In attesa dell’esame di Stato

Le contraddizioni da superare

L’Esame di Stato si svolge al termine del primo e del secondo ciclo di istruzione, è considerato un traguardo importante che porta a sintesi il percorso scolastico che lo studente compie a partire dal suo primo giorno di scuola. È finalizzato, dunque, a valutare le competenze acquisite e la congruità con quelle che servono allo studente che intende prosegue gli studi, al futuro lavoratore o semplicemente al cittadino consapevole e responsabile.

Le regole che fondano le procedure sono state modificare dal D.lgs. 62 del 13 aprile 2017 anche in coerenza con i regolamenti veicolati dai DPR 87, 88, 89 del 15 marzo 2010 che hanno riordinato gli Istituti professionali, tecnici e i Licei.

Le ordinanze annunciate

Di solito, nella prima decade del mese di febbraio vengono fornite le indicazioni di dettaglio per l’anno in corso con una annuale ordinanza. In questa fase di emergenza pandemica le ordinanze, oltre ad essere spostate in avanti, hanno anche modificato sostanzialmente sia le modalità di svolgimento sia le stesse prove oggetto di valutazione finale. 

Il 31 gennaio scorso, sono state annunciate dal Ministro le nuove modalità di svolgimento degli esami per l’anno in corso. le Ordinanze sono state illustrate ai sindacati e trasmesse al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (CSPI) per il previsto parere.

Sembrerebbe dunque che si ritorni, dopo due anni, alle prove scritte e al colloquio in presenza, sia per il primo sia per il secondo ciclo di istruzione.

Per l’Esame del primo ciclo sono previste: la prova di accertamento delle competenze in lingua italiana e una relativa alle competenze logico-matematiche. Nel colloquio saranno accertate anche le competenze sulla lingua inglese e quelle acquisite grazie all’insegnamento dell’Educazione civica. Anche per il secondo ciclo sembra che si voglia ritornare ad una prima prova scritta di Italiano (che sarà disposta a livello nazionale); a una seconda prova sulle discipline di indirizzo, predisposta però dalle singole commissioni d’Esame; a una terza prova costituita dal colloquio orale.

Il parere del CSPI

Dopo le proteste degli studenti il Ministro Bianchi ha tenuto a precisare che tali scelte tengono conto di tutte le difficoltà vissute dai ragazzi in questi ultimi due anni. Da qui anche l’indicazione di affidare la seconda prova scritta nel secondo alle commissioni interne. I professori conoscono bene i percorsi personali degli studenti e possono quindi proporre prove più adeguate alle attività e alle esperienze effettuate.

Non è stato, però, dello stesso avviso il CSPI che ha eccepito proprio sulla seconda prova: essendo tarata sui livelli di apprendimento raggiunto dai ragazzi non può garantire un giudizio uniforme a livello nazionale, come si addice invece ad un esame di Stato.

Il CSPI, inoltre, mette in evidenza altri punti di criticità sui quali chiede che si ponga una particolare attenzione:

  • difformità delle prove e dei risultati tra le diverse aree geografiche, tra le scuole e tra le classi della stessa scuola;
  • assenza di indicazioni che possano garantire la collegialità nella formulazione della prova almeno a livello d’Istituto;
  • incoerenza tra i quadri di riferimento allegati al DM 769/2018, richiamati dall’ordinanza in esame, e l’ordinanza stessa;
  • rischio che la prova di indirizzo, elaborata dal docente della disciplina, diventi una semplice riproposizione di una prova analoga a quelle effettuate nel corso dell’anno;
  • rischio che la predisposizione e la valutazione della prima e della seconda prova scritta siano affidate allo stesso commissario, come potrebbe avvenire nel Liceo Classico.

Il rischio delle contraddizioni

L’obiettivo del Ministro, quello di un ritorno progressivo verso la normalità, ci pone una serie di domande. Se l’esame di maturità ha sempre voluto rappresentare l’indicatore della visione di scuola che esprimono i governanti, le contraddizioni, che ancora persistono nella versione di quest’anno, dimostrano l’indebolirsi di una progettualità annunciata, ma sempre più in difficoltà a sostenere gli elementi di innovazione che sono stati introdotti nel PNRR. Questi elementi stentano a decollare ed anziché mettere la scuola in relazione al cambiamento della società, aperta ai territori e al mondo del lavoro, rischiano di riportarla ad una condizione autoreferenziale che la fa ritornare vittima della contesa politica.

