Scrivere (e non parlare) a scuola

Le Indicazioni 2025: tra scrittura e oralità

Le nuove Indicazioni 2025 propongono una visione della lingua diversa rispetto a quella presentata nel 2012. Se nelle Indicazioni precedenti si parlava di lingua come strumento per comprendere la realtà, per comunicare e per partecipare alla vita culturale e sociale, oggi il documento sembra porre attenzione soprattutto a una lingua su cui esercitare il controllo più che da usare per pensare e comunicare.

L’enfasi si sposta sulla correttezza, sulle regole da applicare e sui criteri per valutare le prestazioni linguistiche. Si parla più di prestazione e molto meno di partecipazione.

La competenza linguistica a confronto nelle Indicazioni

Nel 2012 si leggeva: “Lo sviluppo di competenze linguistiche ampie e sicure è una condizione indispensabile per la crescita della persona e per l’esercizio pieno della cittadinanza, per l’accesso critico a tutti gli ambiti culturali e per il raggiungimento del successo scolastico in ogni settore di studio”.

Nel 2025, invece, scompare la lingua come diritto, come strumento di cittadinanza.
Non si parla più di garantire a ogni allievo e allieva la possibilità di usare la lingua per esprimersi, farsi capire, partecipare alla vita scolastica e sociale. La lingua, insomma, non è più descritta come strumento di crescita e inclusione.  

La scrittura, in particolare, occupa un posto di rilievo nel documento 2025, anche se il suo valore viene spesso appiattito sulla correttezza formale e sull’adesione alle regole. L’oralità, invece, è trattata in modo marginale, frammentario, senza un’attenzione sistematica.

Eppure, scrittura e oralità sono le due componenti fondamentali della competenza linguistica e comunicativa, e la scuola dovrebbe occuparsi di entrambe, con pari cura. È vero: l’oralità si sviluppa anche fuori dalla scuola, nei contesti familiari e di cura. Ma si tratta di un’oralità quotidiana, spesso limitata. La scuola ha il compito di trasformarla, di rafforzarla, di renderla consapevole. Allo stesso modo, è vero che la scrittura si apprende soprattutto a scuola, ma questo non basta. E, comunque, scrittura e oralità si sostengono a vicenda.

Per questo sorprende che un documento programmatico rivolto alla scuola dedichi oggi così poco spazio all’oralità, come se fosse una competenza accessoria.

In tutti e due i casi il rischio è perdere di vista il valore educativo profondo: scrivere e parlare sono esperienze per imparare a pensare, a capire e a stare con gli altri.

Una promessa mancata

“Scrivere è… vivere. E si apprende a scuola”: un titolo importante per un paragrafo collocato nella Premessa culturale generale. È un titolo che colpisce, sembra voler dire che la scrittura ha a che fare con la vita vera, con l’esperienza, con la crescita delle persone. Ma se si legge il testo l’entusiasmo si spegne in fretta.

Dapprima si parla di “significato umanistico”, creando attese e aspettative, ma poi ci si limita a elencare attività molto scolastiche: carta e penna, calligrafia e corsivo, ordine, coordinazione oculo-manuale.
La scrittura non viene vista come spazio di espressione personale dei propri pensieri, ma come un’attività tecnica, quasi un allenamento della mano. Non si parla di cosa si scrive, né di perché si scrive. Non si parla di idee, né di relazioni.

In questo quadro, la scrittura perde il legame con il pensiero, con la creatività e con l’espressione personale. Non serve a capire, ma a fare bene un compito.

Dopo aver presentato la scrittura come mezzo per esplorare il mondo, per riflettere sull’esperienza, per organizzare il pensiero, si aggiunge che bisogna trasmettere agli studenti il “sentimento dell’importanza della correttezza linguistica e formale in contesti diversi”: la visione normativa della lingua riappare continuamente, in modo ossessivo. La correttezza viene prima della parola, l’adeguatezza prima dell’espressione. Non si parte dal bisogno di comunicare, ma dalla necessità di conformarsi.

Colpisce anche un’altra frase: “Questa attenzione alla buona comunicazione si trasforma in maniera spontanea in un positivo autocontrollo che perdura per tutta la vita”.

