Setting e streaming e il rischio della selezione occulta

Ma una scuola più giusta è possibile

Ridurre la varianza tra le classi e all’interno delle classi rappresenta uno degli obiettivi principali delle istituzioni scolastiche non solo in Italia, ma in tutto il mondo. La sfida educativa contemporanea si misura con l’evidenza che gli studenti non sono mai “uguali”, ma profondamente diversi per origini, ritmi di apprendimento, stili cognitivi, motivazioni e condizioni familiari. Questa eterogeneità genera inevitabilmente, soprattutto in alcune discipline, un divario crescente: da un lato, alunni che raggiungono livelli di eccellenza; dall’altro, studenti che faticano persino a conseguire le competenze di base. Con il tempo, i primi possono sviluppare disinteresse e frustrazione per la mancanza di stimoli adeguati, mentre i secondi accumulano lacune tali da compromettere la loro permanenza nel percorso scolastico, alimentando fenomeni di demotivazione, disaffezione allo studio, dispersione e abbandono.

Differenziazione e personalizzazione

In questo contesto, il tema della differenziazione e della personalizzazione dell’insegnamento assume un ruolo cruciale nella costruzione di un apprendimento realmente efficace, equo e inclusivo. La complessità crescente delle classi – determinata da fattori culturali, linguistici, cognitivi, affettivi e socio-economici – impone alla scuola di ripensare continuamente le proprie modalità organizzative e didattiche, superando modelli rigidi e trasmissivi in favore di una didattica capace di intercettare i bisogni educativi di tutti.

Tra le strategie proposte per rispondere a questa sfida, si collocano due pratiche tanto diffuse quanto controverse, il setting e lo streaming (conosciuto anche come tracking), che si basano sulla suddivisione degli studenti in gruppi omogenei per rendimento scolastico. L’intento dichiarato è quello di facilitare la gestione della classe e personalizzare l’insegnamento, concentrando l’attenzione su gruppi con esigenze simili. Tuttavia, tali strategie sollevano interrogativi profondi dal punto di vista pedagogico, sociale e psicologico, mettendo in discussione i valori stessi dell’inclusione e della giustizia educativa.

Cosa dice la ricerca scientifica sulla reale efficacia di queste pratiche? Quali impatti producono sul benessere degli studenti, sul clima di classe e sull’idea stessa di scuola come diritto universale e bene comune? Comprendere a fondo queste dinamiche significa interrogarsi su che tipo di scuola vogliamo costruire: una scuola che seleziona e gerarchizza o una scuola che include, valorizza e trasforma? Una scuola capace di vedere nella diversità un’opportunità di crescita collettiva, e non un ostacolo da correggere o marginalizzare.

Cosa sono setting e streaming?

Il setting, dunque, consiste nel dividere gli studenti all’interno dello stesso anno scolastico in gruppi di livello per ciascuna materia. Questo permette agli insegnanti di modulare i contenuti e i metodi in base al livello medio del gruppo. Lo streaming, invece, comporta la suddivisione degli alunni in classi fisse e stabili per tutte o quasi tutte le materie, generando gruppi omogenei per rendimento complessivo. In pratica, uno studente collocato in uno stream “medio” o “basso” frequenterà tutte le lezioni (matematica, scienze, storia, ecc.) con lo stesso gruppo di compagni, senza possibilità immediata di spostamento tra i livelli in cui si colloca nelle diverse discipline.

Entrambe le pratiche sono state pensate per agevolare l’insegnamento, poiché riducono l’ampiezza della variabilità interna alle classi e permettono di adottare strategie didattiche più mirate. Tuttavia, queste soluzioni organizzative presentano anche rischi importanti, tra cui la cristallizzazione delle aspettative e delle opportunità di apprendimento, specialmente quando non vengono accompagnate da un monitoraggio continuo dei progressi degli studenti e da una struttura flessibile di riallocazione tra i gruppi. In alcuni sistemi educativi, come quello britannico, lo streaming può influenzare perfino il tipo di curriculum seguito dagli studenti, ad esempio determinando l’accesso a percorsi accademici o professionali diversi, con effetti a lungo termine sul futuro scolastico e lavorativo degli alunni.

