Insegnare ai bambini con ADHD

Guardare oltre il comportamento

Quando si va alla ricerca delle teorie di Korczak, Rogers, Goleman o Vygotskij per cercare di affrontare i problemi che si incontrano con i bambini con ADHD (Disturbo da deficit di attenzione e iperattività) non avviene solo per consolidare la propria base teorica di riferimento, ma per cercare dalle loro ricerche anche le strategie migliori per operare ed ottenere i risultati sperati.

Una bussola silenziosa

Mi riferisco a questi autori perché nel mio lavoro con bambini con tali disturbi sono stati una bussola silenziosa ma precisa. Korczak mi ha insegnato che il bambino va guardato non per ciò che fa, ma per ciò che vive. Anche quando urla, anche quando rifiuta tutto, anche quando sembra irrecuperabile. Rogers mi ha dato le parole per qualcosa che già sentivo: l’educazione è relazione autentica. L’ascolto vero, l’accettazione incondizionata, la fiducia che si costruisce a piccoli passi: tutto parte da lì. Vygotskij ci ricorda che ogni bambino può imparare, ma solo se qualcuno lo accompagna nella sua zona di sviluppo. Il bambino con ADHD ha bisogno di presenza, non di correzione continua. Goleman mi ha mostrato che le emozioni non sono un contorno: sono parte centrale della crescita. Senza educazione emotiva, tutto si appiattisce. E questo vale ancora di più nei bambini con ADHD. Sono convinta che la scuola primaria sia il terreno più delicato e decisivo. È lì che si forma l’identità, la fiducia in sé, il modo di vivere le emozioni. Nei bambini con ADHD, i primi due anni della scuola primaria (6-8 anni) sono i più critici. C’è impulsività, c’è rabbia. C’è, spesso, anche un disturbo oppositivo che amplifica tutto. Mi è capitato di vedere un bambino rovesciare un banco e scoppiare a piangere subito dopo, da solo, con la testa nascosta tra le braccia. Lì ho capito che il problema non era la regola che aveva infranto, ma la mancanza di uno spazio sicuro in cui sentirsi accolto.

Strategie che funzionano (e che uso davvero)

Per questo il primo passo non può essere la regola, ma la relazione. Quindi ho cercato di fissare nella mia relazione educativa non regole da rispettare ma strategie funzionali al loro modo di sentire e attente ad ogni loro segnale.

  • Stabilire un rapporto di fiducia, prima ancora di “insegnare” qualcosa. Il bambino deve sapere che può fidarsi di te. Che non sei lì per sgridarlo, ma per contenerlo e guidarlo.
  • Trovare uno spazio fisico e psicologico per permettere uno sfogo fisico regolare. Nei primi mesi propongo pause attive programmate, fatte di corsa all’aperto, attività con il canestro, salto con la corda, piccoli percorsi motori. Evito totalmente (almeno all’inizio) tablet o dispositivi digitali come “premio†o “sfogo†perché questi bambini hanno bisogno di corpo, non di pixel.
  • Scandire visivamente e anticipatamente la giornata. Entrare per la prima volta nella scuola potrebbe essere uno shock per molti bambini, figuriamoci per chi ha un disturbo da deficit di attenzione iperattiva. Passare dalla scuola dell’infanzia alla primaria può rappresentare una situazione per molti frustrante e anche ingestibile. Allora cerco di creare una routine molto chiara e rassicurante, dove il bambino sa cosa lo aspetta… e sa che potrà anche “liberarsene”.
  • Dare senso ai momenti “di sfogoâ€. All’inizio li uso per creare relazione, poi diventano spazi di scarico emotivo. Quando la fiducia si è stabilita, possono diventare anche un rinforzo: “Facciamo questo, poi andiamo a lanciare due tiri a canestro”.

