Legge 107: un anno dopo

Intervista a Davide Faraone, Sottosegretario all’Istruzione del Governo Renzi

Nella giornata di martedì 19 luglio, il Sottosegretario sarà presente alla Summer School Ischia 2016 – Una “buona” scuola che funzioni – organizzata da Tecnodid@Formazione.

È passato un anno dall’approvazione della legge 107/2015 e molti commi del provvedimento hanno trovato attuazione, alcuni tra difficoltà e polemiche (pensiamo agli incentivi per il merito, alla cosiddetta “chiamata diretta” dei docenti), altri con maggiore consenso (la stabilizzazione del personale precario, l’organico potenziato, l’alternanza). Su alcuni temi ci sono lavori in corso (valutazione dei dirigenti a fronte delle maggiori responsabilità attribuite, definizione del piano di formazione dei docenti). Inoltre bisogna curare l’intendenza (l’edilizia, il digitale, i concorsi). Se dovesse fare un RAV alla politica scolastica del Dicastero, quali sarebbero le valutazioni su questi diversi aspetti? Quali i margini di miglioramento?

Quando abbiamo approvato la legge 107 lo scorso luglio molti giornali titolavano facendo riferimento alla fine di un percorso. Per noi tutti che abbiamo lavorato alla gestazione di quella norma era chiaro, invece, che si trattava solo di un inizio. Così è stato. La cosiddetta Buona Scuola è il primo passo di un cammino di innovazione che rivoluziona culturalmente e in profondità il sistema d’istruzione italiano. E lo fa in un modo molto chiaro: rilancia l’autonomia scolastica attraverso strumenti – risorse professionali ed economiche – che ne consentono una reale attuazione nella vita di tutti i giorni. Per intenderci: a ogni voce di cambiamento corrispondono risorse certe. Niente proclami senza sostanza. Al centro, stella polare dell’azione di governo, stanno gli studenti e la didattica a loro destinata. Fin qui sono state rare le occasioni in cui, nel dibattito pubblico, si è guardato alla legge nella sua interezza. Ci si è accaniti o si sono valutate positivamente singole parti. Eppure è il quadro complessivo che va considerato, ogni pezzo è coerente con il tutto. Le scelte fatte vanno viste nel loro insieme, come pilastri di una struttura che si regge se le fondamenta sono solide. Facciamo qualche esempio: le leve che vengono date al dirigente scolastico per intervenire in modo propulsivo sul sistema della propria scuola (dando gli indirizzi per la costruzione del Pof triennale, dopo aver analizzato il contesto e i punti di forza e di debolezza a partire dal Rav, in coerenza con il piano di miglioramento) sono segno evidente del riconoscimento a questa figura di maggiori responsabilità e di un ruolo strategico. Con un bilanciamento necessario sulla valutazione del suo operato, in relazione alle azioni attivate e agli obiettivi raggiunti, anche dagli studenti della propria scuola.

È proprio sulla figura del Preside che si è accesa la polemica, anche in questi giorni, con la questione della “chiamata” dei docenti. Come stanno le cose?

