La verità, vi prego, sul PTOF

L’interrogativo di partenza: il PTOF ha ancora senso?

Per fine ottobre, come sappiamo, le scuole dovrebbero aver sia aggiornato il PTOF relativo al triennio che si conclude con quest’anno scolastico, sia predisposto il PTOF per il triennio 2019-2022.

Per quest’ultimo, che è la posta più importante, è previsto uno slittamento, certamente di buon senso e comunque comprensibile per la situazione di marasma che ha caratterizzato anche questo inizio di anno scolastico, e dalla quale ancora non si esce completamente.

Rispetto al PTOF per il prossimo triennio, la percezione che si ha (e la richiesta di slittamento della scadenza tenderebbe ad avvalorarla) è che l’attenzione intorno a questa scadenza sia piuttosto appannata. Come d’altra parte lo era quella per il POF fino a tre anni fa.

Il passaggio dal “POF annuale” al Piano Triennale (L. 107/15) – che certamente favorisce una gestione distesa delle attività di progettazione e realizzazione dei processi messi in campo, e rilancia quindi la centralità della dimensione progettuale – non sembra aver avuto l’effetto auspicato.

Persistono pertanto – anzi, si acuiscono – i dubbi, maturati negli anni, rispetto al senso, oltre che all’elaborazione del Piano dell’Offerta Formativa, e alle pratiche ad esso legate.

Di qui l’interrogativo: Vale veramente la pena continuare a insistere su questo strumento, considerati anche i costi (tempo ed energie per le varie operazioni da compiere, per le competenze che devi attivare …) in rapporto ai benefici (collegabili soprattutto alle iscrizioni e alla visibilità all’esterno), probabilmente realizzabili con misure meno dispendiose?

Un documento per rafforzare la progettualità della scuola

Ma a fare da contraltare a questo interrogativo, ce n’è un altro che non si può perdere per strada: Possono oggi le scuole, organizzazioni per molti aspetti complesse, fare a meno di un documento (il Piano) che ne sottolinei la ragione sociale sul territorio in cui sono collocate, e ne espliciti la funzione anche rispetto ai nuovi bisogni e alla nuova domanda formativa sempre più variegata?

La scuola è chiamata a far fronte a nuove differenze sociali e culturali, a diverse intelligenze che la frequentano, a una domanda di inclusione sempre più forte che viene dal problematico mondo dell’immigrazione, della disabilità eccetera. Sono tutte questioni che non possono essere affrontate in maniera realmente efficace centralmente, con strumenti che difficilmente colgono le specificità delle situazioni.

Non ce n’è forse ancora più bisogno oggi rispetto alla fine del secolo scorso, quando si è cominciato a parlare di POF (nel Regolamento dell’Autonomia)? Sì, proprio oggi, perché i livelli di complessità sono cresciuti, e si sono affievoliti molti degli entusiasmi che accompagnarono quella fase.

Alla ricerca del nesso perduto tra autonomia e offerta formativa

Il documento previsto dal Regolamento del 1999 (D.lgs. 275, art. 3) aveva questa ambizione: “Il Piano è il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia”.

Su questo comma può valere la pena soffermarsi un attimo, per mettere meglio a fuoco le novità – alcune tra l’altro con risvolti problematici – con cui si era chiamati a fare i conti, e il senso e il valore attribuito al Piano dell’Offerta Formativa. Forse allora non le abbiamo capite fino in fondo e, in buona misura, continuano a interrogarci.

La prima. Con l’Autonomia Scolastica (AS) ogni scuola è chiamata a confrontarsi con la sua storia, le sue caratteristiche, i suoi punti di forza e le sue criticità, ma anche (e soprattutto) con i miglioramenti, i cambiamenti, le innovazioni che intende introdurre per una nuova visione di sé, più in grado di interpretare i tempi nuovi (identità progettuale).

La seconda. Viene sancita (addirittura attraverso un passaggio della legge costituzionale 3/2001) l’autonomia delle scuole dall’Amministrazione centrale, riconoscendo ad esse competenza – e quindi responsabilità – a gestire i curricoli e l’offerta aggiuntiva, a sperimentare strategie didattiche e a darsi un’organizzazione che permetta di realizzare il diritto all’apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscendo e valorizzando le diversità, promuovendo le potenzialità di ciascuno, adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo (Regolamento, art. 4).

A decidere su questi terreni sono chiamate le scuole, in quanto istituzioni più in grado di sintonizzarsi rispetto alle aspettative dei territori di appartenenza e di meglio interpretarne i bisogni, di leggere le condizioni socio-economiche e culturali, e adattare l’Offerta Formativa[1].