Affermazione ad effetto, si, ma che rischia di semplificare troppo. L’idea che tutto questo avvenga in modo spontaneo lascia davvero perplessi. E chi lavora a scuola lo sa: il rispetto della lingua, l’uso consapevole delle parole, la capacità di controllarsi quando si parla o si scrive… non vengono da soli. L’autocontrollo, se davvero vogliamo chiamarlo così, si costruisce piano piano nel tempo, con esperienze concrete: scrivendo, rileggendo, sbagliando, confrontandosi con altri testi…

Chiarezza: un valore, non un obbligo

E, a proposito di frasi enfatiche, ne citiamo un’altra inserita nel paragrafo sulla “Finalità dell’insegnamento”: “La chiarezza deve essere presentata anche come un modo di avere rispetto degli altri: dunque anche come un dovere sociale, oltre che un vantaggio per chi comunica in maniera appropriata”. La chiarezza è un valore importante, certo. Aiuta a comunicare meglio, a farsi capire, a rispettare chi ascolta o legge.

Ma, a ben vedere, la frase citata resta isolata: nel resto del documento non troviamo indicazioni su come aiutare gli studenti a sviluppare davvero questa competenza. Manca una riflessione sugli elementi sui quali bisogna basarsi per aiutare gli allievi a rendere un testo chiaro: il tipo di testo, il contesto degli interlocutori, la differenza tra parlato e scritto ecc. Tutti aspetti fondamentali, che dovrebbero costituire il nucleo di un’educazione linguistica consapevole, capace di portare a una chiarezza autentica, orientata alla comprensione.

La chiarezza non è una qualità assoluta. È sempre relativa a chi legge o ascolta. Un testo può risultare comprensibile per un adulto alfabetizzato, ma difficile per un bambino o per chi ha un’esperienza linguistica diversa. Un bambino che scrive ad una persona lontana può scrivere frasi poco chiare non per mancanza di rispetto, ma perché immagina che l’adulto capisca al volo, senza bisogno di spiegare tutto. Scrive come se l’altro fosse lì con lui. È compito della scuola aiutarlo a capire che, quando si scrive, l’interlocutore non c’è, e bisogna rendergli le cose comprensibili. Ma questo si impara col tempo, con il confronto, con l’ascolto reciproco.

L’educazione alla chiarezza non passa per obblighi, ma per esperienze. E una delle esperienze più utili è la scrittura collettiva: scrivere insieme agli altri, leggere ad alta voce, riscrivere tenendo conto dei suggerimenti ricevuti. È in queste attività che i bambini imparano a chiedersi: “chi mi leggerà?”, “capirà cosa voglio dire?”, “cosa manca?”. L’allievo metterà così ordine nel suo pensiero trovando le parole giuste per dire davvero quello che ha in mente. La chiarezza gli apparirà non come qualcosa che bisogna fare sempre nel modo giusto per essere valutato positivamente, ma come un modo di comunicare meglio con gli altri. Si sviluppa così, piano piano, quella forma di attenzione comunicativa che è alla base del rispetto linguistico.

Per questo motivo, l’idea della chiarezza come dovere sociale, se non accompagnata da una didattica concreta, rischia di restare vuota. Non basta enunciarla. Occorre insegnare cosa vuol dire essere chiari, con chi si sta parlando o scrivendo, in quale situazione, e perché.

Il rischio di determinare una “barriera linguistica”

In questo scenario, la scrittura non è “il miglior viatico per l’apprendimento a scuola e nella vita” come le Indicazioni ci dicono, ma è un insieme di regole da seguire che può diventare una barriera linguistica: chi rispetta tutte le regole, magari perché le ha apprese anche al di fuori della scuola e le applica, va avanti. Chi non riesce ad apprenderle e non ha rinforzi dentro e fuori dall’aula rischia di restare indietro.

A proposito della chiarezza nella scrittura, vale la pena ricordare le parole di Tullio De Mauro, che ci invitano a considerare la leggibilitàcome una responsabilità profonda, non solo stilistica ma sociale: “Chi affida i suoi pensieri a uno scritto, specie se questo vuole informare in modo critico, deve avere ben presenti le fatiche e la complessità del leggere. Anche se non è per niente facile, deve cercare di rendere ciò che scrive il meno difficile possibile, stare attento ai ‘nodi della comprensione’ […] alle parole per lui scrivente ovvie e chiare ma opache per il lettore, agli ammiccamenti da intellettuale che sa tutto”[1].
De Mauro ci ricorda che la chiarezza non si impone: si costruisce. Si costruisce sapendo a chi ci si rivolge, mettendosi nei panni di chi legge, facendo attenzione ai dettagli che possono rendere più difficile la comprensione.
Per questo, dichiarare la chiarezza come dovere sociale senza accompagnarla a una didattica concreta rischia di svuotarne il significato. Come diceva Italo Calvino, bisogna imparare a scrivere “con un occhio alla propria pagina e con l’altro ai lettori che vorremmo raggiungere”. E, aggiungiamo noi, non limitarsi soltanto a proclamarla con enfasi.

