Patti digitali di comunità

Oltre i divieti, verso una vera educazione digitale

I Patti digitali di comunità sono accordi locali promossi principalmente da gruppi di genitori, spesso in collaborazione con scuole e associazioni, per gestire in modo condiviso l’accesso dei minori alle tecnologie digitali[1]. In pratica, le famiglie si impegnano collettivamente su regole come l’età minima per lo smartphone, il rispetto dei limiti d’età delle app e l’uso consapevole di dispositivi e social network in casa. Si tratta di “alleanze educative” formalizzate a livello locale che nascono dal basso, in risposta alla mancanza di linee guida da parte delle istituzioni e della società su come proteggere ed educare i minori online[2]. Questo vuoto istituzionale ha spinto i genitori a fare fronte comune, condividendo responsabilità che altrimenti graverebbero sui singoli. L’Università di Milano-Bicocca, insieme ad associazioni come MEC (Media Educazione Comunità), Aiart (associazione cittadini mediali) e Sloworking (lavoro a ritmo di vita), ha supportato la diffusione di questi patti, creando una vera Rete nazionale con oltre 180 gruppi attivi in tutta Italia.

Decalogo Scuole: quando la scuola incontra i patti

Nel 2024, da questa rete è nato il “Decalogo Scuole dei Patti Digitali”, un documento in dieci punti pensato per coinvolgere anche la scuola nel progetto educativo. A meno di un anno dal lancio, decine di istituti hanno introdotto cambiamenti tangibili ispirati al decalogo: ad esempio, gite scolastiche senza smartphone, una revisione dei regolamenti sui compiti online e perfino modifiche alle impostazioni dei registri elettronici per ridurre la pressione digitale su studenti e genitori. L’idea alla base è promuovere un uso più consapevole delle tecnologie e costruire nuove pratiche educative in linea con il benessere degli studenti, attraverso la collaborazione tra dirigenti, docenti e famiglie.

In effetti, una ricerca svolta a Milano ha evidenziato che genitori e insegnanti concordano sulla necessità di una maggiore gradualità nell’accesso alla Rete durante l’infanzia e l’adolescenza; molti temono infatti che un accesso troppo precoce a smartphone e social media sia dannoso. Proprio per questo, il decalogo si propone non come un insieme rigido di prescrizioni, ma come una lista di desiderata per la “scuola del futuro”, richiesta a gran voce dalla comunità educante per favorire scelte più aderenti alle esigenze di crescita dei ragazzi.

Un approccio regolativo

Attraverso i Patti digitali e il decalogo, si cerca dunque di “disciplinare” l’accesso al mondo digitale dei più giovani, stabilendo regole condivise. L’età di consegna dello smartphone viene spesso posticipata (molti patti puntano a non prima dei 12-13 anni, ovvero l’ingresso nella scuola secondaria di primo grado) e si incoraggia il rispetto dei limiti d’età delle piattaforme (ad esempio niente social network prima dei 13 anni, come peraltro prevedono i termini di servizio di molte app). Alcune scuole che hanno aderito al decalogo hanno eliminato i compiti da svolgere online a casa, preferendo far utilizzare Internet solo a scuola sotto la guida degli insegnanti, per evitare che bambini non supervisionati navighino senza filtri. Altre iniziative includono la promozione di diari cartacei personalizzati d’istituto (per ridurre la dipendenza dalle piattaforme digitali e favorire l’autonomia) e le gite “smartphone-free”, in cui gli studenti sono invitati a vivere l’esperienza senza il filtro dello schermo. In sostanza, l’approccio dei Patti di comunità è regolativo: limitare, ritardare o confinare l’uso degli strumenti digitali in determinati contesti, nella speranza di guidare i giovani verso un uso più sano della tecnologia.

