Dagli stranieri alla nuova italianità

Una identità in costruzione

Nell’Italia del terzo millennio, scenario sempre più multietnico e crocevia di culture e storie, il concetto di italianità si trova al centro di una profonda e necessaria revisione. La domanda da porsi non è più “chi è italiano?”, ma “che cosa rende italiano un cittadino che oggi vive nel nostro Paese?”. La risposta, cruciale in un’epoca di profonde trasformazioni sociali, non può più risiedere unicamente in elementi statici come l’origine geografica, il cognome o il colore della pelle, ma in un progetto in costante evoluzione, dinamico e plurale, da costruire tutti insieme giorno dopo giorno.

In cosa consiste l’italianità

Oggi l’italianità va oltre la biologia o la tradizione per abbracciare la cultura, la lingua, i valori condivisi e il senso di appartenenza. Essere italiani nel 2025 significa parlare l’italiano, amare il cibo, la musica e l’arte del nostro Paese, conoscere la nostra storia e sentirsi parte di una comunità nazionale anche se le proprie origini familiari affondano le loro radici in Africa, in Asia o in Sud America. Perché l’italianità autentica, quella che guarda al futuro, si costruisce aderendo ai valori democratici della nostra Carta costituzionale, partecipando attivamente alla vita della società in cui si vive e contribuendo alla sua crescita. Questo non vuol dire rinnegare le proprie radici; al contrario, la nuova italianità può e deve essere un ponte tra culture, un’identità arricchita dalla diversità.

L’italianità si impara a scuola

Questa ridefinizione, culturale prima ancora che politica, trova il suo campo di applicazione più fertile e significativo nella scuola italiana. Per gli alunni stranieri – spesso ragazzi di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia ma bloccati in un limbo identitario dalle attuali leggi sullo ius sanguinis –il primo e più potente laboratorio di vera italianità è proprio la scuola, dove non solo imparano la lingua e la storia, ma assorbono i ritmi culturali e i codici sociali del nostro Paese. Tutto questo si traduce in una didattica interculturale che non si limita a ‘tollerare’ le differenze, ma le acquisisce come risorsa educativa, come arricchimento del tessuto socio-culturale. Perché le storie, le lingue e le culture di origine degli alunni, diventando moltiplicatori di conoscenza, rappresentano un’opportunità per arricchire i programmi di studio. Ed è solo abbandonando una visione etnicamente omogenea e abbracciando la diversità come un valore aggiunto che l’Italia potrà configurarsi come un Paese democratico, giusto e inclusivo, all’altezza sia della sua storia millenaria fatta di contaminazioni, sia del suo futuro inevitabilmente plurale.

Bambini e ragazzi con background migratorio rappresentano, dunque, nelle aule italiane il futuro multiculturale della nazione. E la loro presenza tra i banchi di scuola è la prova concreta che l’italianità si apprende e si vive quotidianamente; non si misura con l’albero genealogico o con rigidi criteri anagrafici ma, come una casa comune, se ne costruisce la solidità fondandosi su valori condivisi.

Diritto di appartenenza e riconoscimento

Questa trasformazione identitaria, quasi un passaggio epocale, richiede di superare la paura atavica dell’alterità e di imparare a riconoscersi nei volti dei nuovi cittadini.   La sfida per la scuola italiana, che è il contesto in cui questo processo è più evidente e vitale, si misura su due fronti: da un lato, garantire la piena inclusione e il successo formativo di questi studenti fornendo loro gli strumenti linguistici e culturali necessari; dall’altro, valorizzare il loro capitale culturale d’origine (lingue madri, tradizioni, prospettive globali) come risorsa per l’intera comunità scolastica.  Da qui, la necessità, da parte del corpo docente, di validare innanzitutto il loro diritto di appartenenza, ovvero riconoscere che, sebbene arricchita da una duplice origine culturale, l’identità dei ragazzi di origine straniera è già pienamente italiana.

Inoltre, si tratta di insegnare loro che l’italianità si manifesta con la scelta quotidiana di esserci e di contribuire al bene della comunità mediante la partecipazione attiva: il partecipare e l’aderire ai valori costituzionali, che trascendono qualsiasi confine etnico, diventano il vero criterio di cittadinanza del millennio in corso. Non conta la purezza del sangue né da dove si proviene, ma come si sceglie ogni giorno di essere parte della collettività che ci accoglie.

Una definizione di italianità poco inclusiva

Esempio emblematico, la legge sulla cittadinanza: in Italia, un bambino nato da genitori stranieri, anche se cresciuto sul nostro suolo, non è automaticamente cittadino italiano; deve attendere il compimento dei 18 anni per farne richiesta, a patto di aver risieduto legalmente e ininterrottamente nel Paese.

Questo significa che, per tutta l’infanzia e l’adolescenza, questi ragazzi vivono da ‘stranieri’ in quella che percepiscono come la loro unica casa: una contraddizione profonda che mostra quanto la definizione di italianità tardi ad essere inclusiva.

La senatrice a vita Liliana Segre ha spesso sottolineato, nel contesto del dibattito parlamentare sullo ius soli, l’importanza di concedere la cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia. Ha motivato questa posizione richiamando la sua esperienza personale di bambina ebrea esclusa dalla società dalle leggi razziali, evidenziando il valore fondamentale dell’inclusione. Il concetto di appartenenza nazionale deve fondarsi su partecipazione e condivisione: l’impegno costante e produttivo, l’interesse e l’adesione ai progetti scolastici, il riguardo alla rappresentanza studentesca, il rispetto delle regole e la promozione dell’uguaglianza sono l’atto pratico che trasforma il senso di appartenenza in cittadinanza effettiva.