Il riassunto

Nelle Indicazioni 2025 il riassunto viene rilanciato con forza. È definito un esercizio “fondamentale per apprendere a scrivere e a pensare”. Una frase apparentemente condivisibile. Ma basta leggere con attenzione il paragrafo dedicato per accorgersi che qualcosa non torna.

Il documento ministeriale specifica che il riassunto è una “riscrittura di tipo ‘esterno’, in cui lo studente non si pone più problemi di ‘creatività di pensiero’, bensì problemi di ‘creatività di forme’”.
In altre parole, si chiede agli studenti di riscrivere ciò che è già stato detto, non di costruire un pensiero proprio. Non si scrive per capire, ma per adattarsi a un modello. La creatività, quella vera, viene spostata: non serve più a generare idee, ma a ridurle; non aiuta a pensare, ma a riformulare ordinatamente il pensiero altrui.

Eppure il riassunto è un testo complesso, soprattutto nella scuola primaria. Le Indicazioni, però, lo propongono come un esercizio valido per tutti, senza considerare le differenze di età, di contesto e di sviluppo delle capacità linguistiche.

Su questo aspetto, il linguista Adriano Colombo ha messo in guardia già da tempo[2]. In un suo articolo leggiamo: “Sintetizzare testi vuol dire padroneggiare la testualità al livello più alto, per cui l’esercizio ha di per sé un elevato valore linguistico e cognitivo. A patto però di aver presenti alcune cautele”.

La prima cautela riguarda l’età degli alunni. Colombo osserva che, tra le strategie di riassunto, ce ne sono anche di basso contenuto intellettuale: “La più banale, la strategia ‘leggi e copia’, consiste nel riportare parti del testo saltandone alcune selezionate in modo più o meno sensato”. E chiarisce subito perché questo approccio è limitante: “È chiaro che questo non aiuta a penetrare l’organizzazione del testo […] né coltiva la capacità di riformulazione, che è così importante per saper scrivere”.

Secondo Colombo, questa strategia è l’unica che molti bambini riescono ad adottare in modo spontaneo: “Fino a una certa età (che per i più coincide forse più o meno con la fine della scuola elementare) questa è l’unica strategia che un bambino può usare”.

Il rischio, allora, è educativo: proporre il riassunto troppo presto può rafforzare abitudini superficiali, che ostacolano la crescita di una scrittura consapevole. Leggiamo ancora cosa ne dice Colombo: “Corriamo il rischio di fissare abitudini banali, poco utili ai nostri scopi educativi, fino a precludere lo sviluppo successivo di capacità più mature”. Per questo l’autore raccomanda con decisione: “Non proporre attività di riassunto nella scuola primaria, se non in forma semplificata e guidata”.

Oltre la trama… c’è di più

Ma c’è anche un altro nodo: non tutti i testi si prestano allo stesso modo a essere riassunti. I testi narrativi e poetici, ad esempio, non sono fatti solo di contenuti, ma anche di ritmo, immagini, parole scelte con cura. Ridurli a una semplice “trama” può voler dire snaturarli. Colombo è molto chiaro anche su questo: “Sintetizzare il contenuto di un testo lirico, o la trama di un testo narrativo possono essere esercizi utili e interessanti, a patto però che si ricordi che in questo caso cambia il senso stesso del riassumere”. E aggiunge: “In un testo letterario l’essenziale si trova appunto in quella superficie [verbale]”.

In altre parole, se si eliminano le descrizioni, si rischia di cancellare proprio il cuore del testo.  Non si tratta solo di “togliere il superfluo”: in un racconto, l’essenziale può trovarsi nelle pause, nei dettagli, nelle parole che evocano. Non tutto si capisce solo dalla trama: a volte è una descrizione lenta, una parola ripetuta, una frase che si ferma a metà, lasciando spazio all’immaginazione del lettore. È lì che si costruiscono emozioni, immagini, significati profondi.

