Una scuola per l’estate?

Dal Piano estate ad una scuola per tutte le stagioni

La reazione degli insegnanti al Piano scuola estate 2021 non sembra essere stata delle più entusiasmanti. Le male lingue hanno detto che gli insegnanti non apprezzano la scuola estiva perché non vogliono perdere le lunghe vacanze, ma chi pensa questo non sa che le lunghe vacanze estive per la maggior parte degli insegnanti sono ormai solo un ricordo e che gli adempimenti sono tanti e tali che le ferie sono diventate davvero di un mese. Le buone lingue invece incoraggiano gli insegnanti: “dai, d’estate si può fare questo e quest’altro; dai, è una soluzione per recuperare un po’ della socialità e dell’apprendimento che i ragazzi hanno perduto; dai, almeno si può preparare l’anno che viene con qualche strumento in più”.  E comunque – dicono – viva la volontarietà, per i docenti e per gli alunni (che fra l’altro non sono contenti nemmeno loro).

Novità o vecchi linguaggi?

Ad essere sinceri, a me sembra comprensibile e apprezzabile la volontà politica di offrire alle scuole qualche strumento per recuperare i gravissimi danni arrecati dalla pandemia, ma alcuni aspetti del Piano mi lasciano perplessa.

Gli obiettivi dichiarati, come tutti sappiamo, sono la realizzazione di una scuola accogliente e inclusiva, la costruzione di occasioni personalizzate di apprendimento, il coinvolgimento del territorio in nuove “alleanze educative” e la promozione di un senso di comunità, la realizzazione di un modello che mitighi il rischio di dispersioni scolastiche e di nuove povertà educative. Non sono obiettivi nuovi per la scuola dell’autonomia.

Anche le attività suggerite non costituiscono elementi di novità per una scuola che da molti anni recita gli stessi principi oggi indicati nel Piano, persegue gli stessi obiettivi, utilizza lo stesso lessico, e da molti anni auspica, se non anche realizza, o male che vada millanta, gli stessi tipi di attività.

Non è solo un progetto in più

Penso che alla fine, come al solito in maniera disomogenea, da territorio a territorio e da istituto a istituto, qualcosa bene o male si farà. Penso anche che la tipologia dei progetti e la qualità degli insegnanti e degli esperti coinvolti incideranno in qualche modo sul numero e sulla tipologia degli alunni che decideranno di aderire.

Il rischio a mio avviso non sta tanto in una modesta partecipazione dei docenti o degli studenti, quanto in una inadeguata significazione non di ciò che il Piano indica esplicitamente, ma di ciò che il Piano suggerisce come riflessione critica a chi ha voglia di leggere tra le righe. Sta nel considerare la scuola d’estate solo una risposta all’emergenza, che si può efficacemente interpretare con un bel progetto di navigazione del territorio o con una stagione di concerti all’aperto o con un concorso di prodotti d’arte. Sta nel riduttivismo e nella molecolarità con cui le scuole possono interpretare e realizzare l’ipotesi delineata, senza riuscire a superare la logica del progetto in più, e lasciando che la scuola dell’autunno, dell’inverno e della primavera resti com’è, mentre la scuola estiva diventa un’altra scuola che si aggiunge a quella ordinaria, normale.