L’illusione dell’efficienza didattica

L’idea di fondo alla base di queste pratiche è che, raggruppando studenti con livelli simili, gli insegnanti possano adattare meglio la didattica, offrendo il giusto livello di sfida e riducendo la necessità di differenziare gli interventi all’interno di una classe troppo eterogenea. In teoria, ciò dovrebbe favorire una maggiore efficacia didattica, con lezioni più fluide e mirate, in grado di stimolare tutti gli studenti secondo le loro potenzialità. Tuttavia, le evidenze raccolte nel Teaching and Learning Toolkit dell’Education Endowment Foundation (EEF), un ente britannico indipendente che analizza in modo sistematico l’efficacia delle strategie educative sulla base di ricerche scientifiche, mostrano che setting e streaming, in media, non producono alcun progresso misurabile nel rendimento degli studenti.

Inoltre, i benefici complessivi sono disomogenei: mentre alcuni studenti ad alto rendimento possono ottenere un vantaggio limitato, quelli con rendimento più basso risultano penalizzati, soprattutto in termini di fiducia in sé stessi, motivazione e coinvolgimento. Tale disuguaglianza strutturale può portare a una segregazione di fatto all’interno della scuola, dove le opportunità educative non sono equamente distribuite.

La rigidità di tali gruppi, se non accompagnata da revisioni frequenti e da criteri di valutazione dinamici, può compromettere la crescita dell’alunno, determinando aspettative inferiori da parte dei docenti e interiorizzazione di un’identità scolastica “debole” da parte dello studente. Come indicato anche dall’Education Endowment Foundation, le scuole dovrebbero valutare con attenzione se esistano alternative più efficaci, come il supporto individuale, il lavoro in piccoli gruppi e l’adozione di pratiche didattiche più inclusive e adattive, che permettano a tutti gli alunni di sviluppare le proprie competenze a prescindere dal punto di partenza.

Il rischio delle etichette e dell’immobilismo

Un problema centrale di queste pratiche è la difficoltà di rimuovere le etichette assegnate agli studenti una volta inseriti in un determinato gruppo. Chi viene collocato in un gruppo “basso” non solo rischia di ricevere un’istruzione meno stimolante, ma soprattutto può sviluppare una percezione negativa di sé, interiorizzando un senso di inadeguatezza e minor valore. Questo fenomeno, noto come “effetto etichetta” o “profezia che si autoavvera”, ha conseguenze rilevanti sul piano psicologico e motivazionale.

Ciò accade non soltanto per difficoltà oggettive, ma anche a causa di valutazioni iniziali approssimative, aspettative inconsce da parte degli insegnanti e bias culturali. Un semplice errore di classificazione, se non corretto tempestivamente, può influenzare l’intero percorso scolastico dello studente, precludendo l’accesso a curricoli più avanzati o a opportunità formative di qualità.

La ricerca di Becky Francis sottolinea, inoltre, la necessità di monitorare con attenzione le pratiche di raggruppamento nelle scuole, promuovendo strutture flessibili e criteri trasparenti, nonché formazione specifica per i docenti volta a riconoscere e contrastare gli stereotipi inconsapevoli. Solo in questo modo è possibile garantire a tutti gli studenti pari dignità educativa e reale mobilità tra i gruppi, evitando che le decisioni iniziali si trasformino in barriere permanenti al successo scolastico.

II caso delle scuole secondarie

In molte scuole secondarie del Regno Unito, il setting è utilizzato per materie come matematica e inglese, dove si ritiene che la differenziazione per rendimento possa migliorare i risultati attraverso un insegnamento più mirato. Tuttavia, questa prassi può portare a situazioni paradossali e talvolta ingiuste: ad esempio, uno studente brillante ma timido, o con uno stile cognitivo non convenzionale, potrebbe non emergere durante una valutazione sommativa iniziale, risultando sottovalutato e di conseguenza inserito in un gruppo con rendimento inferiore. Una volta etichettato, l’alunno potrebbe ricevere meno stimoli, meno attenzioni individualizzate e curricoli meno ambiziosi.

Se non è prevista una revisione frequente dei gruppi – ad esempio attraverso valutazioni formative continue, osservazioni in classe, feedback orali e colloqui personalizzati – quello studente rischia di rimanere imprigionato in un contesto poco stimolante, senza opportunità concrete di miglioramento o di riconoscimento del proprio potenziale. In tal senso, anche le famiglie possono svolgere un ruolo importante, segnalando eventuali discrepanze tra il potenziale percepito e il rendimento assegnato.