A che cosa serve l’esame di Stato

Incominciamo con il chiederci a cosa serve oggi un esame di fine percorso scolastico se l’Università tiene in scarsa considerazione i risultati della scuola secondaria. Da anni, infatti, gli Atenei hanno generalizzato specifiche prove di accesso, e non solo i politecnici ma anche le facoltà di medicina, e a queste presumibilmente ne seguiranno altre.  Le prove si potranno svolgere a partire dal quarto anno. Allo stesso modo avverrà l’ammissione agli Istituti tecnici superiori (ITS), in ragione della particolare specializzazione.

Le imprese non sono interessate al dibattito sui “cento e lode”, ma vanno alla ricerca di competenze, generali e tecniche, spendibili il più in fretta possibile ed adattabili all’innovazione, ottenute da un mix di attività formativa in aula ed esperienze in azienda.

È solo un rito di passaggio?

Se quindi né l’Università, né il mondo del lavoro guardano con particolare interesse questo momento conclusivo della vita scolastica, resta solo come valore interno per le persone che lo devono sostenere, come rito di passaggio, soprattutto come occasione di autoverifica della propria formazione personale e sociale e di orientamento per gli studi e per la vita.

Se è così si potrà trarre profitto da un esame che sappia esprimere la massima personalizzazione e che permetta contestualmente un confronto con la realtà sociale e produttiva.

Non si possono cancellare le difficoltà vissute

Ma chi sono, in questo periodo storico, i giovani che affrontano la maturità? Sono quelli che sono passati attraverso la pandemia e la didattica a distanza. È opinione abbastanza diffusa tra le famiglie e anche tra alcuni operatori scolastici che molti sono stati i disagi subiti in tali condizioni: sul piano delle relazioni, su quello degli apprendimenti, per molti anche a causa delle non adeguate dotazioni tecnologiche che, in alcuni casi, hanno anche favorito l’abbandono. Ci deve essere, quindi, comprensione, ma soprattutto si deve fare in modo che le prove finali siano correlate con le difficoltà reali con le quali per molto tempo i giovani sono stati costretti a fare i conti.

Una prova orale ben articolata

Da qui sono nate le scelte adottate negli anni della pandemia: una sola prova orale bene articolata, che presupponeva una tesi costruita come esperienza didattica che comprendeva anche i risultati di attività realizzate in collaborazione con altri soggetti extrascolastici, svolte in alternanza con i curricoli sviluppati nelle aule. Un esame diverso che rispecchiava l’iter compiuto e valutato dai docenti che avevano accompagnato gli studenti fino alla conclusione del percorso scolastico: un momento significativo anche per gli stessi docenti che non erano chiamati a confermare una quantità di contenuti, ma semplicemente a dialogare su un processo di maturità personale arricchito da una pluralità di linguaggi.

La ricerca qualitativa delle competenze

La conclusione non poteva essere la valutazione sommativa, che si spera oramai superata, ma una ricerca qualitativa delle competenze acquisite nel corso degli anni, per effetto di un piano didattico ricco e articolato. Il tipo di prova finale sollecitava gli stessi studenti a diventare protagonisti nella costruzione del piano, anche attraverso la compilazione del proprio “curriculum” che, in seguito, avrebbe potuto offrire crediti sul piano accademico e lavorativo. La stessa rappresentazione attraverso un elaborato di tale percorso, da presentare al colloquio d’esame, poteva diventare una procedura abbastanza simile a quella richiesta negli esami di laurea.

Una formula da consolidare

Sembrava una formula acquisita e giudicata positivamente dagli studenti e dagli stessi dirigenti e docenti, e quindi da consolidare. Così aveva fatto anche intravvedere lo stesso Ministro Bianchi prima di essere sollecitato dall’intellighenzia nostalgica e da coloro che non hanno mai superato l’idea di una scuola autocentrata. Poi il ritorno alla normalità è stato interpretato come un ritorno al passato e quindi, nella scuola, traducibile con la reintroduzione delle prove scritte. È un ragionamento di vecchio conio che non prende in considerazione un processo fondamentale: arrivare a produrre un lavoro originale e personale comporta l’utilizzo della lingua italiana e anche di altre lingue e linguaggi in maniera più avanzata rispetto alla produzione del solito tema.

Anche la seconda prova avrebbe potuto avere un senso diverso, come espressione dell’autonomia curricolare delle scuole, e non semplicemente come qualcosa di più facilmente abbordabile da parte di studenti solo perché hanno vissuto una didattica discontinua e disagiata.

Una scuola aperta e innovativa non è più quella che discute su promozioni o bocciature, ma su un efficace orientamento dei giovani. E su questo il nuovo esame di Stato avrebbe potuto porre il sigillo.