Il rischio di cambiare solo il nome

Non sarebbe un fenomeno nuovo neanche questo, nella nostra scuola: ci si chiede di avere approcci didattici trasversali? E noi continuiamo a insegnare le discipline come le abbiamo sempre insegnate e poi facciamo anche qualcosa che adempia alla “trasversalità” richiesta. Ci si chiede di sviluppare competenze? E noi continuiamo a fare le nostre belle lezioni trasmissive che di competenze non ne costruiscono affatto, ma aggiungiamo qualcosa che nel RAV si possa chiamare prova parallela o compito di realtà e ci sentiamo a posto con lo sviluppo e la verifica delle competenze. Ci si chiede un curricolo di educazione civica? E noi aggiungiamo al curricolo di scuola un altro curricolo che ha il titolo dell’educazione civica, e così via. Una scuola inclusiva? E noi facciamo un Piano inclusione. Didattica differenziata? E noi facciamo lezioni ex cathedra che sono la negazione della differenziazione e poi organizziamo una manciata di ore cui diamo il nome di recupero. È così da sempre: appare molto più facile aggiungere alla vecchia routine qualcosa di nuovo che modificare il vecchio reinterpretandolo alla luce della nuova richiesta. È per questo che le nostre scuole spesso brulicano di progetti e di carte senza che la qualità della formazione migliori significativamente. Ed è per questo che, nel tempo, molte scuole hanno speso milioni dei fondi strutturali europei senza portare a regime le esperienze innovative che dovevano modificare strutturalmente le modalità del fare scuola.

La logica sequenziale delle fasi

Il Piano, in verità, che a prima vista appare innovativo e dirompente rispetto a prassi consolidate nei secoli, adotta un sistema concettuale ed un linguaggio sostanzialmente conservatori. Prima di tutto è suddiviso in fasi, delle quali confesso di non comprendere le ragioni:

  • fase 1: giugno 2021 – Rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e relazionali;
  • fase 2: luglio-agosto 2021 – Rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e della socialità;
  • fase 3: settembre 2021 – Introduzione al nuovo anno scolastico.

C’è dunque un momento per rinforzare le competenze disciplinari ed uno per introdurre al nuovo anno scolastico? Un momento per rinforzare le competenze relazionali ed uno per rinforzare la socialità? Forse il Piano vuol dire che prima devo far reincontrare e familiarizzare gli studenti e poi cominciare le attività sul territorio e con la comunità? Prima devo ripetere le cose perse e poi devo anticipare e introdurre alle cose nuove? Non è pensabile che le attività possano esser finalizzate ad un rinforzo disciplinare tale da recuperare e orientare al nuovo contemporaneamente? Che sia utile alla relazionalità ed alla socialità contemporaneamente? Che possa essere efficace e funzionale sia a giugno che a settembre?

Oppure mi si stanno dando indicazioni su come progettare l’intervento educativo e didattico di ciascun insegnante?

Una occasione per rimettere in discussione la nostra scuola

A me sembra che, nel Piano, sia un po’ nascosta una visione della scuola globalmente innovativa che deve essere perseguita anche (ma non solo) in estate sia per limitare (almeno in parte) i danni prodotti dall’emergenza pandemica, sia per perseguire le finalità istituzionali. L’emergenza pandemica non deve promuovere nuovi progetti, ma rimettere in discussione ciò che non funziona: tempi e spazi, contenuti e metodi, risorse professionali e intese col Territorio, percorsi per i deboli e per gli eccellenti. L’emergenza non deve essere utilizzata per cercare risposte non stagionali, ma strutturali e ri-fondanti l’intero sistema.

Gli obiettivi del Piano non sono nuovi, ma toccano aspetti del nostro sistema d’istruzione che, pur presenti nelle affermazioni di principio, non sono mai stati messi in discussione fino in fondo né dal centro né dalla periferia. A livello centrale non si è posto mano ad annose questioni come la ridefinizione del profilo del docente e dei suoi nuovi diritti/doveri, la qualificazione e il reclutamento di docenti e dirigenti, l’assegnazione dell’organico e la valutazione del merito, ma si è voluto credere che l’innovazione potesse essere affidata alle scelte della “scuola dell’autonomia”, col risultato che l’intero sistema è restato, tranne che in poche isole felici, immutato, rigido, autoreferenziale e nella sostanza poco inclusivo.

Penso insomma che il Piano estate, al di là dei laboratori e dei concerti che verranno “innovativamente” realizzati, andrebbe letto come un’occasione per mettere in discussione e ripensare elementi fondanti del nostro fare scuola.

