Il “ritorno di fiamma” del tempo pieno

L’età dell’oro del tempo pieno

È vero: nella scuola elementare c’è un ritorno di fiamma del tempo pieno, oggi ravvivato dalla proposta del Governo di tornare a investire su questo modello di scuola. L’interesse non era mai venuto meno, tanto è vero che nel corso degli ultimi 20 anni (pur avendo corso grandi rischi sul piano delle risorse e del possibile modello organizzativo) le classi a tempo pieno sono via via aumentate, fino a raggiungere la ragguardevole quota del 34,5% di tutte le classi funzionanti. Un terzo della scuola primaria italiana è a tempo pieno! Quanto sembrano lontani gli anni Settanta, la stagione d’oro del tempo pieno, spesso interpretata da grandi pedagogisti (Ciari, Neri, De Bartolomeis, Frabboni, Damiano) e soprattutto da uomini e donne di scuole, i veri costruttori del tempo pieno. Spesso anticipato da esperienze di doposcuola e attività integrative promosse dai Comuni e dal patronato scolastico, il tempo pieno usciva in quegli anni da una dimensione prettamente sociale e assistenziale, e si inoltrava sulle strade dell’innovazione (attraverso didattiche operative, rapporto con il territorio, valorizzazione dei diversi linguaggi, metodi innovativi, valutazione formativa) in grado di lasciare un segno positivo sull’intero sistema scolastico italiano[1]. Leggi innovative come la 517/1977, la 148/1990, i programmi del 1985, erano anche il frutto del “mito del tempo pieno”, un modello originale capace di suscitare il gradimento dei genitori e di offrire un laboratorio sperimentale a tanti insegnanti.

La diffusione ineguale del tempo pieno

Certo, non tutto era riconducibile a questa “agiografia del tempo pieno”. Spesso la scelta del tempo pieno si caricava di un valore ideologico: la scuola moderna contro la scuola tradizionale, la sinistra contro il moderatismo, i laici contro i cattolici… Ma a poco a poco le conflittualità si sono stemperate, ed il modello è stato riconosciuto senza rivendicare appartenenze[2]. È stato molto più forte il legame con le condizioni sociali delle famiglie, con il lavoro extradomestico delle madri, con famiglie nucleari assai “corte”. Tanto è vero che, se guardiamo la distribuzione delle classi a tempo pieno, ancora oggi possiamo cogliere in controluce un chiaro rapporto con i diversi contesti socio-economici: quasi tutte le scuole di Milano e Modena sono a tempo pieno, ma anche quelle delle grandi città del centro-nord (Torino, Firenze, Roma) e delle regioni con forti tradizioni educative, a partire dall’infanzia (come l’Emilia-Romagna e la Toscana). Colpisce in questa lettura geografica la quasi totale assenza del Sud, di grandi regioni come la Sicilia, la Campania, la Puglia, con qualche eccezione come la Sardegna e la Basilicata.

RegioneClassi di scuola primariaDi cui a tempo pienoT.P. sul totale (%)
Abruzzo2.93645015,3
Basilicata1.30858044,3
Calabria5.0471.05520,9
Campania14.3731.96713,7
Emilia-Romagna9.1574.22246,1
Friuli Venezia-Giulia2.6771.04238,9
Lazio12.1156.29652,0
Liguria2.8551.27144,5
Lombardia21.14210.40449,2
Marche3.47392226,5
Molise691304,3
Piemonte9.2784.19645,2
Puglia9.0111.50516,7
Sardegna3.5421.14832,4
Sicilia12.2031.0068,2
Toscana7.4633.58048,0
Umbria2.06452425,4
Veneto11.1273.60632,4
Totale130.46243.80433,6

Fonte: Dati MIUR. Si ringraziano l’ispettrice Maria Rosa Silvestro ed il dott. Sergio Govi per aver collaborato alla fornitura dei dati aggiornati.

