Una riforma (im)possibile

Valorizzare la professionalità docente

Una riforma serve per migliorare la scuola, e quindi tutto il nostro Paese. Perché una riforma da impossibile diventi possibile, è necessario che I 20 temi suggeriti, per esempio, nel libro di Giancarlo Cerini in Atlante delle riforme (im)possibili non siano solo nell’agenda del Ministro dell’Istruzione, ma anche in quella del Governo, nei calendari dei due rami del Parlamento, e prima ancora nei programmi di tutti i partiti[1].

Per motivi che conosciamo bene questo non accade. Nei programmi elettorali la scuola è citata (quando lo è) o con slogan o con affermazioni generiche, oppure attraverso lunghi elenchi di dichiarazioni di “priorità” che continuano a rimanere tali.

Qualche volta capita anche che qualche aspetto venga pure preso in considerazione, ma in maniera sbagliata tradendone il senso e la visione originaria. È il caso della valorizzazione delle professionalità con la formazione incentivata e l’insegnante esperto. Vediamo perché.      

La scuola è una “comunità educante”

Lo ricorda lo stesso articolo 24 del contratto scuola 2016-2018. Alla “comunità educante” oltre che studenti e famiglie appartengono il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA, il personale ATA. La qualità del nostro sistema scolastico dipende dalla preparazione di tutti i componenti della “comunità educante” e non solo di alcune categorie.

Bisogna quindi valorizzare coloro che si impegnano, oltre che ad insegnare, a migliorare l’organizzazione e la gestione della scuola, anche le figure che rappresentano punti di riferimento per tutti i colleghi o perché sono esperti nelle discipline e nelle didattiche o perché aiutano a curare la professionalità, ancor più quelli che riescono a creare interesse nei ragazzi e a far crescere la loro motivazione, che lo sanno fare perché sono competenti, appassionati e conoscono le strategie.

Il mestiere di insegnante deve diventare “attrattivo”

È un elemento di grande criticità la mancanza, specialmente nel Centro-Nord, di docenti in molte classi di concorso. Ricorrere alle MAD, quindi molto spesso a studentesse e studenti che hanno appena iniziato il percorso formativo universitario, non è sicuramente una soluzione che potrà migliorare la nostra scuola.

Quella dei docenti è un’alta professionalità che deve essere incentivata e valorizzata. Intanto è giusto che si pensi seriamente all’allineamento delle retribuzioni alla media europea, entro i prossimi cinque anni, come è indicato nel programma del Partito democratico. È una misura che dovrebbe riguardare tutto il personale e potrebbe diventare il punto di partenza. È una misura giusta anche perché la professionalità degli insegnanti nel tempo è diventata molto più articolata, non c’è solo l’insegnamento ma ci sono tutte le azioni volte a costruire rapporti proficui con il territorio, a gestire le attività di orientamento didattico e professionale, ad occuparsi di organizzazione dei progetti, di formazione ed altro.

Senza contare il delicato lavoro del docente d’aula che sta cambiando anche per la complessità della gestione delle classi. C’è un impatto non facile con la cultura giovanile e con il mondo digitale. Ci sono le nuove forme dell’apprendimento e della comunicazione, le difficoltà dei rapporti educativi tra le generazioni…

Questo scenario “in movimento” richiede insegnanti capaci di gestire un ambiente di apprendimento al di là della cattedra, perché il lavoro a scuola non è più rappresentato solo dall’orario frontale di lezione, ma dall’interazione con gli allievi sul web, dalla preparazione di materiali didattici digitali, dall’apprendimento out door, dal tutoraggio individuale, dalla gestione di relazioni sociali complesse. Da qui scaturisce un’altra considerazione…

Il lavoro dell’insegnante deve essere “socialmente riconosciuto”

L’immaginario collettivo del docente è quello di un lavoratore a tempo parziale. Anche se rispetto al passato un po’ è migliorata la percezione sociale, di fatto chi è estraneo al mondo della scuola fa fatica a capire quanto impegno orario ci sia dietro le 18/24 ore di insegnamento.

I dati TALIS pubblicati nell’ultimo quaderno Eurydice (marzo 2021)[2] rivelano che, in media, gli insegnanti in Europa hanno dichiarato di lavorare 39 orea settimana.

Si potrebbe allora quantificare il lavoro complessivo in un tot di ore settimanali (30, 32, 36 …), arrivare ad un orario unificato contrattualizzato che comprenda tutto. Ma la cosa più importante è quella di avere il coraggio di far coincidere l’orario totale del docente con la presenza a scuola.

Oggi questo è possibile perché abbiamo scuole con più spazi anche a causa (purtroppo) della diminuzione dell’anagrafe scolastica, e anche perché abbiamo le risorse per l’edilizia scolastica. Possiamo quindi creare negli ambienti scolastici contesti adeguati e accoglienti anche per il lavoro dei docenti oltre che per quello degli studenti.

È necessario che ciò sia preso in carica dalle parti sociali. Gli insegnanti sono pronti ad un contratto che definisca un monte ore strutturato (comprensive di ricerca, studio e pratica in classe, ore da dedicare alla propria preparazione…) da svolgersi nei luoghi di lavoro.

Questi tre punti (importanza della comunità educante, allineamento della retribuzione ed emersione del lavoro sommerso) costituiscono, però, solo un primo passo, importante ma non sufficiente. Per rendere veramente attrattiva la professione educativa, bisogna che ci sia anche uno stimolo di carriera. È così per tutte le professioni.

Sviluppo di carriere? Si, ma per quali figure?

