Facebook, Instagram e WhatsApp rappresentano oggi i social media più diffusi e influenti, capaci, da soli, di ridefinire profondamente il modo in cui le persone comunicano, socializzano e costruiscono la propria identità . Queste piattaforme sono il risultato più visibile della rivoluzione tecnologica applicata alla sfera relazionale: nate all’interno dell’espansione della rete Internet e alimentate dalla logica dell’accesso costante e della connessione globale, si sono imposte come spazi sociali paralleli, veri e propri “ecosistemi” virtuali.
Il fascino ambiguo delle piattaforme
Oggi, esse rappresentano un’estensione del mondo reale in una dimensione digitale, affascinante e coinvolgente, ma anche ambigua e pericolosa. La loro capacità di sostituire progressivamente le forme tradizionali di interazione — fondate su parole pronunciate, linguaggio del corpo, prossemica, odori, suoni ambientali e contatto umano — ha prodotto un impoverimento sensoriale significativo. La sfera relazionale tende a spostarsi in un ambiente asettico, ipersemplificato e regolato da logiche algoritmiche, dove il tempo dell’attesa viene annullato, l’esperienza si fa frammentaria, e la comunicazione si riduce a segni rapidi e decontestualizzati.
Questo slittamento ha conseguenze profonde: non solo vengono meno i codici empatici della relazione in presenza, ma si alterano anche le modalità di percezione dell’altro e di sé. L’interazione digitale, pur moltiplicando le possibilità di connessione, limita l’autenticità dell’incontro, comprimendo la ricchezza della comunicazione umana entro confini artificiali, dove l’immagine sostituisce la parola e la velocità prende il posto dell’ascolto. Di fronte a tutto ciò, è fondamentale sviluppare una riflessione critica sulla natura di questi strumenti e sul loro impatto antropologico, psicologico e culturale.
Un ambiente di vita per milioni di adolescenti
Nel freddo e nella limitazione sensoriale di questi strumenti si sviluppano nuove forme di relazione, prima impensabili, ma anche dinamiche rischiose e alienanti.
L’identità personale si costruisce attraverso immagini filtrate, messaggi istantanei e narrazioni sintetiche, amplificando le possibilità di relazione con un “altro sé” sempre mutevole. Come ricordava Luigi Pirandello, siamo “uno, nessuno e centomila”: la nostra identità si frammenta in una molteplicità di maschere, e in questo mondo digitale rischiamo di perdere ciò che realmente conta — noi stessi, con le nostre fragilità , le nostre paure, i sogni che rendono grande l’umanità .
I social media, lungi dall’essere quindi semplici strumenti di comunicazione, rappresentano un vero e proprio ambiente di vita per milioni di adolescenti, modificando profondamente le dinamiche relazionali, identitarie ed emotive. La loro pervasività nella quotidianità giovanile ha aperto nuove e complesse sfide in ambito psicologico, mettendo a dura prova l’equilibrio mentale e la capacità di autoregolazione dei più giovani.
I rischi delle interazioni digitali
Studi recenti, condotti a livello internazionale, segnalano un incremento significativo di disturbi d’ansia, depressione, bassa autostima e alterazioni del ritmo sonno-veglia, direttamente collegati all’uso intensivo e prolungato delle piattaforme digitali.
Il confronto incessante con modelli di bellezza e successo irrealistici, la pressione sociale esercitata dalla necessità di ricevere approvazione sotto forma di like, cuori e commenti, e la costante visibilità dell’altrui “felicità apparente”, contribuiscono a generare un senso di inadeguatezza diffuso. Inoltre, fenomeni come il cyberbullismo, l’esclusione virtuale o la circolazione di contenuti offensivi, amplificano l’ansia sociale e minano il senso di sicurezza personale.
