolastici. Aveva 14 anni avrebbe dovuto essere ancora dentro il sistema di istruzione e formazione per il completamento dell’obbligo: Sicuramente sui media questi aspetti della sua vita, che pure avrebbero dovuto essere importanti, sono stati tralasciati probabilmente perché la sensibilità collettiva su queste questioni è sempre più debole o, in certi contesti, inesistente. Ma noi, come persone di scuola e come educatori ed educatrici abbiamo il dovere di porci delle domande e, in qualche modo, senza semplificazioni e retorica accomodante, provare a trovare le possibili risposte.
Ingiustizia epistemica
Già l’articolo di Rosa Stornaiuolo[1] ha messo a fuoco alcune questioni sia sul versante dell’analisi delle cause, la cultura del patriarcato in primis, sui possibili interventi della scuola, oltre che sull’educazione affettiva. Qui vorrei proporre ulteriori elementi di riflessione che prendono le mosse da una chiave di lettura suggerita su Il Post[2] da Vera Gheno facendo riferimento al concetto di ingiustizia epistemica elaborato dalla filosofa Miranda Fricker[3]. Si tratta, cioè, di un ‘torto fatto a qualcuno nella sua capacità di conoscitore’[4]. Riguarda, quindi, la capacità di una persona di conoscere e di essere riconosciuta come fonte di conoscenza. In termini più semplici, si verifica quando una persona viene danneggiata specificamente nella sua capacità di:
- dare conoscenza agli altri (essere creduta, presa sul serio);
- comprendere le proprie esperienze (avere i concetti per farlo);
- partecipare alla produzione di conoscenza.
Ci sono, infatti, due varietà di ingiustizia attraverso le quali questa definizione astratta può essere specificata: l’ingiustizia testimoniale (‘testimonial injustice’, alla quale Fricker dedica la gran parte del libro) e l’ingiustizia ermeneutica.
L’ingiustizia testimoniale riguarda il grado di attendibilità che assegniamo ad altri soggetti parlanti. Cioè quando il pregiudizio di chi ascolta porta a una svalutazione della credibilità della testimonianza di una persona. Un’ingiustizia di questo tipo può verificarsi quando qualcuno viene ignorato, o non creduto, a causa del suo sesso, sessualità, genere, razza, disabilità. In generale, a causa della sua identità.
L’ingiustizia ermeneutica è legata al modo in cui le persone interpretano la propria vita. Si verifica, per esempio, quando non si riesce a comprendere le proprie esperienze o quelle degli altri. La ragione del deficit di comprensione riguarda proprio la mancanza di concetti interpretativi adeguati e condivisi collettivamente. Questa lacuna nel “vocabolario” comune per descrivere e dare senso a determinate esperienze è spesso il risultato di una marginalizzazione sociale del gruppo o della persona.
Garantire il diritto alla conoscenza
Nel caso specifico di Martina, ma di tante bambine e ragazze, la domanda che dobbiamo farci è se la scuola le ha fornito gli strumenti e i contenuti di conoscenza necessari per poter interpretare la sua condizione di sottomissione al potere patriarcale che ha poi armato la mano del suo assassino. Ma anche senza arrivare alle situazioni estreme, come in questo caso, in generale dobbiamo interrogarci se la cultura del patriarcato viene messa in discussione nei processi educativi e nelle pratiche di conoscenza nelle nostre classi o se ci ricordiamo della sua pervasività nella società contemporanea solo quando si verificano fatti così gravi e feroci. Nello stesso tempo dobbiamo interrogarci su quanto ci preoccupiamo di garantire proprio ai soggetti più fragili il diritto alla conoscenza del mondo e di sé.
La conoscenza, nella sua accezione più ampia, è la leva che consente di riconoscere le condizioni di discriminazione e di sottomissione. La scuola, come suo compito istituzionale, deve svolgere questo ruolo: costruire conoscenza per discriminare la condizione di subalternità nella società e nelle relazioni interpersonali. È il presupposto necessario per poter esercitare il diritto alla parità e al rispetto. Solo a queste condizioni si realizza l’educazione alla cittadinanza che risponde a quanto la nostra Costituzione assegna come compito principale alla scuola.
La conoscenza passa attraverso il linguaggio
La costruzione di questa conoscenza passa in primo luogo dal dominio della lingua: non solo riconoscere parole della prevaricazione, denominare anche le più banali (o occulte) forme di discriminazione o di sottomissione, a cui le donne sono esposte nella vita quotidiana, privata e pubblica, ma anche trovare le parole per denominare il proprio malessere nelle relazioni interpersonali. Recuperare contenuti inediti e paradigmi interpretativi della realtà e degli stereotipi che consentono alle più fragili delle nostre alunne di fare distinzioni e di dare un nome al sistema di ingiustizie dentro cui si sviluppano i processi di conoscenza e di costruzione dell’identità.