È emblematico il caso di una scuola londinese che, dopo aver notato un elevato numero di studenti di origine migrante nei gruppi inferiori di matematica, ha introdotto una revisione settimanale dei gruppi basata su criteri dinamici e prove multiple, riuscendo nel tempo a riequilibrare la composizione delle classi e migliorare i risultati complessivi senza dover ricorrere allo streaming rigido. Questo dimostra che la flessibilità e l’osservazione attenta del singolo studente possono fare la differenza nella creazione di ambienti educativi più equi e stimolanti.

Il contesto italiano, dinamiche implicite e influenza dei genitori

In Italia, il setting e lo streaming non sono pratiche formalmente istituzionalizzate nella scuola pubblica. Tuttavia dinamiche analoghe possono manifestarsi nella fase di formazione delle classi, specialmente nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Queste si traducono spesso nella creazione di sezioni con composizioni eterogenee solo in apparenza, ma in realtà omogenee per rendimento, comportamento o livello socio-culturale delle famiglie. L’assegnazione degli insegnanti, dei progetti educativi e persino della dotazione tecnologica può variare da sezione a sezione, creando percorsi didattici di fatto differenziati, anche senza una dichiarazione formale di streaming.

Le scuole, pur muovendosi nel rispetto dell’autonomia e delle indicazioni normative e ministeriali, subiscono frequentemente la pressione delle famiglie nella fase di iscrizione. I genitori, soprattutto quelli con maggiore capitale culturale, chiedono che i propri figli vengano inseriti in classi considerate “forti”, con insegnanti ritenuti migliori o con compagni giudicati più stimolanti. Questa pressione contribuisce alla costruzione di vere e proprie gerarchie interne, anche laddove non esistano criteri ufficiali di selezione.

Angelo Paletta, docente di Economia Aziendale all’Università di Bologna, ha evidenziato come questa tendenza rifletta una trasformazione profonda del rapporto tra famiglia e istituzione scolastica: la cosiddetta “customerizzazione” della scuola pubblica. In tale modello, i genitori assumono il ruolo di clienti che cercano di orientare le scelte organizzative in base agli interessi individuali dei propri figli, piuttosto che al bene comune. Paletta sottolinea che questa logica, se non controbilanciata da una forte leadership educativa ispirata ai principi di equità e giustizia sociale, rischia di svuotare di significato la missione pubblica della scuola, introducendo meccanismi di selezione occulta, ghettizzazione e riproduzione delle disuguaglianze.

Un’analisi attenta della realtà scolastica italiana mostra che tali dinamiche possono assumere forme sottili ma pervasive, con effetti di lungo termine sulla coesione del gruppo classe, sul clima educativo e sull’effettiva mobilità formativa degli studenti. È dunque compito delle scuole sviluppare criteri trasparenti e condivisi per la formazione delle classi, promuovendo un dialogo costruttivo con le famiglie e contrastando le spinte alla segmentazione sociale attraverso politiche inclusive, progettualità pedagogica diffusa e una visione etica dell’organizzazione scolastica.

Alternative più eque ed efficaci

Invece di creare classi fisse per livello, la scuola dovrebbe adottare strategie più flessibili e inclusive, capaci di valorizzare la diversità all’interno dei gruppi. Una delle pratiche più efficaci è il Peer learning (tutoraggio tra pari), in cui studenti con competenze più sviluppate supportano i compagni in difficoltà, favorendo non solo il recupero ma anche lo sviluppo di empatia e responsabilità. Altre strategie includono il lavoro in Cooperative learning caratterizzato da gruppi eterogenei con compiti differenziati tra i componenti, che permettono di costruire percorsi di apprendimento cooperativi e adattivi, in cui ogni studente può contribuire secondo le proprie capacità.

L’uso della tecnologia, inoltre, consente una personalizzazione dell’apprendimento senza frammentare il gruppo classe. Attraverso l’intelligenza artificiale, le piattaforme digitali, le applicazioni educative e gli ambienti virtuali, è possibile offrire esercizi graduati, feedback immediato e percorsi di studio personalizzati, rispettando i tempi e gli stili cognitivi di ciascuno. Un esempio è l’uso di software adattivi per la matematica o per la comprensione del testo, che si adeguano al livello dello studente e si evolvono con lui.

Fondamentale è garantire che tutti gli studenti, a prescindere dal rendimento iniziale, abbiano accesso a un curriculum ricco, stimolante e culturalmente rilevante, proposto da docenti competenti, riflessivi e ben formati alla didattica inclusiva. La qualità dell’insegnamento deve essere equamente distribuita, e non riservata solo a determinate classi. Solo così si potrà realizzare una scuola in grado di promuovere l’equità, senza rinunciare all’eccellenza.