La serie “Adolescence”, trasmessa su Netflix, offre un quadro crudo e realistico di tali dinamiche, fungendo da specchio inquietante delle nuove forme di pressione sociale, dipendenza emozionale e isolamento che i giovani affrontano. Le stanze da letto, un tempo rifugi di intimità e ricarica, si trasformano oggi in piccoli schermi teatrali dove va in scena la lotta quotidiana tra visibilità e vulnerabilità , tra desiderio di appartenenza e paura del rifiuto. In tale contesto, i social media non sono più solo strumenti, ma veri e propri ambienti immersivi, con un potere strutturante sulle modalità di percezione di sé e del mondo.
I social e la gerarchia dei bisogni
I social media si inseriscono in modo potente nella dimensione psico-sociale delineata da Abraham Maslow, psicologo statunitense noto per aver elaborato la teoria della gerarchia dei bisogni umani. La piramide di Maslow si compone di cinque livelli fondamentali:
- alla base si trovano i bisogni fisiologici (nutrimento, sonno, salute);
- seguono i bisogni di sicurezza (protezione, stabilità , ordine);
- più su troviamo i bisogni di appartenenza (amore, relazioni sociali, amicizia);
- ancora più in alto, nella piramide, si collocano i bisogni di stima (autostima, riconoscimento, rispetto);
- infine, al vertice della piramide, troviamo il bisogno di autorealizzazione (sviluppo del potenziale, creatività , realizzazione personale).
In sintesi, dopo aver soddisfatto i bisogni primari, l’essere umano tende naturalmente a cercare connessione, inclusione e apprezzamento all’interno della comunità in cui, oggi, i social media, almeno in apparenza, sembrano garantire il raggiungimento di questi bisogni intermedi. Attraverso i social, infatti, l’individuo trova visibilità e la possibilità di sentirsi parte di un gruppo, nel quale le interazioni sono soddisfatte da un flusso continuo di feedback sotto forma di like, condivisioni e commenti.
Tuttavia, questo riconoscimento è spesso superficiale, condizionato da logiche di mercato e algoritmi che premiano l’apparenza più dell’autenticità . I meccanismi di ricompensa immediata alterano la percezione del valore personale, spingendo i giovani a costruirsi un’identità che possa riscuotere approvazione, anche a scapito della propria coerenza interiore.
Nell’adolescenza, fase critica per la costruzione dell’identità e dell’autoefficacia, l’adesione a questi modelli virtuali può provocare forme di alienazione, dipendenza, insoddisfazione cronica e crescente fragilità dell’io.
Anziché favorire l’autorealizzazione, come auspicato da Maslow, i social media rischiamo spesso di bloccare gli individui in una spirale di bisogno non pienamente soddisfatto, mantenendoli costantemente in cerca di validazione esterna. Questo meccanismo perpetua uno stato di tensione e di instabilità psicologica che può compromettere il benessere emotivo e relazionale nel lungo periodo.
Il miraggio del successo
La promessa implicita dei social è quella di poter diventare qualcuno, di essere visti, riconosciuti, celebrati. Il successo si misura in numeri: followers, visualizzazioni, condivisioni, commenti. Questo paradigma, apparentemente democratico, in cui tutti sembrano avere la stessa possibilità di emergere, si rivela in realtà profondamente selettivo e alienante. I giovani che affrontano la dimensione virtuale senza capacità critica, vengono spinti a modellare la propria immagine secondo ciò che “funziona” online, ovvero contenuti che seguono le tendenze, che attirano attenzione, che generano coinvolgimento, piuttosto che secondo ciò che li rappresenta davvero.
Questa rincorsa verso una visibilità online può portare alla costruzione di un’identità fragile, fortemente dipendente dallo sguardo e dal giudizio altrui. L’incapacità di tollerare il fallimento, l’indifferenza o l’anonimato diventa un ostacolo allo sviluppo di una sana autostima. Le identità virtuali, spesso idealizzate e distanti dal vissuto reale, possono diventare vere e proprie maschere sociali che alienano il soggetto dalla propria interiorità .
