L’Italia si trova da decenni in una posizione anomala nel panorama europeo per quanto riguarda l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole.Mentre la maggior parte dei Paesi dell’UE ha introdotto programmi curricolari obbligatori e organici, in Italia la trattazione di questa materia rimane non vincolante, spesso ostacolata da un complesso intreccio di sensibilità culturali, posizioni politiche e religiose, nonché riferimenti alla primazia educativa della famiglia. Sono questi i motivi per cui nel nostro Paese l’educazione sessuale nei curricula scolastici tarda ad essere introdotta, anche se il dibattito non è cosa nuova.
L’attuale discussione ripercorre una storia complessa di tentativi legislativi e ostacoli culturali, le cui radici affondano nei primi anni del ‘900 e persistono ancora oggi.
Un secolo di resistenze e tentativi naufragati
Sin dalle prime interrogazioni parlamentari che nel 1902 chiedevano corsi di igiene sessuale per prevenire le malattie veneree, il tema è emerso con regolarità, sollecitato spesso da urgenze sanitarie. Un’accelerazione significativa si registrò nel secondo dopoguerra, in un clima di maggiore consapevolezza sociale. Nel 1953 nacque l’AIED (Associazione Italiana Educazione Demografica) che diffuse la procreazione libera e responsabile. Gli anni ’70 videro i primi veri e propri tentativi politici. Nel 1975 fu emanata la Legge 405/1975 che istituì i consultori familiari con il compito di diffondere le conoscenze sulla salute sessuale e riproduttiva. La disposizione, però, non ha mai specificato che tale divulgazione dovesse avvenire nella scuola. Gli ultimi anni Settanta e Ottanta furono caratterizzati da una crescente attenzione alla sfera personale e ai diritti, culminata con l’emanazione della Legge 194/1978 sulla tutela della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza.
La proposta di Tina Anselmi
Il 23 gennaio 1980, Tina Anselmi figura di spicco della Democrazia Cristiana e prima donna a ricoprire il ruolo di Ministro in Italia, presentò la proposta di legge n. 1315, intitolata: “Norme per l’educazione sessuale nelle scuole”. La Anselmi era una donna molto impegnata sui temi dei diritti femminili, della salute e della dignità umana (aveva anche firmato la legge per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale). L’introduzione dell’educazione sessuale era vista come un passo fondamentale per la consapevolezza dei giovani, la prevenzione, la lotta alla violenza sessuale (tema su cui presentò, nello stesso periodo, un’altra proposta di legge) e il superamento delle discriminazioni di genere. Ma le forti resistenze sociali, culturali e politiche in Italia, tipiche di quel periodo (e ancora attuali), impedirono che la sua proposta diventasse legge.
Nei primi anni Ottanta, siamo nel pieno dell’accordo politico tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede con il Concordato del 18 febbraio 1984, sebbene la Chiesa non abbia mai imposto un veto diretto, l’interpretazione diffusa (e la prassi successiva) è stata che il Ministero dell’Istruzione dovesse de facto tener conto dell’orientamento della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e della Santa Sede sui temi eticamente sensibili come l’educazione sessuale, che veniva considerata una competenza primaria assegnata esclusivamente alla famiglia.
Lupo Alberto e l’opuscolo contestato
Nel 1991, il Ministero della Sanità (allora guidato da Francesco De Lorenzo) promosse e commissionò l’opuscolo a fumetti intitolato “Lupo Alberto. Come ti frego il virus“. Questo materiale aveva lo scopo di fornire informazioni chiare e dirette, anche sull’uso del profilattico, come misura di prevenzione contro l’AIDS (l’epidemia era al culmine dell’attenzione mediatica). L’iniziativa innescò immediatamente forti resistenze, non solo da parte della Chiesa, ma anche dal Ministero dell’Istruzione (allora guidato da Gerardo Bianco), che non aveva partecipato alla stesura e riteneva che l’opuscolo fosse inappropriato o eccessivamente esplicito per la diffusione nelle scuole, specie tra i minori. La controversia politica e mediatica portò al ritiro quasi immediato dell’opuscolo dalle scuole, limitandone di fatto la diffusione e segnando un ulteriore precedente sull’atteggiamento prudente delle istituzioni scolastiche italiane nei confronti dell’educazione sessuale esplicita e della prevenzione.