Limiti pedagogici della “cultura del divieto”

Pur riconoscendo le buone intenzioni dei Patti digitali, emergono diverse criticità e limiti in una strategia che fa leva principalmente su divieti e restrizioni. Una prima osservazione è che vietare uno strumento tecnologico non equivale a educare al suo uso consapevole. Imporre un divieto spesso risulta un palliativo: può tamponare temporaneamente il problema, ma rischia di non risolverlo in modo duraturo e, anzi, di aggravarlo creando “zone d’ombra”. Quando qualcosa è proibito in modo assoluto, i ragazzi tendono comunque a trovarvi accesso, ma di nascosto e senza la guida di adulti. In altre parole, il rischio è spostare il problema fuori dal campo visivo di genitori e docenti, rendendo più difficile intervenire in caso di comportamenti scorretti o pericoli online. Inoltre, una volta concesso un certo grado di autonomia digitale (ad esempio l’uso del tablet o del PC per la DAD e i compiti, o la visione di video online per svago), tornare indietro o vietare l’uso di altri dispositivi come lo smartphone può risultare incoerente e poco credibile agli occhi dei ragazzi. La “cultura del divieto” a prescindere, dopo avere già concesso non è mai educativa.

Educare alla responsabilità

In un recente volume sul tema, il pedagogista Pier Cesare Rivoltella assieme al filosofo Stefano Moriggi e al neuroscienziato Vittorio Gallese prendono posizione contro le soluzioni meramente proibitive, definendole una forma di tecnofobia che poco giova alla crescita degli studenti. Secondo questi autori, vista l’inarrestabile pervasività del digitale nella vita quotidiana, occorre andare nella direzione opposta al controllo rigido: non “mettere il cellulare sottochiave” – perché ciò “non serve assolutamente a nulla” – ma accompagnare gradualmente i giovani, fin dalla tenera età, a padroneggiare i nuovi strumenti. Certo, questa scelta comporta dei rischi, ammettono gli esperti, “ma il rischio è indissociabile dall’educazione”. Un’educazione autentica non consiste nel proibire, bensì nel consentire ai giovani di agire, fare esperienze e sperimentarsi, sotto la guida attenta degli adulti, così che possano imparare gradualmente ad autoregolarsi. In quest’ottica, “ogni scelta di protezione o di divieto, in senso proprio, non è educativa”, perché educare significa piuttosto responsabilizzare e sviluppare senso critico. La ricerca nell’ambito della Media Literacy conferma questa visione: invece di alimentare allarmismi, bisognerebbe puntare su pensiero critico, responsabilità e resilienza nell’uso dei media.

Ciò implica muoversi lungo il sentiero delle cosiddette “3A”: Alternanza, Autoregolazione, Accompagnamento proposto dallo psicoterapeuta Serge Tisseron:

  • Alternanza. Significa proporre e sostenere una varietà di esperienze (lettura, movimento, arte, giochi, musei…) per evitare che lo schermo diventi l’unica forma di intrattenimento;
  • Autoregolazione. È la capacità di moderare dall’interno i propri consumi digitali, scegliendo tempi e contenuti in modo consapevole, senza bisogno di imposizioni esterne;
  • Accompagnamento. Non si tratta solo di presenza fisica accanto al bambino davanti agli schermi, ma di un coinvolgimento attivo fatto di domande, scelte condivise, ascolto e stimolo alla riflessione.  

Ma ciò richiede una presenza attiva degli adulti accanto ai ragazzi. In sintesi, limitarsi a bandire smartphone e social rischia di essere una risposta semplicistica a problemi complessi e di scaricare su una regola esterna la responsabilità educativa che invece dovrebbe essere condivisa e interiorizzata.