Il desiderio di emergere, alimentato dal bisogno di riconoscimento e dalla pressione sociale, può spingere a pubblicare contenuti estremi, provocatori o trasgressivi, al solo scopo di attirare attenzione. Talvolta, si cade in dinamiche autodistruttive: dalla sovraesposizione alla dipendenza da feedback digitali, fino all’annullamento dei propri limiti personali. In alcuni casi più gravi, questo processo può culminare in azioni rischiose o nell’adesione a fenomeni sociali tossici (sfide virali, idolatria di influencer dannosi, disturbi del comportamento alimentare indotti da modelli estetici falsati). Il successo in rete inseguito a tutti i costi e senza una reale comprensione delle componenti di una concreta cittadinanza digitale, anziché rappresentare una forma di autorealizzazione, può arrivare, così, a trasformarsi in una trappola dell’autovalutazione: un continuo pendolo tra illusione di valore e senso di inadeguatezza, tra euforia effimera e vuoto interiore.
Dall’educazione digitale all’educazione emotiva
La scuola ha un ruolo centrale nella prevenzione e nella formazione di cittadini digitalmente consapevoli, ed è quindi necessario progettare occasioni di apprendimento nei diversi segmenti scolastici per rendere alunni e studenti capaci di vivere il digitale in modo critico, responsabile e sereno:
- nella scuola primaria è fondamentale, ad esempio, costruire una base affettiva ed emozionale solida. Si possono introdurre percorsi di educazione all’affettività e all’empatia attraverso letture ad alta voce, circle time, giochi di ruolo, riflessioni guidate sulle emozioni e narrazione condivisa. Inoltre, è utile proporre esercizi sull’ascolto attivo, la cooperazione e il rispetto della diversità , gettando le basi per un uso consapevole dei futuri strumenti digitali;
- nella scuola secondaria di primo grado, dove inizia spesso il primo contatto diretto e autonomo con il mondo dei social, si possono avviare progetti interdisciplinari che integrino cittadinanza digitale, educazione civica e competenze trasversali. Laboratori sull’identità digitale, simulazioni su scenari di cyberbullismo, riflessioni su privacy e gestione del tempo online, promuovono un approccio consapevole e protetto. La comunicazione non violenta, l’etica digitale e la valorizzazione dell’empatia online diventano temi fondamentali.
- nella secondaria di secondo grado, è possibile strutturare interventi più articolati: laboratori di media education, analisi critica dei contenuti virali, progettazione di podcast scolastici, cortometraggi tematici e campagne peer-to-peer. Gli studenti possono essere protagonisti attivi della riflessione, producendo contenuti in grado di sensibilizzare i coetanei sull’importanza di un’identità digitale autentica e positiva. In questa fascia d’età è importante anche collegare l’educazione digitale all’orientamento, per aiutare i giovani a distinguere tra visibilità online e realizzazione personale e professionale.
Inoltre, in tutti gli ordini di scuola è fondamentale costruire alleanze educative solide tra scuola, famiglia e territorio: incontri con esperti, sportelli di ascolto psicologico, momenti di formazione condivisa e dialogo intergenerazionale rappresentano strumenti essenziali per costruire una cultura della prevenzione, del rispetto e del benessere digitale.
La vulnerabilità dell’adolescente
Dal punto di vista neuroscientifico, l’adolescenza rappresenta una fase cruciale nello sviluppo cerebrale: è l’età in cui il cervello è al massimo della sua plasticità , ovvero della capacità di riorganizzarsi e creare nuove connessioni sinaptiche, ma al contempo è anche estremamente vulnerabile agli stimoli esterni. In particolare, l’area della corteccia prefrontale, responsabile delle funzioni esecutive come la pianificazione, l’autocontrollo, il giudizio critico e la capacità di prendere decisioni ponderate, è ancora in fase di maturazione. Al contrario, il sistema limbico, che regola le emozioni, l’impulsività e la ricerca del piacere, è già pienamente attivo, creando uno squilibrio fisiologico tra emozione e ragione.
In questo scenario, i social media agiscono come potenti attivatori di risposte dopaminergiche: ogni notifica, like, commento o visualizzazione produce un rilascio di dopamina, il neurotrasmettitore associato al piacere e alla ricompensa. Questo meccanismo è simile a quello che si osserva nei comportamenti di dipendenza, dove il cervello impara a ricercare attivamente ciò che procura gratificazione immediata.