Quando parliamo di “chiamata per competenze” dei docenti, parliamo di una trasformazione non da poco, attraverso la quale i dirigenti scolastici possono scegliere (tra il personale già di ruolo, ben inteso) gli insegnanti di cui hanno bisogno per il proprio progetto di scuola, valorizzando il percorso di studi e di esperienze di questi professionisti. I docenti che il dirigente individua per gli incarichi triennali, non sono scelti perché piacciono al preside, ma perché hanno caratteristiche professionali adeguate all’offerta formativa di quella scuola. Una scuola di montagna avrà necessità diverse da una scuola nella periferia di una grande città. Certo, inutile negarlo, quest’anno magari non riusciremo a definire un curriculum completamente rispondente alle competenze professionali distintive di una professione come quella docente, ma è un inizio. Un inizio rivoluzionario che supera il meccanismo che finora ha fatto arrivare i docenti nelle scuole e in qualche caso anche nelle classi: la graduatoria basata su punteggi poco coerenti con l’effettiva professionalità dei docenti. I docenti non sono tutti uguali e nemmeno le scuole lo sono. È un’opportunità straordinaria che però ha dei naturali contrappesi: sulla base dei risultati si viene tutti valutati: il sistema scolastico, le scuole, il personale. I dirigenti scolastici saranno valutati per la prima volta dopo 15 anni di sperimentazioni. Per il personale docente non si parla di vera e propria valutazione, ma finalmente si riconosce una differenza tra le professionalità. Lo strumento è perfettibile, ma i Comitati – composti da insegnanti, genitori e studenti – che hanno lavorato sui criteri per definire quali siano le caratteristiche per riconoscere un bravo docente, hanno fatto un grande lavoro. Si tratta di un primo passo e sicuramente ci sono margini di miglioramento, ad esempio nella direzione della valutazione della professionalità dei docenti, e non solo della valorizzazione di una parte di essi, o nell’individuazione di ruoli di middle management fondamentali per superare l’appiattimento della funzione docente.

Oltre a quelle citate, quali sono le altre novità più incisive della legge 107?

Nel nuovo quadro vanno inserite anche la formazione in servizio, che diventa obbligatoria – il docente va pensato come un ricercatore e costruttore di pratiche didattiche efficaci che richiedono una formazione continua strutturale – e la stabilizzazione del personale, non tanto e non solo come giusta risposta alle legittime aspettative degli insegnanti, ma perché la precarietà non consente alla scuola di progettare, di dare continuità ai percorsi dei ragazzi, di investire sulla formazione dei docenti in relazione alle proposte contenute nel Piano triennale della scuola in cui si lavora. E poi ancora l’organico del potenziamento, che preferirei chiamare funzionale, grazie al quale è possibile dare spazi di manovra agli istituti al di là delle rigidità delle attribuzioni, spesso frutto di miopi visioni di uffici amministrativi che non hanno ancora inteso il valore di questa fondamentale innovazione. Su questo aspetto è innegabile che ci siano delle criticità, ma non poteva essere altrimenti: dobbiamo poter avere tempo di riassorbire le assunzioni dei docenti delle graduatorie a esaurimento che sono di classi di concorso specifiche e non sempre corrispondono a quelle che le scuole vorrebbero. E, infine, misure che danno veramente il senso dell’attenzione ai ragazzi e alle ragazze in un’ottica di futuro: l’alternanza scuola-lavoro che l’anno prossimo vedrà coinvolto in attività di formazione oltre un milione di studenti, o il curriculum opzionale, strumento fondamentale per orientarsi alle scelte del domani, senza tentennamenti o abbandoni dovuti a scarsa consapevolezza. Sono profondamente convinto che quanto abbiamo fatto fosse necessario per ribaltare le sorti del nostro sistema d’istruzione e del nostro Paese. Il bilancio non può che essere positivo.

Vediamo ora le nove deleghe previste dalla legge 107. Ci sono importanti decreti legislativi da adottare nei prossimi mesi. L’agenda della politica, quella del governo (con lo scoglio del referendum autunnale), come si intreccia con quella dei provvedimenti da approvare: rallentare o accelerare?

Le deleghe sono parte integrante della Legge 107, sono sviluppi necessari e coerenti della riforma perché riguardano nodi cruciali del sistema scolastico. Sono pilastri di una struttura che altrimenti rimane monca e non si regge in piedi. Stiamo lavorando alla loro elaborazione ormai da mesi, in una dimensione di costante ascolto e collaborazione con gli attori che sono variamente coinvolti. Non ci sono calcoli politici o eventi accidentali che possano interrompere il percorso. Rispetteremo le scadenze.