Educazione sessuale come antidoto alla violenza sessuale
Ma le proposte continuarono e negli anni ’90 il focus si spostò anche sulla violenza: la Legge del 15 febbraio 1996, n. 66 ridefinì la violenza sessuale come delitto contro la persona, abrogando le norme del Codice Rocco che la consideravano un delitto contro la moralità pubblica. Questo cambiamento normativo fu accolto nel 2013 con la ratifica della Convenzione di Istanbul, che richiese l’inserimento nei programmi scolastici di materiali didattici sulla parità tra i sessi, sui ruoli di genere e sulla soluzione non violenta dei conflitti.
Nonostante le indicazioni internazionali di OMS e UNESCO, l’insegnamento dell’educazione sessuale in Italia ha continuato a svolgersi in modo frammentario. Ancora nel 2006, il rapporto The SAFE Project evidenziava come l’argomento dovesse essere trattato solo per gli alunni dai 14 e i 19 anni e limitato a una singola lezione annuale.
Un piccolo passo avanti
Più recentemente, la Legge 92/2019 ha reintrodotto l’Educazione Civica come disciplina obbligatoria, a partire dall’anno scolastico 2020/2021. Uno dei nuclei tematici principali dell’Educazione Civica è la Costituzione, che include la promozione dei principi di parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere. Precedentemente la Legge 107/2015 aveva già promosso “l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione”. Questi temi, seppure resi obbligatori, di fatto non sono stati mai concretizzati in maniera sistematiche nelle attività scolastiche in assenza di “curriculum organico di educazione sessuale ed affettiva”.
L’ultimo atto in ordine cronologico è il Ddl n. 979 intitolato “Introduzione dell’educazione sessuo-affettiva nel sistema di istruzione e formazione” che mira a istituire un percorso obbligatorio, progressivo e multidisciplinare di educazione sessuo-affettiva, con l’obiettivo di “promuovere una cultura del rispetto, prevenire la violenza di genere, le molestie e la discriminazione”. L’iter parlamentare è tuttora in corso (Novembre 2025). Il Ddl è stato assegnato in sede referente alla 7ª Commissione (Cultura e patrimonio culturale, istruzione pubblica, ricerca scientifica, sport e tempo libero).
Il nodo della questione: il consenso informato
Le polemiche sono state notevoli, polarizzando il dibattito pubblico tra chi lo ritiene uno strumento essenziale per la prevenzione e la salute dei giovani e chi esprime preoccupazioni riguardo l’età di introduzione, i contenuti e il ruolo educativo delle famiglie. Recentemente la questione è stata riportata al centro dell’attenzione dall’attuale Governo e, in particolare, dal Ministro Valditara con azioni legislative che hanno scatenato ulteriori critiche.
La controversia è nata da un intervento normativo (l’emendamento sul consenso informato) che riguarda principalmente le attività didattiche e progettuali non strettamente curricolari, cioè attività spesso gestite da esperti esterni che affrontano temi di natura sessuale, affettiva o etica.
L’intervento normativo è stato introdotto come emendamento al Disegno di Legge AC 2423 del maggio 2025 (attualmente ancora in discussione) intitolato “Disposizioni in materia di consenso informato in ambito scolastico“, ed è stato approvato in Commissione Cultura alla Camera nell’ottobre 2025. Naturalmente non poteva che essere interpretato come un forte limite allo svolgimento delle attività scolastiche. L’emendamento riguardava le attività esterne nella scuola secondaria di secondo grado essendo tali attività non previste per la scuola dell’infanzia, la primaria e la secondaria di primo grado. Un ulteriore emendamento è stato poi presentato in Aula della Camera dal deputato Sasso (Lega) e discusso il 10 novembre 2025 in occasione della ripresa della discussione sul Disegno di Legge sul consenso informato in ambito scolastico. Tale emendamento ha esteso la possibilità di svolgere attività di educazione sessuo-affettiva anche alle scuole secondarie di primo grado, ma anche qui solo con il consenso informato dei genitori, allineandosi così alle scuole superiori. Il divieto assoluto rimane invece in vigore per la scuola dell’infanzia e la primaria. L’esame del Ddl proseguirà nei prossimi giorni.