Per questo Colombo suggerisce di non limitarsi ai testi narrativi, come spesso si fa, ma di utilizzare il riassunto soprattutto con i testi espositivi e argomentativi, che hanno una struttura logica più evidente. Scrive: “Insistere quasi esclusivamente sui testi narrativi […] può far perdere di vista altri tipi testuali (espositivo, argomentativo), in genere più astratti e per questo meno facilmente afferrabili; è su questi, credo, che bisognerebbe invece prioritariamente lavorare col riassunto”. È lì che il riassunto può davvero diventare un’occasione per capire meglio come è fatto un testo e per imparare a scrivere con maggiore consapevolezza.

Alla fine, però, colpisce un fatto: nelle Indicazioni 2025 il riassunto viene proposto quasi come una scorciatoia, un modo per superare il blocco iniziale, per “alleggerire l’ansia da foglio bianco”, per scrivere anche quando non si sa da dove cominciare. È come se il riassunto fosse la soluzione semplice, il punto di partenza sicuro.

Ma proprio qui sta il paradosso: quello che viene presentato come esercizio facile è, in realtà, uno dei compiti cognitivi più complessi. Non solo per i bambini, ma per chiunque voglia davvero capire, selezionare, riformulare. Invece di essere trattato come un traguardo, da raggiungere con tempo e maturazione, viene anticipato e standardizzato, trasformandolo in una prestazione scolastica, magari usando strategicamente il “leggi e copia”. E così, mentre si afferma che “scrivere è vivere”, il messaggio rischia di essere un altro: meglio non cercare le proprie parole. Riassumi quelle di qualcun altro.

Una sola lingua giusta?

Anche nel paragrafo dal titolo “Perché si studia italiano” la scrittura è messa al centro. Ma attenzione: non si parla di qualunque scrittura. Si dice che deve avvenire nelle forme “riconosciute come legittime dalla comunità colta”.  Ma chi stabilisce che cos’è la “comunità colta”? E quali varietà linguistiche restano fuori da questa definizione? È una lingua “colta”? O è semplicemente una lingua “corretta”? Corretta per chi, e in base a quali criteri? Nel testo ministeriale questa lingua non viene mai definita chiaramente. Forse perché non si può definire davvero.  È implicita, quasi ideale: proposta come modello astratto da raggiungere, ma senza tener conto dei tanti modi in cui si parla e si scrive nella realtà.

Secondo il vocabolario Treccani, “colto” significa “istruito, fornito di cultura”. Ma quanto deve essere vasto questo sapere per essere accettabile? E soprattutto: chi lo decide? In ogni caso, se parliamo di cultura generale, possiamo almeno provare a discutere su contenuti e riferimenti. Ma quando si parla di lingua, cosa significa esattamente “colta”? Una lingua senza inflessioni? Senza errori? Senza accenti? E chi la parla davvero, nella vita quotidiana?

La lingua proposta sembra alludere a una varietà “alta”, molto distante dal parlato quotidiano. Una lingua che sembra esistere al di fuori delle storie, dei contesti, delle persone.

Nel 2012, invece, si parlava esplicitamente di pluralità linguistica e di educazione linguistica democratica. Le Indicazioni riconoscevano che “una molteplicità di culture e di lingue sono entrate nella scuola” e che l’intercultura rappresentava un modello di convivenza, fondato sul riconoscimento reciproco e sull’identità di ciascuno.

Oggi quella visione sembra scomparsa. Non c’è più spazio per il riconoscimento dei patrimoni linguistici degli studenti. La scuola sembra voler insegnare una lingua sola, corretta, ordinata, valutabile, e in questo modo rischia di allontanare proprio chi avrebbe più bisogno di essere accolto.

Ma la lingua non è fatta solo per essere corretta. È fatta per vivere meglio tra gli altri. E vivere vuol dire anche parlare, ascoltare, intervenire, replicare. Per questo sorprende l’assenza, nel documento 2025, di un’attenzione vera all’oralità. Eppure, senza parola, non c’è comunicazione. Senza ascolto, non c’è democrazia.