L’ipocrisia del divieto

Un altro limite di approcci troppo restrittivi è la possibile ipocrisia generazionale che i ragazzi percepiscono. Come osserva lo psicologo Matteo Lancini, viviamo in una società in cui gli adulti stessi trascorrono ore connessi, affidano al digitale gran parte della propria vita professionale e sociale, e gestiscono persino l’organizzazione familiare tramite smartphone e chat[3]. In questo contesto, pretendere che i figli adolescenti si astengano totalmente dalle tecnologie suona poco credibile. Lancini ricorda che iniziative basate sul proibire ai ragazzi certi “consumi” (dalla TV ai videogame, fino a Internet) sono sempre fallite nel lungo periodo. Se infatti “vietiamo alle nuove generazioni comportamenti che ogni giorno governano le nostre vite”, il risultato sarà solo di alienare i giovani: di spingerli a ritenere che il mondo di Internet e dei social sia più autorevole e interessante di quello degli adulti, che appaiono incoerenti. Questo può aumentare la distanza intergenerazionale e ridurre la disponibilità dei ragazzi a coinvolgere genitori e insegnanti nelle loro esperienze online (per paura di essere giudicati o sanzionati). Anziché limitarsi a vietare e punire, sostiene Lancini, sarebbe “meglio dedicare il nostro tempo a organizzare qualche iniziativa educativa aggiuntiva, piuttosto che privativa”. In altre parole, serve proporre alternative costruttive: attività formative sul digitale, momenti di dialogo e ascolto, progetti che facciano percepire a figli e studenti che li stiamo sostenendo nel mondo online, non solo controllando per paura. Solo così i giovani non sentiranno il bisogno di “sgusciare” di nascosto nel digitale, perché avranno adulti di riferimento disposti a guidarli senza demonizzare la tecnologia.

Media literacy: la vera alternativa educativa

Di fronte ai limiti dei semplici divieti, diventa cruciale investire in una vera educazione digitale strutturale. La media literacy non significa tanto posticipare di qualche anno l’accesso a smartphone e social (basterebbe rispettare le regole che esistono già!), ma insegnare come abitare consapevolmente l’ecosistema digitale. Questo richiede percorsi di cittadinanza digitale integrati nei curricula scolastici, attivati già nella scuola primaria e media.

L’educazione digitale strutturale deve affrontare temi fondamentali: sicurezza online, privacy e protezione dati, riconoscimento delle fake news, uso equilibrato dei dispositivi, etica nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale. L’obiettivo è sviluppare una “cittadinanza digitale matura” in cui il giovane sappia usare la tecnologia come strumento di emancipazione, non di alienazione. Questo approccio richiede un impegno sistemico: formazione dei docenti sulle nuove tecnologie, coinvolgimento delle famiglie in percorsi formativi, aggiornamento continuo dei programmi scolastici. Serve meno “guerra al telefonino” e più lavoro quotidiano in aula sul come e perché usare certi strumenti in certi contesti.

L’importanza dell’accompagnamento educativo

Un elemento ricorrente in tutte le analisi è il ruolo imprescindibile degli adulti di riferimento – genitori, insegnanti, educatori – nell’educazione digitale dei giovani. Nessun decalogo o regolamento potrà mai sostituire la relazione educativa quotidiana. Come sottolinea Lancini, il vero antidoto ai rischi del web non è un filtro tecnologico, ma la presenza di adulti capaci di ascoltare e dialogare. Molti episodi problematici (cyberbullismo, adescamento online, dipendenza dai social) traggono origine da un vuoto di ascolto e di guida: i ragazzi si rifugiano nella rete perché non trovano negli adulti un porto sicuro dove portare dubbi, emozioni e paure. Pertanto, più che controllori severi, servono guide adulte.

L’accento va posto sull’accompagnamento: condividere esperienze digitali con i figli (ad esempio giocare insieme ai videogame adatti, discutere di ciò che vedono su YouTube o TikTok), stabilire regole di comune accordo spiegandone il senso, e soprattutto dare il buon esempio. La coerenza è fondamentale: se un genitore o docente predica “meno smartphone” ma poi è lui stesso sempre incollato allo schermo, il messaggio educativo viene vanificato. Viceversa, mostrare di saper disconnettere in certi momenti (ore dei pasti, momenti di studio o di gioco all’aperto) e valorizzare attività alternative manda un segnale potente. Anche la scuola dovrebbe attrezzarsi non tanto con divieti generalizzati ma con iniziative come sportelli d’ascolto, programmi di tutoring tra pari, e formazione dei docenti sull’educazione emotiva e digitale. In un contesto in cui le tecnologie evolvono rapidissimamente (si pensi all’intelligenza artificiale generativa che sta ponendo nuove sfide etiche e didattiche), la comunità educante deve fare fronte comune non tanto per erigere muri, quanto per costruire ponti verso una cittadinanza digitale responsabile. Genitori e insegnanti, insieme, hanno il compito di preparare i giovani al mondo connesso, più che tenerli fuori da esso.