La paura della propaganda gender
Introducendo l’emendamento sul consenso informato, Valditara ha affermato che il suo scopo non era quello di eliminare l’educazione sessuale, ma quello di non creare confusione nei bambini indottrinandoli sulle cosiddette teorie gender; quelle teorie, cioè, secondo cui accanto ad un genere maschile e femminile ci sarebbero altre identità di genere che non sono né maschili né femminili, ma ibride, neutre. Più volte Valditara ha rimarcato che l’educazione sessuale deve essere tenuta separata dalle teorie gender che, occupandosi della fluidità di genere, non hanno nulla a che vedere con l’educazione sessuale espressamente contemplata e integrata nei programmi scolastici in vigore, in linea con il testo delle Indicazioni Nazionali 2025. Il Ministro ha voluto mettere in evidenza che questa iniziativa muove un passo in avanti nella cultura del rispetto, grazie alla quale non sarà più possibile per associazioni ideologizzate introdursi nelle scuole per far propaganda, spesso retribuita dai contribuenti, senza la supervisione e l’approvazione delle famiglie: le lezioni dovranno essere affidate a professionisti seri, psicologi, medici, docenti universitari.
La composizione trasversale dei contenuti
Oltre al ruolo del consenso informato dei genitori nelle decisioni educative, il dibattito sull’introduzione dell’educazione sessuo-affettiva nei curricula scolastici italiani si polarizza attorno ad un’altra questione fondamentale: la natura multidisciplinare dei suoi contenuti. Il suo campo di studio attinge, infatti, a diverse aree formative essenziali:
- alle discipline biologico/scientifiche per ciò che riguarda la trattazione delle funzioni riproduttive e la corretta conoscenza del corpo umano;
- alla prevenzione sanitaria circa le informazioni relative alla protezione dai rischi delle malattie sessualmente trasmissibili (MST);
- all’educazione civica a proposito del rispetto verso la donna, delle corrette relazioni interpersonali e dell’empatia considerata la vera strategia per contrastare la violenza di genere e i femminicidi.
Anche nella scuola dell’infanzia vengono svolte attività formative sulla conoscenza del corpo umano, della differenza tra i sessi e delle funzioni riproduttive.
Il Ministro ha voluto anche rafforzare, con il consenso informato, il ruolo dei genitori nelle scelte educative, riaffermare la loro priorità educativa e il potere di approvare o vietare le scelte educative che riguardano la sfera affettiva e sessuale dei figli. Ha voluto sottolineare che, in linea con l’art. 30 della Costituzione, il compito di educare i figli spetta preliminarmente ai genitori: devono essere i genitori dei minori a decidere se far frequentare ai loro figli lezioni sull’educazione sessuo-affettiva, dopo aver ricevuto adeguate informazioni sul contenuto dei corsi tenuti a scuola.
Tali affermazioni hanno suscitato, naturalmente, forti reazioni critiche da parte delle opposizioni, ma anche delle associazioni e degli operatori del settore, che hanno catalogato il comportamento del Ministro come un atto di censura preventiva. È stato messo in evidenza anche un ulteriore timore: la burocrazia del consenso informato può portare all’autocensura da parte delle scuole, privando così gli studenti di strumenti fondamentali contro la violenza di genere, il bullismo e i rischi sanitari, e lasciando di fatto l’informazione alla mercé del web e della pornografia.
La persistente incompletezza
La storia dell’educazione sessuale in Italia rimane, in sintesi, una storia di progetti interrotti e di frammentazione. Nonostante la sua riconosciuta valenza a livello internazionale (promossa da OMS e UNESCO), l’Italia non è riuscita a consolidare un curriculum nazionale coeso e obbligatorio. L’unica legislazione che fornisce un aggancio indiretto è, storicamente, la Legge 405/1975, che istituì i consultori.
La vera sfida per il sistema educativo italiano non risiede nell’eliminare o restringere l’educazione sessuale, ma piuttosto nell’edificare le fondamenta per una solida alleanza educativa tra istituzione scolastica e famiglia. Questo richiede l’elaborazione di un quadro programmatico nazionale che sia trasparente, scientificamente fondato e pedagogicamente solido, capace di superare i veti ideologici e contribuire concretamente al rispetto, alla sicurezza e al pieno sviluppo delle nuove generazioni.