È tutto questo un percorso complesso che richiede in primo luogo un cambiamento di prospettiva da parte di chi si occupa di formazione ed educazione.
Educare come cambiamento di prospettiva
Assumere il punto di vista del rispetto e della parità significa ripensare le pratiche educative come pratiche di libertà in cui ad ogni apprendente viene riconosciuta la propria peculiarità e il proprio essere risorsa in una comunità. Questo significa, ad esempio, smontare gli stereotipi degli apprendimenti (non è un sapere per donne) non attraverso fittizi interventi e facili proclami, ma potenziando, invece, in ciascuno e in ciascuna il desiderio di apprendere per sviluppare il pensiero critico e il desiderio di conoscere e cambiare il mondo con gli strumenti delle discipline[5].
Allora bisogna chiedersi se e quanto può essere utile fare ricorso all’“educazione all’affettività” come un momento specifico, ma separato, di pratica educativa o quanto piuttosto non si debba parlare di cambiamento di prospettiva educativa che riconosca la profonda condizione di disparità e di subordinazione nelle relazioni e nei processi su cui si fonda il patriarcato che sottende la violenza di genere e il femminicidio.
Questo cambiamento di prospettiva comporta una assunzione di consapevolezza nei docenti sul fatto che la trasmissione del modello patriarcale si fonda sulle dinamiche della relazione educativa. Occorre pertanto assumere una postura didattica che sia essa stessa un superamento dell’ingiustizia ermeneutica e intervenire su tutto ciò che c’è sotto l’iceberg della sottomissione e della subordinazione che riproduce come “normali” la divisione di ruoli e di compiti riconosciuti e socialmente accettati.
Rileggere la letteratura e la storia
Tutto questo oggi appare una sfida alta per la professione docente dal momento che nel dibattito pubblico si assiste molto spesso ad una riproduzione acritica dei ruoli e al riconoscimento dell’autorevolezza fondata sul genere maschile sia nella dimensione antropologica che linguistica.
Ma significa anche intervenire sulla qualità e la tipologia di contenuti del sapere che vengono proposti. Si pensi a quanto sia necessario rivedere autori e autrici, e i relativi testi letterari[6], come pure rileggere la storia, la scienza, la filosofia, il diritto, la storia dell’arte… dal punto di vista della disparità e della differenza andando a valorizzare il contributo che le donne hanno apportato nei vari campi di conoscenza.
Rileggere la storia dal punto di vista della discriminazione e della privazione dei diritti delle donne sembrerebbe quasi una pratica ormai diffusa, e da molti docenti viene praticata, ma probabilmente non è proprio così, se si pensa, per esempio, all’impostazione che ritroviamo nell’ultima versione delle Indicazioni 2025 per il primo ciclo dell’istruzione, relativamente alla storia.
L’importanza dell’ascolto
E infine, ma non da ultimo, è importante imparare ad esercitare la pratica dell’ascolto. L’ascolto empatico e attivo contribuisce a creare un clima di fiducia e sicurezza, essenziale per il benessere psicofisico degli studenti. Sentirsi ascoltati e compresi rafforza l’autostima, il senso di valore personale e la capacità di affrontare le sfide. Quando uno studente si sente rispettato e capito dall’adulto, è più propenso a fidarsi e a chiedere aiuto.
È necessario, quindi, saper ascoltare i nostri alunni e le nostre alunne e imparare a riconoscere segnali di malessere e/o di disagio.
Imparare a leggere la loro difficoltà di stare al mondo dentro relazioni sociali disturbate o violente è la chiave di volta per chiedere a chi ha poi gli strumenti professionali più adeguati (si pensi agli psicologi a scuola) di intervenire in maniera tempestiva ed efficace.
[1] Rosa Stornaiuolo, Femminicidio: una battaglia culturale non più rinviabile, scuola7 n.433 del 7-6-2025.
[2] Vera Gheno, Il post, Ep.108, 1° giugno 2025.
[3] Miranda Fricker, Epistemic Injustice, 2007, Oxford University Press.
[4] “A wrong done to someone specifically in their capacity as a knower”
[5] In un contesto diverso, quello delle classi multiculturali, è quello che ci suggerisce Bell Hooks in Insegnare a trasgredire, Meltemi, 2020.
[6] Solo a titolo di esempio il testo di F. Piccolo, Son qui: m’ammazzi, Einaudi 2025 in cui “tipi maschili” presenti in testi della letteratura italiana vengono riletti per evidenziare aspetti, a dir poco inquietanti, che vanno dalla disposizione del maschio ad attaccar briga per dar sfogo alla gelosia, furia, violenza, all’inclinazione ad usare la violenza stessa in modo subdolamente morbido, attraverso il lamento e la recriminazione.