Serve una nuova alleanza

Assumere una posizione critica verso i Patti digitali di comunità non significa demonizzarli in toto, ma riconoscerne i limiti e invocare un approccio più equilibrato e pedagogicamente fondato. I Patti hanno il merito di aver acceso i riflettori sul problema e di aver creato solidarietà tra genitori e scuole di fronte alle sfide dell’educazione digitale. Tuttavia, da soli rischiano di essere insufficienti. È necessario evolvere verso un’autentica alleanza educativa che coinvolga famiglie, scuola e società nel preparare i giovani al mondo connesso. Vietare lo smartphone fino a 13-14 anni può essere una scelta sensata solo se parallelamente, in quegli anni, si svolge un’intensa opera di educazione al digitale: spiegare, mostrare, guidare, dare strumenti critici. Come affermano Rivoltella, Moriggi e Gallese, bisogna superare la falsa alternativa tra tecno-entusiasmo ingenuo e tecno-allarmismo: il vero conflitto non è tra esseri umani e tecnologia, ma tra diverse visioni educative. Da una parte c’è la strada della chiusura e della paura, dall’altra quella dell’apertura critica e della costruzione di competenze. Soltanto quest’ultima può formare cittadini digitali autonomi e sicuri.

In definitiva, educare invece di proibire è la via più promettente. Ciò non vuol dire lasciare i ragazzi soli di fronte allo schermo; tutt’altro. Significa stare al loro fianco nel percorso, dosare gradualmente le responsabilità digitali in base all’età e alla maturità, e soprattutto creare attorno a loro un ambiente (in famiglia e a scuola) ricco di dialogo, fiducia e consapevolezza. Il digitale offre opportunità infinite e positive – di apprendimento, creatività, connessione – e togliere ai giovani questi strumenti non li prepara alla vita, ma anzi rischia di renderli meno competenti quando inevitabilmente li dovranno utilizzare.

In sintesi: educare invece di proibire

La sfida educativa sta nel trasformare lo smartphone da oggetto di scontro generazionale a strumento di crescita condivisa. Per farlo occorrono coraggio e visione: il coraggio di abbandonare soluzioni semplicistiche come il “tutto vietato”[4] e la visione di una generazione che, guidata da adulti responsabili, impari a vivere il digitale in modo sano, etico e produttivo. I Patti di comunità potranno dare un contributo vero solo se inseriti in questa prospettiva più ampia, diventando parte di un progetto culturale ed educativo di lungo termine. In poche parole, è tempo di passare dai “patti di divieto” a un “patto di crescita digitale” in cui si scelga di educare informando e formando, piuttosto che delegare ai divieti il compito di proteggere i nostri ragazzi.

Le nuove generazioni hanno bisogno di essere guidate nel saper stare al mondo, anche – e soprattutto – in quel mondo digitale dove già abitiamo tutti. Con pazienza, dialogo e buona educazione mediale, potremo davvero prepararli ad affrontarlo da cittadini consapevoli.


[1] Cfr. “Un anno di “Decalogo Scuole” dei Patti Digitali: compiti offline e modifiche alle piattaforme scolastiche”. Università degli Studi di Milano-Bicocca.

[2] Cfr.  I “patti digitali: un approccio comunitario all’educazione mediale”.

[3] Cfr. “Inutile vietare i social ai ragazzini fragili”, Minotauro.

[4] Sarebbe a questo proposito interessante mappare quanto il divieto d’utilizzo dello smartphone per motivi didattici sia di nocumento a tante attività già avviate e avvalorate dall’azione 6 del PNSD del 2015 (legge 107/2015).