L’oralità che manca (o che si perde per strada)

Nel testo delle Indicazioni 2025 l’oralità viene citata, ma in modo frammentario e marginale. Non ha un paragrafo dedicato come abilità linguistica, né viene valorizzata come dimensione fondamentale della competenza comunicativa. Eppure, nel documento del 2012, l’oralità era considerata parte centrale dell’educazione linguistica: “la comunicazione orale nella forma dell’ascolto e del parlato è il modo naturale con cui il bambino, ad un tempo, entra in rapporto con gli altri e dà i nomi alle cose esplorandone la complessità”. Inoltre si sottolineava che “la pratica delle abilità linguistiche orali nella comunità scolastica passa attraverso l’esperienza dei diversi usi della lingua: comunicativi, euristici, cognitivi, espressivi, argomentativi” e si parlava della “predisposizione di ambienti sociali di apprendimento idonei al dialogo, all’interazione, alla ricerca e alla costruzione di significati, alla condivisione di conoscenze, al riconoscimento di punti di vista e alla loro negoziazione”.

Non solo. Il diritto alla parola sancito dall’articolo 21 della Costituzione era esplicitamente richiamato: “Parte integrante dei diritti costituzionali e di cittadinanza è il diritto alla parola […] il cui esercizio dovrà essere prioritariamente tutelato e incoraggiato in ogni contesto scolastico”.

Oggi, invece, tutto questo sparisce.

Quando si svaluta l’oralità, o la si riduce a funzione strumentale della scrittura, si nega a molti studenti la possibilità di partecipare. In particolare a bambini e bambine non italofoni, a cui si chiede di abbandonare la lingua madre senza offrire un vero diritto di parola, né un percorso che valorizzi il loro repertorio linguistico.

La parola “oralità” compare nel testo 2025 una sola volta, inserita tra le “conoscenze” alla scuola primaria. Si dice: “Non andrà trascurata l’oralità”, e ci si riferisce all’ascolto di testi e all’intervento in una conversazione o in una discussione. Le abilità orali ricompaiono nella sezione dedicata alla letteratura, non alla lingua, e sono collegate al “raccontare” o all’“intervento in una discussione”.

Qualche obiettivo sparso qua e là compare sia alla primaria che alla scuola secondaria, ma senza un impianto organico, senza progressione, senza attenzione alla costruzione della competenza comunicativa. Solo per dare un contentino…

Questione, purtroppo, di scelte

Non è una svista: è una scelta. La lingua orale, l’ascolto e il parlato non sono trattati come competenze da costruire con cura. Eppure parlare e ascoltare si imparano. Non bastano due chiacchiere per educare all’oralità, né basta far raccontare un episodio per dire che si è lavorato sull’ascolto.

La lingua parlata ha regole, strategie, contesti propri. E questo vale non solo per gli scambi familiari e colloquiali, ma ancor più nei contesti formali, come quello scolastico. A scuola, ad esempio, è importante imparare a usare un registro più preciso e adeguato al contesto, capace di distinguere tra il linguaggio quotidiano e il linguaggio delle discipline. Bisogna saper organizzare un intervento in modo chiaro e coerente, partecipare a una discussione rispettando i turni di parola, sostenere un’argomentazione davanti ai pari.

E l’ascolto non è un atto passivo: è un’abilità attiva, critica, relazionale. Parlare non è solo “esprimersi”: è sostenere una conversazione, argomentare, ascoltare, replicare.

Sono competenze linguistiche, ma anche civili e democratiche. Perché la voce e l’ascolto sono il primo esercizio di cittadinanza. Educare all’oralità significa insegnare come funziona la comunicazione reale, sociale, pubblica, umana. Ma il documento su questo tace. E così, chi ha più bisogno di far sentire la propria voce, e di essere ascoltato, resta fuori.

Va detto con forza: l’oralità non è una variante povera della lingua. È la sua forma più viva. Trascurarla è una rinuncia educativa e civile. O peggio: una scelta ideologica. Significa rinunciare a formare cittadini capaci di confrontarsi, di partecipare, di far sentire la propria voce.

Se la scuola non riconosce il diritto di parola, allora non sta educando cittadini. Sta educando solo all’obbedienza.


[1] Tullio De Mauro, Prefazione a L. Lumbelli, La comprensione come problema, Laterza, Bari-Roma,2009.

[2] Tipi e forme testuali nel curricolo di scrittura