Il ruolo delle aspettative e della formazione docenti

Un altro aspetto chiave riguarda le aspettative degli insegnanti, che rappresentano una componente spesso sottovalutata, ma cruciale nel determinare l’andamento scolastico degli studenti. Numerosi studi di pedagogia e psicologia dell’educazione dimostrano che l’atteggiamento dell’insegnante, le sue convinzioni implicite e le aspettative che nutre verso i propri alunni influenzano profondamente il comportamento, la motivazione e il rendimento degli studenti. Se un docente, anche inconsapevolmente, abbassa le sue aspettative nei confronti di un gruppo, ad esempio perché etichettato come “debole” o “problematico”, gli studenti tenderanno a interiorizzare questa visione e a conformarsi a tali previsioni, riducendo l’impegno e la fiducia in sé stessi. Questo fenomeno è noto come effetto Pigmalione o effetto Rosenthal.

Per contrastare questa dinamica, la formazione degli insegnanti deve includere una riflessione approfondita sull’impatto delle aspettative, sui meccanismi di stereotipizzazione e sulle pratiche di raggruppamento. È fondamentale promuovere una cultura scolastica basata su alte aspettative per tutti, in cui l’errore venga valorizzato come parte del processo di apprendimento e in cui ciascun alunno sia considerato un soggetto in evoluzione. Percorsi di aggiornamento professionale centrati sulla metacognizione docente, sull’osservazione partecipata e sull’uso di strumenti di valutazione equi e formativi possono rappresentare un punto di partenza importante per sviluppare un approccio più consapevole e inclusivo all’insegnamento.

In sintesi: una scuola più giusta è possibile

In definitiva, setting e streaming, al fine di evitare che diventino pratiche poco inclusive, richiedono una gestione attenta e consapevole, fondata su principi pedagogici solidi e su un costante monitoraggio degli effetti prodotti sugli studenti. Le evidenze empiriche, in particolare quelle raccolte dalla Education Endowment Foundation e da studi internazionali, suggeriscono che i benefici scolastici siano modesti e asimmetrici, mentre i rischi sociali, psicologici e culturali risultano significativi, soprattutto per gli studenti provenienti da contesti fragili o meno valorizzati.

La scuola che voglia utilizzarle dovrebbe interrogarsi criticamente sull’impatto di tali strategie, chiedendosi se esse offrano davvero pari opportunità di apprendimento o se contribuiscano a cristallizzare le disuguaglianze sociali, economiche e culturali già esistenti. Una scuola equa non è quella che seleziona, ma quella che accoglie, accompagna e sfida tutti gli studenti nel loro percorso di crescita.

La vera inclusività richiede una cultura professionale condivisa, una leadership educativa forte e una progettualità didattica che valorizzi la pluralità degli stili cognitivi, delle intelligenze, dei ritmi e delle esperienze. Costruire percorsi flessibili, motivanti e accessibili non significa abbassare il livello di aspettative, ma al contrario offrire a ciascuno gli strumenti per elevarsi. In questo senso, la differenziazione non può tradursi in esclusione, ma in un’opportunità per rendere la scuola un ambiente realmente trasformativo, in cui ogni studente venga riconosciuto come portatore di valore e potenzialità, al di là di ogni etichetta o giudizio iniziale.

Un sistema educativo realmente equo dovrebbe sapersi interrogare costantemente, investendo in ricerca, formazione e dialogo tra tutti gli attori coinvolti – dirigenti, insegnanti, famiglie e studenti stessi. È necessario promuovere una visione sistemica della scuola, in cui la valutazione non sia solo strumento di selezione, ma leva per la crescita e il miglioramento continuo. A tale scopo, è auspicabile incentivare pratiche di auto-valutazione scolastica, comunità professionali di apprendimento, mentoring tra docenti e sperimentazione di modelli innovativi, capaci di coniugare personalizzazione e coesione.

Come sottolineato anche dall’UNESCO, l’istruzione inclusiva non è un’opzione aggiuntiva, ma una condizione necessaria per il pieno sviluppo democratico delle società. Solo una scuola capace di accogliere e valorizzare la diversità potrà preparare cittadini consapevoli, critici e solidali, pronti ad affrontare le sfide del presente e del futuro con competenze, resilienza e umanità.