C’è però una terza novità, che da subito allarmò molte scuole e che richiamo per mettere in evidenza un’ambiguità non di poco conto: l’attribuzione alle scuole di funzioni amministrative nella gestione del servizio scolastico, prima di competenza dei Provveditorati; tale attribuzione ha inaugurato una stagione di grosse e sempre più pesanti responsabilità – e quindi difficoltà – nella gestione delle scuole, che continuano a pesare (ultime, in ordine di tempo, la sicurezza e la gestione dei dati personali degli operatori scolastici).

Il rischio di un PTOF come “abito della domenica”

Ma, contrariamente a quanto si potesse ipotizzare, l’autonomia – perché poco metabolizzata – non riesce a diventare risorsa propulsiva nella maggior parte delle scuole, e col passare degli anni si assiste ad un progressivo opacizzarsi dello spirito con cui era stata pensata, che va di pari passo col restringimento dei suoi spazi. In questi anni si è assistito alla rivincita dell’Amministrazione, e quindi a una stagione, che viviamo ancora, di sempre più prepotente neo-centralismo. Da ciò anche il prevalere di un’idea di POF come adempimento formale e come “abito della domenica” – da mettere in mostra soprattutto in occasione delle iscrizioni – sempre più estraneo ai criteri di fattibilità e credibilità dell’offerta formativa (l’antico nodo del rapporto dichiarato-agito, diffusamente rimosso), e sempre più pensato per raccogliere iscrizioni (in alcuni casi fondamentali per ragioni di sopravvivenza).

La consapevolezza (che però da sola non basta)

E ora? Nella fase in cui ci troviamo, se recuperare le potenzialità positive dell’autonomia (didattica, organizzativa, di ricerca e sviluppo) e sviluppare consapevolezza della sua imprescindibilità possono apparire come operazioni ancora valide, quali passi vanno studiati e sperimentati per ricollocare la scuola all’altezza dei suoi rinnovati compiti istituzionali, e rilanciare un maggiore protagonismo di chi in essa ha responsabilità?

Di fronte a questi interrogativi è facile probabilmente ‘disporsi’ positivamente. Ma è quando occorre misurarsi concretamente con essi che vengono fuori i problemi, in primo luogo perché la consapevolezza di un impegno su questo terreno può maturare, svilupparsi e dare frutti:

  • se c’è un disegno che coinvolge e se si danno le condizioni per starci dentro;
  • se si può disporre preliminarmente di gambe in grado di muoversi e di camminare, anche un po’ zoppicando all’inizio, da sole o in rete: condizione, questa, per smuovere qualcosa. Il riferimento ovvio è alle risorse materiali, strumentali e soprattutto professionali: la partita, nelle organizzazioni complesse, si gioca sempre di più, come abbiamo imparato, proprio su quest’ultimo fronte e sugli strumenti da mettere in campo, primi fra tutti riconoscimenti motivanti e clima gratificante;
  • se si è in grado di sviluppare una prospettiva sensatamente e realisticamente disegnata, in cui tendano a collocarsi i traguardi formativi, visti come risposte ai bisogni e alle attese con cui ogni istituto scolastico è chiamato a misurarsi.

Cosa il POF non è (mi sembra)

Da qui le ragioni del POF, che non va confuso con i documenti di Programmazione[2], e neanche visto come il contenitore dei Progetti di scuola (come pure potrebbe far credere una lettura affrettata dell’articolo 3 del Regolamento dell’Autonomia, quando parla di Progettazione).

Il POF è, come si è visto, descrizione/rappresentazione dell’offerta formativa, delle sue ragioni di fondo e di quello che dal lavoro scolastico ci si deve realisticamente aspettare in termini di esiti, ambienti, relazioni, competenze professionali, organizzazione, eccetera; ma in un’ottica tesa al superamento delle sue criticità e al ripensamento e rinnovamento continuo della sua identità.

Il Piano rappresenta la scuola per come è, sulla base della sua tipologia e del suo ordine, della sua storia, dei suoi docenti soprattutto ‘storici’, ma soprattutto prefigura cosa aspettarsi (le cose da consolidare e/o migliorare, ecc.) sulla base di previsioni realistiche (la progettazione ideativa, cioè quali cambiamenti strategici è opportuno introdurre per migliorarsi) alla fine di percorsi scolastici temporalmente definiti. La L. 107/2015, non a caso, parla di Piano triennale.

La natura chiaramente progettuale del POF è ben evidenziata nel Regolamento dell’Autonomia, in cui si chiarisce ulteriormente che il POF è il documento che esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa, organizzativa; descrive cioè in modo non ambiguo (nei loro termini basici, e comunque semplificati e leggibili) i contenuti essenziali e significativi dei curricoli e dell’offerta integrativa e potenziata (i traguardi, le strategie, i tempi, eccetera). E lo fa dentro una logica progettuale di miglioramento continuo, di innovazione e, insieme, di adattabilità progressiva a bisogni e alle attese di studenti e territorio. Non è dunque un optional, né il correr dietro ad una moda.