Le “non” novità del piano per l’estate

Tutto quello che è indicato nel Piano è noto alle nostre scuole: le iniziative indicate (territorio, tradizioni locali, musica arte ambiente e sostenibilità, orientamento…); le metodologie promosse (laboratorialità, cooperazione, utilizzo di nuove tecnologie…), le modalità organizzative suggerite (incontro con mondi esterni, fruizione di spazi extrascolastici, musei e teatri, risorse professionali esterne…). Ma sappiamo anche che le parole della scuola non corrispondono sempre alle prassi abituali. È facile immaginare, quindi, che qualche concerto o qualche laboratorio artistico in uno spazio comunale, o qualche percorso di recupero/approfondimento disciplinare, realizzato in luglio o in agosto o in settembre, potrebbe costituire una novità e un’opportunità formativa per i nostri ragazzi.

Nuovo è rileggere i curricoli alla luce delle esigenze attuali

Sostanzialmente nuovo sarebbe, invece, rileggere le vecchie norme emanate qualche decennio fa e utilizzare l’esperienza pandemica (e con essa, il Piano estate), per ripensare globalmente e profondamente i curricoli:

  • rivedere i contenuti disciplinari nell’ottica di una loro essenzializzazione sul piano quantitativo e qualitativo;
  • interpretare nei fatti e non nelle parole le discipline come “chiavi di lettura della realtà”, utilizzandone metodi e statuti per comprendere la contemporaneità;
  • educare ad una cittadinanza mondiale supportata da pensiero scientifico-critico;
  • educare a leggere problemi planetari complessi con visioni interdisciplinari;
  • promuovere attività e scelte tematiche capaci di scoprire interessi, orientamenti, talenti.

Nuovo è una didattica all’altezza degli studenti

È oggi urgente condividere la necessità psicopedagogica e culturale di ridurre le lezioni frontali e promuovere didattiche centrate su dimensioni dell’apprendimento costruttivistiche e interazionistiche. L’offerta formativa va differenziata, vanno istituiti laboratori e potenziati i gruppi di ricerca, attivi tutto l’anno, articolati per interesse e, se necessario, anche per livelli. Vanno riviste le strategie di apprendimento e promosse quelle che funzionano di più (peer tutoring, relazioni di studio one to one). Vanno meglio integrate le attività da svolgere in presenza e quelle in DAD partendo dal presupposto che il percorso curricolare, tolti i periodi di “vacanza”, è un continuum di presenza e distanza, di luoghi interni ed esterni, di docenti ed esperti, di discipline studiate e discipline applicate, di lavori di gruppo e di studio individuale, di apprendimenti scientifici da sperimentare sul campo e di esperienze sul campo da trasformare in apprendimenti scientifici. Ciò avviene nelle stagioni fredde e in quelle calde, con variazioni dovute soltanto ai diversi bisogni educativi ed alle competenze progettuali e didattiche dei docenti.

Ma è anche questione di professionalità

Gli insegnanti quando li chiami vengono. Lo si è visto negli sforzi immani compiuti per rispondere alle emergenze di questi due ultimi anni. Ma qui il problema non è farli venire, il problema sta nel senso da dare al loro lavoro, nell’ampiezza dell’obiettivo che perseguono, nel potenziale trasformativo di quello che faranno.

Quest’anno le cose andranno bene o male o benissimo o malissimo, non lo sappiamo ancora. Ma se vogliamo davvero perseguire tutti gli obiettivi dichiarati nel Piano estate, non basta qualche progetto in più, qualche finanziamento in più, qualche esperto in più: occorre una rivoluzione dell’idea di scuola, di apprendimento e di insegnamento, di disciplina e di interdisciplina, di cultura e di cittadinanza, di inclusione, di flessibilità, di metodologie, di tecnologie…

Per rivoluzionare profondamente e globalmente la nostra idea di scuola occorrono professionalità molto elevate, profili ridelineati, contratti ridefiniti. Solo così il Piano estate 2021 potrà suggerire un nuovo modello educativo e potrà diventare, come auspica il suo incipit, il punto di partenza di un percorso di trasformazione ed evoluzione del sistema Istruzione.