Si è ormai conclusa, in forte ritardo come ormai d’abitudine (e non è una bella abitudine), la stagione dei contratti collettivi di lavoro relativi al triennio 2022-2024 per i comparti della pubblica amministrazione che sono, come è noto, quattro (più uno, quello della Presidenza del consiglio)[1].
Novità e criticitÃ
Osservando nell’insieme i contenuti dei tre comparti della cosiddetta “funzione pubblica†(Amministrazioni centrali, locali e sanità ) si può dire che si sono introdotte, nelle parti normative, alcune innovazioni interessanti. Si pensi, per esempio, agli articoli che, in alcuni contratti, affrontano il problema dell’innalzamento dell’età media dei dipendenti pubblici introducendo alcune agevolazioni per i lavoratori più anziani, oppure ad alcuni ampliamenti delle materie sottoposte a contrattazione e consultazione integrativa, o ad alcune innovazioni riguardanti il lavoro a distanza e l’orario di lavoro. Il punto debole che ha caratterizzato però tutta questa tornata di contrattazione è stata la quantità di risorse messe a disposizione dei contratti, una quantità assai inferiore all’aumento dei prezzi (rilevato dall’Istat, ma ancora di più rilevabile dai bilanci delle famiglie) avvenuto nel triennio.
Un contratto “ultraleggeroâ€
Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) del comparto Istruzione e Ricerca è stato l’ultimo ad essere firmato il 5 novembre scorso (2025). È un contratto che ha caratteristiche però un po’ diverse da quelli validi per il medesimo triennio, soprattutto perché è un contratto “ultraleggeroâ€, comprendendo praticamente soltanto la parte retributiva e trattando, per la parte normativa, solo gli articoli relativi alle relazioni sindacali. Si è realizzata insomma (ed è la seconda volta nel volgere di un triennio) una scissione di fatto tra la parte economica e quella retributiva. Ma, mentre nel contratto del triennio precedente si procedette a firmare la parte economica rinviando poi la parte normativa a una sequenza contrattuale che fu sottoscritta alcuni mesi dopo, ricomponendo quindi l’unità del contratto dentro un unico contenitore nello stesso triennio, nel caso ultimo si è addirittura rinviata la parte più consistente, quella normativa, al contratto del triennio successivo. Noi auspichiamo, naturalmente, la rapida apertura delle trattative. Peraltro, in una dichiarazione congiunta (la numero 2) annessa al contratto 2022/2024, le parti si sono impegnate ad adottare nuovamente la scissione appena descritta: stipuleranno, infatti, un accordo sulla componente economica e differiranno la discussione della parte normativa ad un momento successivo.
Una prassi ad alto rischio
Al di là del giudizio sui contenuti, la prassi che si sta perpetuando, e forse consolidando, in questo comparto appare criticabile per almeno due ragioni. La prima è che separare la parte economica da quella normativa contrasta con la natura stessa (direi quasi “fondativaâ€) delle relazioni contrattuali. Non è necessario richiamare i contributi fondamentali della dottrina americana e italiana sul ruolo della contrattazione collettiva quale strumento di pluralismo (pensiamo, in Italia, a figure come Gino Giugni[2] e Guido Baglioni[3]), perché è a tutti evidente che la contrattazione costituisce la forma primaria di scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione. Il rischio sempre più concreto è che, se la prassi che sta prendendo piede dovesse ulteriormente consolidarsi, il contratto rischia di assomigliare sempre di più ad una sorta di concessione unilaterale da parte del datore di lavoro. Si evidenzia, inoltre, come tale tendenza stia isolando progressivamente il comparto Istruzione e Ricerca dal quadro generale della contrattazione collettiva nazionale.
Obiettivi ambiziosi e risorse insufficienti
La seconda considerazione attiene al ruolo del datore di lavoro. Si osserva da tempo che le linee programmatiche dei governi, espresse sia attraverso gli atti d’indirizzo sia, in misura maggiore, tramite le dichiarazioni dei ministri competenti, stabiliscono per la contrattazione obiettivi ambiziosi, improntati alla valorizzazione del personale. Tali obiettivi includono il riconoscimento del merito e lo sviluppo delle progressioni di carriera. Tuttavia, al momento di definire l’allocazione delle risorse economiche necessarie, questi eccellenti propositi vengono sistematicamente disattesi con stanziamenti insufficienti. Tale discordanza risulta evidente dalla semplice lettura dell’atto d’indirizzo che avrebbe dovuto orientare anche il presente negoziato contrattuale.
Scelte diverse, ma tutte legittime
Di fronte a questo quadro negoziale le scelte delle organizzazioni sindacali si sono, come è noto, nettamente differenziate, tra chi ha firmato ritenendo di aver ottenuto tutto il possibile e chi ha scelto di non sottoscrivere un accordo ritenuto inaccettabile. Entrambe queste opzioni meritano rispetto, perché sono il risultato di scelte da parte di organizzazioni che rappresentano democraticamente migliaia di lavoratori. Anche chi non firma i contratti del pubblico impiego, del resto, non lo fa certamente a cuor leggero, ben sapendo quali sono le conseguenze per quanto riguarda la partecipazione alla contrattazione integrativa. Anche per questo sono assolutamente fuori luogo le reazioni aggressive e quasi derisorie di esponenti del governo verso chi non è d’accordo con le decisioni dell’esecutivo, che dovrebbe rappresentare pro tempore l’intiero Paese, rispettare il dissenso e semmai riflettere sulle ragioni del dissenso medesimo.