Il processo di elaborazione dei decreti, visto da fuori, non è sempre chiaro. Tavoli aperti, gruppi di lavoro, passaggi interni tra gli uffici dell’amministrazione. Non è facile coinvolgere il mondo della scuola (che, comunque, non è l’unico destinatario dei provvedimenti), ma ci si aspettava qualcosa di più “arioso”: le deleghe aperte come “spazio” per ricucire un rapporto coraggioso e alto con la scuola, al di là di boatos, pregiudizi, diffidenze. Si riuscirà a farlo? E il Parlamento che ruolo avrà nell’esprimere i pareri?

Abbiamo lavorato finora raccogliendo i contributi di molti esponenti dei diversi mondi scolastici e non, magari in modo non sistematico e continuo per tutte le deleghe. Ma è stato un anno, questo trascorso dall’approvazione della legge 107, davvero frenetico. Credo ci siano stati pochi altri momenti nella storia della scuola italiana così intensi. Proprio perché l’approvazione di una legge è solo il punto di partenza e non il traguardo. Dalla pubblicazione in Gazzetta si procede alla concreta attuazione e abbiamo avuto ritmi serrati e una mole di lavoro considerevole, se aggiungiamo quanto fatto per l’edilizia scolastica, la disabilità e l’inclusione, il piano nazionale scuola digitale. Ciononostante molte cose sono state fatte e tante ne stiamo facendo ora, ogni giorno e su molti fronti. Ma le deleghe non sono chiuse, sono ancora bozze che vogliamo confrontare anche, ma non solo, con chi nella scuola lavora.

Tra le deleghe aperte, alcune hanno una forte rilevanza sociale ed educativa, come quelle sui problemi dell’handicap e lo zerosei per l’infanzia. Quali sono le aspettative e i benefici attesi dagli utenti (genitori)? Quali le preoccupazioni degli operatori scolastici? C’è un punto di equilibrio?

Tutte le deleghe rispondono a esigenze educative le cui soluzioni sono connesse a interventi strutturali sul sistema. Ma è la visione culturale e la prospettiva comune che le rende coerenti tra loro e con la legge 107, in particolare con l’autonomia delle scuole e il loro rapporto con gli altri soggetti e con il territorio. Prendiamo ad esempio la delega sul cosiddetto zero/sei. Si tratta di un approccio che valica lo spazio strettamente scolastico. Mettiamo al centro la costruzione di un sistema integrato che, senza intervenire sulla gestione dei servizi educativi per l’infanzia e sulle scuole dell’infanzia, si pone l’obiettivo di realizzare obiettivi che da tempo l’Unione Europea e il nostro Paese mettono in agenda: la diffusione e l’accessibilità al servizio e l’innalzamento dei parametri di qualità. Questo vuol dire riconoscere quelle buone prassi che fin qui sono state realizzate estendendole a livello nazionale, far uscire i servizi educativi per l’infanzia dall’assistenza e farli entrare nell’ambito dell’educazione. Creare poli per l’infanzia per potenziare la ricettività dei servizi e sostenere la continuità del percorso educativo e scolastico, ad esempio in un unico plesso o in edifici vicini. Predisporre un sistema integrato coordinato dal Miur in sintonia con le Regioni e gli enti locali. Stiamo cercando di mettere ordine e potenziare settori troppo spesso lasciati allo spontaneismo o alla buona volontà. E credo che il punto di equilibrio di cui mi parlava risieda proprio in questo: trovare risposte alle esigenze della comunità.

Anche la delega sulla disabilità sta suscitando molte aspettative, ma anche qualche interrogativo, ad esempio sulla figura futura del docente di sostegno.