Domanda sociale, risposte educative

I dati mostrano il paradosso del tempo pieno, che dalla sua istituzione (Legge 820/1971) non è mai riuscito a diventare un modello nazionale. La presenza del tempo pieno “curricolare” viene meno proprio nelle realtà, come le grandi periferie del Sud, in cui ci sarebbe più bisogno di una scuola “aperta” con molte opportunità, servizi, possibilità di arricchimento culturale[3]. Magari sono le regioni che fanno fronte al “bisogno” di tempo integrato attraverso i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea (progetti PON, POR, FSER, ecc.): iniziative spesso significative, che però lasciano l’amaro in bocca per la loro precarietà ed estemporaneità. Ben venga quindi il rafforzamento degli organici di tempo pieno, come nell’ipotesi governativa, che però va commisurata alle effettive necessità e alla possibile qualità di un buon tempo pieno. Servono strutture adeguate, a partire dai locali, spazi verdi, mense funzionanti (il tempo pieno non è il semplice raddoppio del tempo passato a scuola), dalle dotazioni strutturali (i laboratori non possono essere una photo opportunity), dal personale (docenti preparati e motivati, ma anche personale ausiliario). Inoltre, a distanza di 50 anni dalla sua istituzione, si impone anche un ripensamento della strutturazione, a partire dalla domanda che si poneva uno dei padri fondatori, Bruno Ciari: “Tempo pieno: pieno di che?”… Quindi a partire da un’idea di apprendimento, di metodi didattici, di rapporto tra tempo dell’impegno, tempo dello studio, tempo della relazione.

Facciamo una mano di conti

Ma potendo disporre di un organico “aggiuntivo” (se non abbiamo frainteso) di circa 2.000 posti, quali potrebbero essere le dimensioni di questo rilancio del tempo pieno? È del tutto evidente che non si può pensare alla “generalizzazione” di questo modello a tutte le classi italiane non a tempo pieno, che sono 86.658. Ogni classe funzionante a tempo pieno per 40 ore settimanali richiede, in base al regolamento vigente (DPR 89/2009), due posti di insegnante; sapendo che ogni docente ha un orario settimanale di insegnamento di 22 ore (cui si aggiungono 2 ore per la programmazione del lavoro), la classe a tempo pieno dispone di un gruzzolo di 44 ore rispetto ad un fabbisogno secco di 40 ore. C’è da dire che la riforma Gelmini (2008) farebbe divieto di utilizzare quelle 4 ore per attività di compresenza, che le scuole a tempo pieno difendono a denti stretti per consentirci un po’ di respiro per piccoli gruppi, individualizzazione, laboratori… Se 8 ore vi sembran poche!

A complicare i conteggi intervengono anche, ma qui la situazione è diversa da realtà a realtà, le ore di religione cattolica (o attività alternativa) che si aggiungono al monte-ore docenti (se l’insegnante è esterno, non sempre), e la residua presenza dei docenti elementari specialisti di inglese[4].

Comunque si può fare una stima approssimativa con il raddoppio dell’organico: 2 docenti per ogni classe a tempo pieno (1,82 se eliminiamo ogni forma di compresenza). Viceversa nelle classi a tempo normale (che funzionano almeno per 27 ore) il fabbisogno numerico è stimabile in 1,25 docenti per ogni classe, perché alle 22 ore del docente-base occorre aggiungere almeno altre 5 ore di docenza (sempre al netto delle varianti religione, inglese, ecc.). Il conto è presto fatto: per trasformare tutta la scuola italiana in scuola a tempo pieno servirebbero 49.295 docenti aggiuntivi[5].

Dunque occorre ricordare ai nostri decisori politici una dose di maggiore realismo: con 2.000 posti si potrebbe dare soddisfazione alla domanda di tempo pieno che oggi spesso non trova risposta, ma forse troveremmo queste esigenze più al Nord e al Centro che non al Sud. Occorre quindi far crescere una domanda che richiede consapevolezza delle comunità e degli enti locali, condivisione con i genitori, disponibilità dei docenti. Una lunga traversata del deserto che, comunque, vale la pena intraprendere. Basti pensare che il “mitico” tempo pieno a Bologna è databile al 1890, cioè alle prime amministrazioni socialiste della città: il pasto caldo si abbinava, fin da allora, alle aule didattiche decentrate ed ai laboratori. Oggi sentiamo ancora parlare di panini a scuola o di tramezzini di emergenza!

Cosa succede nella scuola dell’infanzia e alle medie?

Un’occhiata ai dati nella scuola dell’infanzia e nella scuola media è altrettanto emblematica, se non altro per un’esigenza di continuità dell’impostazione organizzativa, a partire magari dalla presenza ormai generalizzata degli istituti comprensivi (su 5.562 istituti del primo ciclo, 4.867 sono comprensivi, 420 direzioni didattiche, 175 scuole secondarie di I grado).