Memorandum in quattro punti

Questo significa (dovrebbe significare) quattro cose (soprattutto):

La prima: che il POF non è – come è già stato detto – un collettore di progetti, ma un’esplicitazione del complessivo disegno (e di nient’altro che del disegno) di miglioramento e rinnovamento da realizzare (quali miglioramenti, quali innovazioni, quale continuità, e loro senso).

La seconda, più importante: che il POF, per camminare e raggiungere i traguardi, richiede, contemporaneamente alle risorse, un lavoro continuo di progettazione (progettazione esecutiva) sulle aree di pertinenza (curricolo, inclusione… ma anche strategie, organizzazione…), sulla base delle indicazioni e dei tempi in esso esplicitati.

La terza: che la cultura e la competenza progettuale sono centrali nel profilo del docente dell’autonomia, e che l’attività progettuale segna (dovrebbe segnare) marcatamente gli impegni professionali funzionali all’insegnamento.

La quarta: che l’intelligenza, la preparazione, l’empatia del DS, il suo “crederci”, la sua capacità di dar vita ad una leadership diffusa e condivisa, sono un po’ come la chiave di volta per mettere il POF sui binari giusti. La definizione degli indirizzi che gli viene riconosciuta dalla L. 107/2015, il suo coinvolgimento discreto ed esperto nell’elaborazione, e l’attenzione sulla fase realizzativa, ne sono i momenti topici.

Riassumerei il tutto così: non si può pensare al PTOF prescindendo dall’Autonomia; non ha senso e non porta da nessuna parte. Come pure non si può parlare di Autonomia scolastica senza parlare preliminarmente di PTOF. Recuperarne il nesso, e derivarne indicazioni diversamente operative e rivendicative, può non essere un – diciamo così – auspicio vano.

Detto questo, hic Rhodus, hic salta[3].

Il format nazionale del PTOF

Un’ultima considerazione sul modello fornito dal MIUR qualche giorno fa alle scuole per la predisposizione del nuovo PTOF. La sua struttura, presentata opportunamente come flessibile e adattabile, e pensata con intenti di semplificazione, ha buoni motivi per piacere alle scuole.

Una volta si sarebbe parlato – e qualcuno può essere tentato di farlo ancora oggi – di ingerenza ministeriale nell’Autonomia delle scuole.

Non la penso così. Una struttura di riferimento – che ogni scuola può adattare flessibilmente alla propria realtà – può rivelarsi una proposta interessante, perché può favorire la circolazione di elaborazioni diverse dello stesso modello di riferimento, e quindi una comparazione che può aiutare a migliorarsi. Ovviamente, hoc in votis.

I dubbi nascono sulla logica che si può leggere dietro questa proposta, che, per come si presenta, non sembra essere del tutto coerente con l’idea pregnante di PTOF del Regolamento dell’Autonomia (idea che ha guidato le riflessioni precedenti). Come pure non si coglie traccia della dimensione triennale del POF, che è una novità certamente importante della L. 107/2015.

Ma questi rilievi probabilmente dipendono solo da una mia prima lettura del testo proposto. Bisognerà eventualmente ritornarci su.

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[1] Previsione, questa, che lasciava intravedere non pochi problemi, tra i quali soprattutto quello della concorrenza tra le scuole pubbliche – e loro possibili classificazioni -, che poteva indebolire il senso di un’istituzione nazionale chiamata a garantire a tutti uguali opportunità formative (Ma va qui detto che neanche prima le scuole garantivano tale uguaglianza di opportunità: la questione è ancora aperta).

[2] Com’è noto, nella scuola pre-autonomia si provvedeva alla programmazione educativa (almeno dalla 517/78), almeno nelle scuole dell’obbligo, che cercava di piegare le finalità definite centralmente ai bisogni degli studenti. A metà degli anni ’90, con la Carta dei servizi, in ogni ordine di scuola si è introdotto l’obbligo del Progetto Educativo di Istituto (acronimo PEI, che ora significa altro). E fu una corsa affannosa a mettersi in regola, mancando un realistico quadro di riferimento generale. Andrebbe citato anche il Piano Annuale delle Attività (PAA), introdotto con il CCNL per la scuola del 1998. L’Autonomia scolastica cambia completamente il quadro di riferimento.

[3] Per saperne di più sul POF (storia e sviluppi, dibattito e prospettive), v. G. Cerini, “Piano triennale dell’offerta formativa”, in Repertorio 2018, Tecnodid.