Nei giovani, questo processo è particolarmente rischioso perché interferisce con lo sviluppo di capacità fondamentali come la concentrazione, la tolleranza alla frustrazione e l’elaborazione critica delle esperienze.
La continua alternanza tra stimoli visivi rapidi, contenuti emozionali forti e ricerca di approvazione sociale, agisce da “rumore di fondo” cognitivo che ostacola la riflessione profonda, la memoria a lungo termine e la capacità di attenzione sostenuta. Inoltre, la sensazione di essere costantemente osservati o valutati può generare un livello cronico di stress che può sfociare in stati ansiosi o depressivi. Per questo motivo, è fondamentale che l’educazione neuroscientifica entri nelle scuole, affiancando genitori e insegnanti nella comprensione delle fragilità e delle potenzialità del cervello adolescente, al fine di guidare i ragazzi verso un uso consapevole e sicuro delle tecnologie.
Educare al digitale
È necessario, dunque, un cambiamento culturale profondo che ponga al centro la costruzione dell’identità personale e relazionale, sostenuta da valori di autenticità , rispetto e consapevolezza, tenendo presenti le caratteristiche della realtà integrata che ci circonda. L’educazione al digitale non si riduce, infatti, all’acquisizione di semplici abilità strumentali, ma deve diventare un processo trasversale e integrato che coinvolga le dimensioni cognitive, emotive ed etiche della persona.
Educare al digitale significa formare cittadini in grado di discernere tra informazione e manipolazione, tra contenuti autentici e falsificazioni, sviluppando un pensiero critico capace di orientarsi tra le narrazioni frammentate del web. Significa anche coltivare empatia, responsabilità relazionale, consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni online, promuovendo una cultura dell’interazione positiva e costruttiva.
Serve un’alleanza educativa stabile tra scuola, famiglie, istituzioni, operatori sociali, mondo della ricerca e piattaforme tecnologiche. Questa alleanza deve fondarsi su valori condivisi e su un impegno concreto per la tutela dei minori, attraverso strumenti normativi aggiornati, pratiche didattiche innovative e strategie di prevenzione efficaci.
Solo una pedagogia attiva, inclusiva e visionaria può affrontare le sfide educative del nostro tempo, affinché il digitale diventi opportunità formativa e umana.
Il coraggio di un’azione collettiva
Come sostiene Pepe Di’Iasio, il tempo delle mezze misure è finito. La protezione dei bambini e dei giovani nel mondo digitale richiede una responsabilità condivisa, ma anche il coraggio di scelte politiche, educative e legislative forti.
Se guardiamo, ad esempio, all’Inghilterra, i dati che abbiamo a disposizione sono allarmanti: quasi tre quarti degli insegnanti delle scuole secondarie hanno segnalato episodi di cyberbullismo, un terzo ha riscontrato l’accesso da parte degli studenti a contenuti violenti o pornografici, e uno su cinque ha individuato segnali di esposizione a materiale estremista[1].
Viene, pertanto, sottolineata l’urgenza di un intervento sistemico: non bastano aggiornamenti normativi frammentari o raccomandazioni generiche, occorrono linee guida vincolanti, responsabilità chiare per le piattaforme tecnologiche, e una cultura della prevenzione radicata nelle pratiche scolastiche.
È necessario un “duty of care” digitale, simile a quello che vige nei settori della sanità e dell’alimentazione, per cui le grandi compagnie devono garantire ambienti sicuri e rispettosi della crescita psicologica e sociale dei minori. In gioco non c’è solo la sicurezza informatica, ma il benessere, l’identità e il futuro delle nuove generazioni. Non possiamo accettare che il danno diventi inevitabile. Dobbiamo agire oggi, perché un domani fatto di rimpianti sarebbe il segno del nostro fallimento.
[1] Di’Iasio, su “Tes – Times Educational Supplement” (28 marzo 2025), una delle più autorevoli riviste di riferimento per il mondo educativo anglosassone, riporta i dati di un sondaggio condotto da Teacher Tapp per conto dell’ASCL.