Ma le sorprese non finiscono qui, perché se guardiamo la distribuzione delle classi a tempo prolungato (36/40 ore settimanali) nella scuola media italiana (10.024 sul totale di 77.512), il dato nazionale si ferma al 12,9%, assai inferiore al tempo pieno nelle elementari, e le regioni che offrono più tempo prolungato sono anche e soprattutto al Sud (26,6% in Basilicata, 24,2% in Sardegna, 24,1% in Calabria, con la Sicilia che esce meglio rispetto alle elementari: 13,8%). Paradossalmente la regione con meno tempo prolungato è l’Emilia-Romagna (solo il 3,4%): stanchezza per il modello? Carenza di posti? Scarsa domanda dei genitori? Resistenze tra i docenti? Forse un po’ di tutto questo, ma si impone una riflessione sulla qualità del tempo, sull’esigenza di maggiore autonomia nelle scelte dei ragazzi, su un diverso rapporto tra attività obbligatorie e opzionali, sul ruolo di un tempo libero “organizzato”.

Anche la distribuzione dei tempi nella scuola dell’infanzia fa pensare. Mentre a livello nazionale si è consolidata, nell’88,9% dei casi, la scuola dell’infanzia a tempo pieno (40 ore settimanali), ci sono alcune regioni con una forte presenza di sezioni ad orario ridotto antimeridano (25 ore settimanali): Sicilia con il 38,8%, Lazio con il 23,6%, Puglia con il 20,8%.

Oroscopo per il futuro del tempo scuola

La variabile tempo è senza dubbio una delle voci che possono fare la differenza nella qualità della scuola[6]. Abbiamo visto come non bastino i posti di insegnante, ma occorra ripensare ai modi della didattica, all’organizzazione della giornata educativa, ad un corretto equilibrio tra tempi dell’apprendimento e tempo libero, alla conciliazione con i tempi di vita tra adulti e bambini, ecc.

Ancora una volta emergono “due Italie”, con offerte assai differenziate e con bisogni educativi non soddisfatti. Un monito per tutta la società civile, e non solo per la politica. Uno sguardo ai tempi scolastici europei ci rivelerebbe non tanto orari più lunghi, ma certamente più equilibrati, con l’idea di una giornata educativa “distesa” (mentre da noi si accatasta tutto nell’antimeridiano), con tempi di impegno, di relazione, di svago, e con una dotazione di strutture più adeguate. È tempo quindi di un ripensamento in profondità di tutti questi fattori, mettendo al centro il benessere, l’apprendimento e la crescita dei nostri ragazzi, a tutte le latitudini.

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[1] G. Cerini (a cura di), Idee di tempo idee di scuola, USR Emilia-Romagna, Tecnodid, Napoli, 2005.

[2] A. Alesina, F. Giavazzi, Più scuola ai ragazzi del sud, su corriere.it del 15 luglio 2018 (https://www.corriere.it/opinioni/18_luglio_16/piu-scuola-ragazzi-sud-05a31b80-885d-11e8-923a-1c26282fdcfe.shtml). I due noti economisti liberali propongono di dirottare le risorse aggiuntive del Bilancio dello Stato in investimenti in istruzione (edifici, insegnanti, attività…) a beneficio dei ragazzi del Sud.

[3] Save The Children, Atlante dell’infanzia a rischio. Lettera alla scuola, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma, 2017. Il rapporto del 2018 è dedicato alle periferie.

[4] In un prossimo numero di Scuola7 si affronterà il tema dei posti in organico nella scuola primaria, con le ipotesi di introduzione di figure specialistiche (inglese, educazione fisica, musica).

[5] Si arriva a questa cifra calcolando il fabbisogno di 1,82 docenti per ogni classe a tempo pieno (157.717 posti), necessari per fare funzionare 86.658 classi non ancora a tempo pieno (che però già dispongono di 108.322 docenti). La differenza porta alla stima dei docenti necessaria per ampliare il tempo scuola in 49.395 (che diventerebbero di più se si volesse garantire il doppio organico).

[6] Il numero 1, gennaio-febbraio 2019, di “Rivista dell’istruzione”, diretto dallo scrivente, sarà dedicato alla questione del tempo scuola, con riflessioni pedagogiche, dati e indicatori, reportage dalle scuole a tempo pieno.