Vent’anni fa l’ICF

Una rivoluzione che ha cambiato la cultura della disabilità

Nel 2001 l’Organizzazione mondiale della sanità, con il contributo fattivo dei rappresentanti italiani, ha cambiato radicalmente il paradigma di salute e di disabilità, che fino ad allora si reggeva su una concezione clinica incentrata sulla diagnosi medica e sul deficit da cui derivava una condizione di svantaggio sociale.

Dal “collocamento” al funzionamento

A partire dal 1970, la classificazione dell’OMS, ICD (International Classification of Diseases: l’ultima versione è la numero 10 del 1994) era concettualmente basata sulla sequenza EziologiaPatologiaManifestazione clinica. L’attenzione pertanto veniva riposta su una visione “difettologica” secondo la quale la disabilità veniva equiparata ad una condizione di malattia.

Per superare questa relazione causale incentrata sul “pezzo non funzionante”, nel 1980 l’OMS pubblicò l’ICIDH (International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps) più attenta alle caratteristiche della persona, introducendo un’importante distinzione tra menomazione, disabilità e handicap. La menomazione (impairment) è una perdita a carico di una struttura o di una funzione del corpo; la disabilità (disability) si configura come limitazione e incapacità ad agire; l’handicap è riconducibile ad una situazione di svantaggio personale e sociale.

La prospettiva inaugurata dall’OMS nel 2001, racchiusa nella classificazione denominata ICF (International Classification of Functioning), muta ulteriormente i paradigmi di riferimento.

Si passa dalla logica del risarcimento a quella dello sviluppo delle potenzialità presenti in tutti gli individui, compresi quelli più esposti ai rischi di fragilità.

Le classificazioni dell’OMS

Dalla normalizzazione alla valorizzazione

Come precedentemente accennato, dagli anni Settanta del Novecento, l’OMS ha definito la condizione disabilità attraverso un modello “medico-individuale”, secondo cui la disabilità coincideva con una malattia; il disabile, dunque, era un malato da curare; l’obiettivo principale era quello di realizzare una sorta di “normalizzazione”, cercando di far sì che egli si conformasse il più possibile agli stili di comportamento dei “normodotati”.  

Nell’approccio ICF, invece, viene affermato un modello bio-psico-sociale, incentrato su una visione integrale della persona, basata sulla interdipendenza e sulla diversità che caratterizzano il funzionamento di ogni essere umano.

Nelloschema sotto riprodotto, si sintetizza questo mutamento di prospettiva.

ICF: cambiamento di prospettiva

Dunque, l’educazione della persona con disabilità deve essere organizzata non sulla patologia e sui limiti che da questa derivano, ma su un modello socialmente integrato, secondo cui la salute dei bambini, “nati fragili”, dipende dalla coesione e dalla cultura espresse dal contesto personale e ambientale di appartenenza.

Le parole dell’ICF

L’approccio ICF, nella promozione del benessere della persona, attribuisce un’importanza determinante ai fattori contestuali, personali e ambientali. La salute di un bambino può essere condizionata da situazioni negative: povertà economica, educativa, contesti socio-culturali difficili, deprivati, svantaggiati… Sul piano personale si possono originare cause di bisogno educativo speciale nel caso di sfiducia nei propri mezzi, di scarsa motivazione, di sentimenti di rivalsa e di aggressività.

Spesso i due piani si intrecciano: l’approccio ICF può aiutare docenti, genitori, esperti a definire con maggiore adeguatezza la complessità della domanda sociale di queste fasce più vulnerabili della popolazione giovanile. Le parole chiave dell’ICF sono proiettate verso il “poter essere” della persona fragile: agire, imparare, fare, partecipare…

Le parole dell’ICF

Queste azioni cambiano radicalmente la prospettiva sia del progetto scolastico che del progetto di vita del soggetto con disabilità.

Il modello nazionale di PEI

Il Ministero dell’Istruzione ha diffuso il 29 dicembre 2020 il Decreto interministeriale n. 182 con il quale ha provveduto ad adottare il modello nazionale del Piano Educativo Individualizzato. Tale modello era già in agenda nel D.lgs. 66/2017, integrato da quello successivo n. 96/2019. In entrambi i provvedimenti viene fatta propria la classificazione dell’ICF-2001 dell’OMS relativamente al: Profilo di funzionamento, Progetto individuale e Piano educativo individualizzato.

I decreti sopra richiamati hanno assegnato al M.I. il compito di elaborare il modello nazionale di PEI, che per l’appunto è stato adottato con il decreto 182/2020 al quale sono allegate le Linee guida e quattro modelli di PEI, uno per ogni grado scolastico, dall’infanzia all’istruzione di secondo grado.

Il decreto, approvato con la collaborazione dell’Osservatorio nazionale permanente per l’inclusione scolastica e della Federazione delle Associazioni rappresentanti le famiglie degli studenti con disabilità, si compone di 21 articoli ed è stato trasmesso alle scuole con nota 13 gennaio 2021, n. 40.   

Nelle Linee guida del dicembre 2020, si sottolinea che l’elaborazione del PEI presuppone un’attività di osservazione sistematica dell’alunna/o con disabilità. È sicuramente questo uno degli snodi più importanti di quanto richiesto ai docenti del team (scuola dell’infanzia e primaria) e del consiglio di classe (secondaria di primo e secondo grado).  “L’osservazione dell’alunno, si afferma nelle Linee guida, è il punto di partenza dal quale organizzare gli interventi educativo-didattici”.

La struttura del nuovo PEI

La gestione di una classe inclusiva, l’organizzazione delle attività e delle verifiche, la valutazione degli apprendimenti e del comportamento hanno senso solo a condizione che si determini un’effettiva corresponsabilità dei docenti nella fase della progettazione iniziale. Questa clausola è sempre stata coessenziale all’inclusione scolastica fin dagli anni Settanta del secolo scorso. Oggi però è codificata in uno strumento, il PEI, che costituisce il principale “organizzatore” del percorso formativo dell’alunna/o con disabilità.