I principi della delega sulla disabilità ci consentono di ragionare in maniera nuova sull’inclusione. Fin qui, erroneamente, si è pensato che inclusione scolastica volesse dire soltanto insegnante di sostegno. Una verità, ma parziale e incompleta. L’insegnante di sostegno è una figura fondamentale e deve essere certamente preparato in modo specifico e specializzato, ma non dobbiamo mai dimenticare – e purtroppo non tutti ne sono consapevoli – che è un docente che deve collaborare in modo paritetico con gli altri insegnanti della classe, i quali non possono sentirsi esonerati dal progettare insieme percorsi personalizzati anche per i bambini e i ragazzi con disabilità. Quindi nella delega abbiamo previsto formazione iniziale e in servizio per i docenti, ma anche per i dirigenti scolastici e per il personale ausiliario che ha specifici compiti nell’inclusione. Ma il cambiamento culturale che vogliamo introdurre con questo decreto delegato, è il modo in cui si trattano le disabilità: non come elementi di privazione ma al contrario partendo dalle potenzialità e dalle abilità residue per lavorare su queste in modo funzionale, come suggeriscono le linee internazionali dell’ICF. Un bambino non vedente potrebbe avere più bisogno di interventi sugli spazi, per muoversi autonomamente, e sui sussidi a disposizione, per imparare utilizzando strumenti diversi, che di “copertura” del docente di sostegno. Stiamo lavorando per semplificare la certificazione, in coerenza con percorsi attivati anche dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con il Ministero della Salute e l’INPS, per renderla più omogenea nelle diverse regioni d’Italia ed evitare inutili torture a studenti con disabilità e famiglie. Pensiamo anche di rilanciare aspetti già presenti in altre norme che non hanno trovato applicazioni coerenti e integrate con quelle scolastiche. Ad esempio il progetto individuale di vita, che va oltre il Progetto Educativo Individualizzato e lo rende globale, ben oltre la sola integrazione scolastica. Per fare questo proponiamo alle Regioni di realizzare Punti Unici di Accesso Disabilità dove le famiglie e gli operatori possano costruire insieme percorsi di inclusione oltre la scuola, nel territorio, in sinergia tra tutti coloro che sono coinvolti nel progetto stesso. Nella delega in via di definzione ci sono anche altri aspetti riguardanti la governance che, prendendo spunto dalle migliori esperienze che le scuole e i territori hanno realizzato, viene rafforzata per riconoscere spazi di coordinamento delle attività, ma anche di gestione delle risorse. Naturalmente in coerenza con quanto la Legge 107 prevede in relazione agli ambiti territoriali e alle reti.

Altre questioni sono di natura più strettamente tecnica, come la formazione iniziale dei docenti, la valutazione degli allievi, la riforma dell’istruzione professionale, gli studi umanistici. Quali le novità previste?

Questioni di natura strettamente tecnica ma funzionali, come ho avuto modo di ribadire anche prima, al completamento e alla riuscita del quadro generale. Che è quello di realizzare scuole autonome, rispondenti alle esigenze degli alunni e dei territori, flessibili e in linea con le sfide del futuro. Per questo, per esempio, stiamo intervenendo sulla formazione iniziale dei docenti: i futuri insegnanti non devono essere soltanto preparati a livello culturale sui contenuti delle discipline, ma devono avere competenze professionali specifiche che permettano loro di insegnare e sapersi rapportare con i ragazzi. Per questo stiamo pensando a un rapporto più sinergico tra Università e Scuola, attivando percorsi di tirocinio e apprendistato direttamente in aula, percorsi che poi verranno verificati e valutati periodicamente. Prendiamo spunto dal modello del campus finlandese e per la prima volta sperimentiamo sul campo le competenze dei docenti. Per quanto riguarda l’istruzione professionale si sta andando nella direzione del potenziamento di un settore troppo spesso e ingiustamente ritenuto di serie B. Quando invece la vicinanza tra il percorso formativo e l’impresa, una didattica laboratoriale, centrata sul compito reale, con la capacità di raggiungere l’acquisizione sia delle competenze professionali che delle competenze di base attraverso l’azione concreta, ha riscontrato il successo di famiglie e studenti. Ed è la risposta alle richieste di molti giovani a rischio abbandono o dispersione perché non trovano nell’offerta formativa tradizionale ciò che cercano per il proprio futuro. E sempre con l’intento di allargare l’orizzonte e costruire condizioni per cui le nuove generazioni possano intraprendere strade di ripresa e crescita, abbiamo deciso di fare della cosiddetta “delega sul Made in Italy” uno spazio di promozione della nostra tradizione, declinandola in maniera innovativa. Promozione dell’arte e della creatività nel sistema scolastico nelle aree musicale-coreutica, teatrale-performativa, artistico-visiva e linguistico-creativa.