La divisione, però, è sempre debolezza
Restano, naturalmente, le divisioni tra i sindacati che sono oggi molto profonde, e che penetrano anche nelle scelte in materia di contrattazione sembrando peraltro, a volte, non solo il frutto di divergenze a livello delle categorie e dei comparti, ma il riflesso (anche) di logiche a livello confederale. Tali divisioni sono un elemento di grave debolezza non solo nei rapporti con le controparti ma anche per il funzionamento stesso delle istituzioni democratiche.
Chi scrive queste note appartiene, forse anche per ragioni anagrafiche, alla pattuglia, non so quanto esigua, di coloro che non hanno perso le speranze per un miglioramento dei rapporti tra i sindacati, e perfino per un non troppo lontano ritorno a un’unità , quanto meno d’azione, tra le grandi organizzazioni confederali.
Un salto di qualitÃ
Perché questo accada occorre probabilmente un salto di qualità non solo nell’azione, ma nel pensiero stesso delle organizzazioni sindacali. Chi si occupa di questi problemi ricorderà che la differenza tra partiti e sindacati veniva una volta individuata proprio nella natura “del pensiero†di queste organizzazioni: quello dei sindacati, si diceva, era orientato piuttosto sul “pensiero breveâ€, finalizzato cioè a obiettivi immediati, e comunque di breve periodo; quello dei partiti aveva un orizzonte più lungo, e in certa misura strategico. Tali differenze si sono molto accorciate: partiti e sindacati hanno certamente funzioni diverse, ma entrambi sembrano essere in certa misura diventati prigionieri del “pensiero breveâ€, delle tattiche, delle polemiche, delle contese di corto respiro. Per entrambi sembra essere diventato maledettamente difficile alzare un poco lo sguardo dalle urgenze del giorno per giorno, dalle competizioni interne, dalle lotte intestine. Eppure, alzare la testa dal contingente è un’esigenza fondamentale per le forze politiche, ma lo è, ad avviso di chi scrive, anche per le organizzazioni sindacali. Sarebbe quanto mai necessario riporre un poco gli interessi di parte (se pure legittimi) e i particolarismi organizzativi per provare a riflettere sui problemi reali e sulle esigenze dei lavoratori e del Paese. Solo attraverso l’approfondimento delle analisi e la ricerca di mediazioni congiunte sarà possibile rappresentarli e affrontarli efficacemente.
Dalla storia sindacale alla riflessione comune
Il confronto tra il contesto attuale e le epoche passate implica l’accesso a un terreno metodologico scivoloso: troppo diversi i contesti, troppo diversi i protagonisti coinvolti. Ciononostante, coloro che hanno vissuto diverse stagioni storiche non possono esimersi dal rammentare un periodo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta del secolo scorso, in cui le organizzazioni sindacali, pur reduci da divisioni assai aspre (culminate nelle vicende della scala mobile e nel successivo referendum) e operanti in un quadro generale per molti versi più drammatico (caratterizzato dalla persistenza del terrorismo che aveva colpito duramente il sindacato stesso), dimostrarono la capacità di superare i dissidi e di strutturare occasioni di riflessione congiunta.
In quell’epoca, si promosse un momento di aggregazione che coinvolse alcune delle migliori “menti” del tempo, dando luogo a una delle stagioni di maggiore produzione sindacale e culturale per il movimento italiano. Sebbene il contesto e gli attori siano mutati, altri tempi, altri protagonisti, è utile interrogarsi sulla validità di riprendere tale approccio metodologico basato sulla riflessione e sulla costruzione di un pensiero comune.
Perché non provare a percorrere ancora questa strada?
[1] I quattro comparti per il personale non dirigente sono: 1. Funzioni Centrali (Ministeri, Agenzie Fiscali, Enti Pubblici non Economici Nazionali – es. INPS, ISTAT, ecc.); 2. Istruzione e Ricerca (Scuola, Università , Enti di Ricerca); 3. Sanità (Aziende e Enti del Servizio Sanitario Nazionale); 4. Funzioni Locali (Regioni, Comuni, Province, Camere di Commercio). Il comparto della Presidenza del Consiglio dei Ministri rientra in genere nel comparto Funzioni Centrali, ma storicamente e per alcune specificità può essere trattato separatamente o avere contratti “monocomparto” o sequenze contrattuali dedicate.
[2] Gino Giugni (1927–2009), giurista, accademico e politico italiano, considerato il padre dello Statuto dei lavoratori.
[3] Guido Baglioni (1932–2009), sociologo, studioso dei rapporti sindacali e delle trasformazioni del lavoro. È stato anche un punto di riferimento nel dibattito su come i sindacati potessero adattarsi ai cambiamenti economici e tecnologici.