Sono proprio questi alunni che contribuiscono a trasformare il volto dell’Italia rendendolo più plurale e globale. Essi non solo si integrano, ma innovano l’identità nazionale dimostrando che l’italianità del futuro non comporterà una rinuncia, bensì una sintesi dinamica e inclusiva di mondi diversi sotto i valori della nostra democrazia. Italianità, quindi, non come un’eredità da custodire gelosamente, ma come concetto aperto, vivo, plurale, in grado di accogliere chi sceglie ogni giorno di essere parte di questa nazione, sempre più interconnessa, e di indicare un’appartenenza che si costruisce con la partecipazione, il rispetto e la condivisione. Sotto questo rispetto la scuola non è soltanto il luogo dove si acquisiscono competenze, ma il primo e più potente laboratorio di cittadinanza attiva e di italianità destinato ad elevarsi a pilastro fondamentale dell’educazione civica e dell’inclusione.

Il muro invisibile del nazionalismo culturale

Avere l’opportunità di riscoprire l’italianità attraverso gli occhi di chi, da altri mondi, ha scelto di chiamarla casa è determinante per la nostra nazione; ciononostante, la percezione di cosa significhi davvero essere italiani non è cambiata con la stessa rapidità con cui è progredito il contesto sociale. Perché l’idea di italianità, spesso ostaggio di un nazionalismo culturale nutrito di stereotipi che alimentano la paura per il diverso, non si è ancora adeguata ai tempi. Oggi in Italia, culla del multiculturalismo, si parla di inclusione e convivenza, di integrazione e accoglienza, ma nella realtà l’idea di italianità resta spesso legata ad una visione rigida, ad un’immagine tradizionale, ‘bianca’ e cattolica, che esclude chi non corrisponda a determinati standard culturali o anagrafici. E finché l’identità nazionale continuerà ad essere usata come strumento di esclusione anziché di unione, sarà difficile parlare davvero di progresso.

Milioni di persone che vivono in Italia, parlano italiano, lavorano, studiano e pagano le tasse, ma non vengono ancora considerate pienamente italiane. Bambini nati e cresciuti sul nostro suolo da genitori stranieri devono spesso giustificare la loro presenza, spiegare il loro diritto di sentirsi parte di questo Paese. Nelle scuole italiane, ad esempio, ci sono alunni con genitori provenienti da Marocco, Albania, Cina, Senegal, India, che si sentono italiani anche se la legge non li riconosce come tali. E mentre lo Stato esita, questi giovani contribuiscono a costruire una nuova idea di italianità, fondata non sull’origine ma su una cultura condivisa. La musica ne è una prova evidente. Artisti come Ghali, Elodie o Mahmood, nei testi delle loro canzoni, richiamano la loro identità mista: esibiscono sul palco identità ibride, che mescolano radici africane, arabe, europee, eppure sono tra le voci più ascoltate del panorama italiano. Anche il mondo dello sport riflette questa trasformazione: basti pensare a Matteo Berrettini, Marcell Jacobs o Paola Egonu. Ognuno con storie familiari diverse ma uniti da un senso di appartenenza molto forte, italiano, nonostante i continui dubbi e i sospetti sollevati da una certa stampa o da parte dell’opinione pubblica.

Anche le istituzioni faticano a tenere il passo con i tempi, negli ultimi anni, numerosi casi hanno fatto discutere: ragazze e ragazzi perfettamente integrati si sono visti precludere l’assegnazione di borse di studio o la partecipazione a concorsi pubblici perché i bandi, come requisito base, contemplavano il possesso della cittadinanza italiana. Alcuni sono stati esclusi persino da gite scolastiche all’estero a causa della difficoltà burocratica di ottenere i documenti di viaggio necessari per via della loro ‘mancata’ cittadinanza. Episodi come questi, spesso riportati dai media e denunciati da associazioni e avvocati, oltre ad evidenziare le lacune della legislazione italiana, mostrano come l’italianità sia ancora considerata un beneficio da concedere, non un’identità da riconoscere.

L’Italia meticcia: una tradizione viva

Eppure non si tratta di un concetto nuovo. Già in epoca romana veniva (erroneamente) attribuita a Cicerone la massima: “Patria est ubicumque est bene” (La patria è ovunque si stia bene) indicando un’idea di cittadinanza legata più al senso di appartenenza e al benessere che alla nascita o al sangue. E secoli dopo, nel 1968, in un articolo Pier Paolo Pasolini scriveva che “la vera tradizione è una cosa viva: è la continua evoluzione della coscienza nazionale”. Tradizione, quindi, non come cristallizzazione del passato, ma come movimento, fusione, cambiamento. Sono queste le parole che dovrebbero guidare l’Italia di oggi, anche se la politica italiana continua spesso a strumentalizzare il tema dell’identità nazionale. Alcuni partiti, ignorando che la cultura italiana è il risultato di secoli di contaminazioni (dai Greci ai Normanni, dagli Arabi agli Spagnoli, fino all’influenza americana nel secondo dopoguerra), descrivono l’immigrazione come una minaccia alla nostra cultura per quanto l’Italia non sia mai stata una nazione culturalmente ‘pura’: per la sua posizione centrale nel Mediterraneo è stata storicamente ibridata dall’intreccio con popoli e culture diverse. Ed è proprio questo continuo e fecondo incrocio culturale che l’ha resa così ricca e dinamica. Nutrita da storie di incontri, scambi e contaminazioni, l’Italia si è unita dinamicamente a culture che hanno contribuito a rinnovare il tessuto sociale, artistico e gastronomico del Paese, e ne costituiscono la forza proiettata nel futuro.