Sulla valutazione degli allievi è prevista qualche novità clamorosa, come si sussurra da più parti?

Sulla valutazione degli studenti vorremmo compiere un salto di prospettiva non indifferente: diciamo che i voti – lettere o numeri che siano – non hanno carattere punitivo ma conoscitivo, servono a modificare la didattica e la metodologia degli insegnanti in coerenza con le innovazioni introdotte dalla legge 107. Le novità in materia di valutazione devono essere vissute dai genitori come una scelta in favore di una valutazione seria, onesta e chiara, non precocemente selettiva, con l’obiettivo di capire e promuovere le capacità di ciascuno, valorizzare le persone e i loro talenti. Dalle etichette (voti, giudizi ecc.) occorre passare alla rendicontazione e alla documentazione degli effettivi apprendimenti realizzati (in termini di conoscenze e di competenze). Non dimentichiamo che è la nostra Costituzione a chiedere di sostenere attivamente le pari opportunità di apprendimento per ogni allievo e non solo di registrare gli eventuali insuccessi. E nel secondo ciclo la valutazione dovrebbe “spingere” ciascun ragazzo verso le scelte più idonee per consentirgli di raggiungere le competenze culturali o pre-professionali attese.

Per concludere, Sig. Sottosegretario, non le nascondiamo il sentimento che oggi sembra prevalere nel mondo della scuola (e forse anche nel Paese): diffidenza verso la politica vissuta come “lontana” dagli effettivi bisogni, “rabbia” per un certo impoverimento delle risorse pubbliche verso l’istruzione, percezione di marginalità e di impotenza del dipendente pubblico. Sono stati d’animo, è vero, spesso venati di sbrigativo populismo (come si dice, ma questa è l’aria che si respira in Europa), ma come intercettarli e rilanciare un’idea forte ma concreta di centralità dell’istruzione nel futuro del nostro Paese? Magari partendo dalle tante “buone scuole” che in effetti ci sono in Italia…

Un ottimo suggerimento, il suo, ma – lo dico bonariamente – ormai superato. Perché è esattamente quello che abbiamo fatto quando abbiamo cominciato a lavorare all’elaborazione della legge. Non abbiamo ancora smesso di farlo e non smetteremo di farlo. Me lo faccia dire con orgoglio: siamo riusciti a mettere la scuola al centro dell’agenda politica. E al centro del dibattito pubblico. Sono due imprese non comuni. Abbiamo sottratto il mondo dell’istruzione e della formazione alle disquisizioni degli addetti ai lavori e ne abbiamo fatto responsabilità di tutta la comunità. Perché così dev’essere. E a questo abbiamo accompagnato un intervento di consolidamento serio del settore. Ce lo riconosce la Corte dei Conti nella sua relazione, che ha registrato tagli lineari alla scuola dal 2008 al 2014 e che fa esplicito riferimento all’inversione di tendenza che abbiamo realizzato grazie alla Buona Scuola. Poi è chiaro che un’azione così riformatrice, che mette sottosopra prassi decennali, può scontentare qualcuno. Può disorientare. Può non essere compresa nei suoi primi effetti, senza contare che molti provvedimenti non si sono ancora dispiegati in pieno, per via della fase di rodaggio. Ma nessuno può negare che abbiamo messo la scuola al centro, non tanto come settore della vita del Paese che andava rivisto puntualmente, ma perché siamo convinti che se l’Italia deve ripartire – e deve ripartire – può solo farlo dalle sue risorse migliori: i giovani che domani guideranno le sorti del Paese.