Come entrare nella vita emotiva dei bambini

Ho visto bambini che all’inizio rifiutavano tutto, persino di entrare in classe, incapaci di regolarsi, chiedere aiuto, collaborare. Il cambiamento è possibile. Ma deve partire da noi. Lavorando con questi bambini, mi sono resa conto che non esiste un modo “speciale di insegnare a loroâ€. Esiste un modo corretto e umano di insegnare, e basta. E questo modo fa bene a tutti i bambini, in particolare a quelli che hanno bisogni educativi speciali. Un insegnante non è solo colui che trasmette contenuti, è un adulto che, ogni giorno, entra nella vita emotiva dei bambini. E lo fa con le parole, con i toni di voce, con lo sguardo, con la coerenza (o l’incoerenza) delle sue reazioni. Un insegnante che entra in classe con autoritarismo e con un atteggiamento che marca la distanza, può spegnere l’autostima di chiunque. Un insegnante che sa ascoltare, che conosce e riconosce, può invece cambiare il corso di una vita. E questa non è retorica.

Ogni sguardo conta

Nella scuola primaria, ogni sguardo conta. Perché lì si costruisce l’identità. Lì si stabilisce se un bambino penserà: “ce la posso fare†oppure “sono io il problemaâ€. In tanti casi, l’inclusione è solo una parola formale o, tutt’al più, un insieme di procedure da seguire. Si scrive, si dichiara, si certifica. Ma non si vive. Includere non significa adattare un compito, differenziare o personalizzare la verifica. Significa guardare il bambino prima ancora che focalizzare l’attenzione sul suo comportamento. È creare una relazione, anche con chi ti respinge. È conoscere i suoi interessi, usare il linguaggio che capisce, regolare il proprio modo di parlare per renderlo accessibile. E questo vale:

  • per il bambino con ADHD;
  • per il bambino con DSA che si sente lento;
  • per quello con difficoltà socio-culturali;
  • o semplicemente per chi ha una fragilità emotiva.

Un insegnante rigido, giudicante, o affrettato nel classificare può:

  • spegnere la motivazione;
  • contribuire a creare senso di fallimento precoce;
  • indurre frustrazione, rabbia, fuga emotiva.

È un approccio che non funziona, fa male al bambino, ma anche allo stesso insegnante, che si ritrova a vivere conflitti continui, più o meno consapevole che gli strumenti educativi che utilizza non portano ai risultati sperati.

Insegnare come

La scuola può essere il primo posto dove un bambino sperimenta:

  • la fiducia;
  • l’ascolto senza giudizio;
  • l’accoglienza anche nella crisi.

Questo è possibile solo se l’insegnante non adotta il modello autoritario e si apre, per esempio, a un modello rogersiano, ad un approccio, cioè, centrato sulla persona, quindi: empatia, congruenza, accettazione incondizionata, proprio per favorire la crescita e il cambiamento. Si tratta, innanzi tutto, di vedere il bambino prima ancora del comportamento o grazie al comportamento, anche quando urla o rovescia i banchi.

Oggi il fenomeno dell’aggressività sta aumentando fortemente, a volte è accompagnato da episodi di pura violenza. È un fenomeno collegato anche alla dispersione scolastica. Ma tutto questo non nasce dal nulla. Anche se ci sono situazioni sociali che non sempre la scuola può controllare, ci sono però comportamenti educativi che possono influire positivamente e mitigare il fenomeno.

Pochi giorni fa (esami di Stato 2025), le parole di uno studente sono diventate virali sui social: “A 18 anni è l’unica volta che gli adulti mi ascoltano davvero. Voglio essere guardato, non giudicatoâ€.

Il disagio scolastico con tutte le conseguenze più o meno gravi nasce quando nessuno insegna, fin dai primi anni, cosa vuol dire essere visti, ascoltati, compresi. Lì avviene la vera svolta. Non significa “lasciare fareâ€, significa essere una presenza stabile e autorevole, che contiene, orienta, guida, che sa dire “no†con rispetto, che costruisce alleanze vere con il bambino e con la famiglia. Ogni bambino fragile ci chiama a ripensare in profondità a come insegniamo, non solo a cosa insegniamo. E il cambiamento può partire da noi, fin dal primo giorno di scuola.