È veramente triste pensare che sul versante dello sviluppo delle carriere nel corso di mezzo secolo abbiamo fatto solo tentativi maldestri. Qualche timido lancio in avanti è stato immediatamente smentito da dieci passi indietro ed ora siamo di fronte ad una soluzione ancora più maldestra (quella dell’articolo 38 del Decreto legge 115/2022).

Prima di entrare nel merito dei possibili meccanismi di incentivazione, va chiarito un concetto importante. Quali professionalità devono essere incentivate e premiate? La carriera è un diritto di tutti, ma nelle professioni etiche come quella del docente, non solo dovrebbe essere finalizzata a rendere attrattivo un lavoro e a migliorare la vita di un insegnante, ma anche e soprattutto ad arricchire la qualità della scuola, a fare evolvere i processi nell’ottica del miglioramento degli esiti formativi degli studenti.

In altre parole andrebbero privilegiate quelle figure la cui professionalità vada a ricadere sulla comunità scolastica in qualsiasi settore: accompagnare la didattica, agire sulle fragilità, supportare l’organizzazione, coordinare i percorsi formativi…

E su questo non ci siamo con l’articolo 38 del Decreto legge 115/2022. Ciò che rende inaccettabile la scelta dell’insegnante esperto è che si incentivano competenze che non vanno a ricadere sulla comunità professionale, ma solo su pochi docenti che non hanno, tra l’altro, alcun onere di “rendicontazione” (non ci sono mansioni diverse da quelle dell’insegnamento d’aula).

Sul presupposto invece di una incentivazione “feconda” e aperta, non sterile, per lo sviluppo di carriera, il mondo della scuola non avrebbe tendenzialmente nulla in contrario. Si tratta di mettersi d’accordo sulla scelta dei meccanismi. E arriviamo alle questioni clou. 

Quale percorso di sviluppo di carriera è possibile? Solo con la formazione?

La formazione è una variabile fondamentale per diventare bravi insegnanti, ma servono altre componenti: il confronto con i colleghi e la partecipazione a comunità di pratiche, l’aver lavorato in contesti diversi dal punto di vista linguistico e culturale, l’aver fatto esperienze in altri Paesi.

“La qualità dell’istruzione ha radici, non solo nel sapere teorico, ma anche nel sapere pratico: non è un sapere minore, ma un insieme di conoscenze, abilità e capacità, costruite nel tempo, condivise con i colleghi e alimentate continuamente dal dialogo professionale”[3]. Una “carriera” costruita sulla formazione non va in alcun modo esclusa, ma se questa costituisce l’unica variabile rischia di non offrire tutte le garanzie necessarie.

È pur vero che i criteri, in base ai quali si selezionano gli insegnanti cui riconoscere la qualifica di “docente esperto”, sono rimessi alla contrattazione collettiva, ciò non assicura però che non siano esclusi quei docenti che hanno già acquisito importanti competenze sul campo e che già operano dando contributi efficaci alla scuola. La conflittualità che ne potrebbe derivare è uno scenario verosimile, anche perché la legge mette bene in evidenza che “la qualifica di docente esperto, non comporta nuove o diverse funzioni oltre a quelle dell’insegnamento”. Quindi, ritorniamo al fatto che con questo sistema l’incentivazione riguarda solo il docente e non il miglioramento della scuola.

Un “insegnante esperto” senza standard professionali condivisi

È accettabile pensare ad uno sviluppo di carriera senza aver prima condiviso con la comunità professionale (meglio ancora con la comunità sociale) la cultura degli standard, i livelli di sviluppo e la cultura della documentazione?

L’avvio di un sistema serio di incentivazione deve partire dalla condivisione sociale dei riferimenti culturali, dei criteri di qualità, degli indicatori che verranno utilizzati per apprezzare e riconoscere le competenze e la qualità del lavoro svolto.

Un documento istituzionale, a cui il Decreto legge 115/2022 avrebbe potuto far riferimento, risale al 16 aprile 2018, e ha per titolo “Sviluppo professionale e qualità della formazione in servizio”. Il documento, rinvenibile sul sito del Ministero[4], è suddiviso in tre percorsi: Standard professionali; Dossier professionale del docente; Indicatori di qualità e governance.

Gli “Standard professionali” non devono essere considerati, però, come traguardi rigidi, ma come un insieme dinamico di competenze teoriche, pratico-operative (che delineano il “sapere specialistico” del docente) e di comportamenti attesi. Questo concetto è ben articolato nel documento citato dove vengono anche descritte, in maniera dettagliata, le posture ottimali che configurano una competenza matura e accreditata. Ogni standard deve consentire ad un docente di posizionarsi rispetto al suo livello di maturazione professionale e rappresentare una spinta per la crescita continua, prima ancora che una prescrizione normativa da accertare. Però, c’è un altro problema: quello dei livelli.

Un “insegnante esperto” senza collegamenti con il ciclo di vita lavorativo

La locuzione utilizzata “insegnante esperto”, seppure abbastanza diffusa in letteratura, dà adito a facili ironie perché non è collegata al ciclo di vita lavorativo. Avrebbe senso se si parlasse invece di novice teacher, expert teacher e senior teacher.

È necessario che siano prima definiti indicatori di “livelli di sviluppo” per offrire una base di riferimento concreta. La parola “livello” spesso nel mondo della scuola fa paura. Non è però così se noi la utilizziamo, innanzitutto, per tratteggiare l’evoluzione o la progressione di talune caratteristiche delle competenze professionali e non in termine classificatorio o di merito. Il riferimento ad un livello aiuterebbe ogni docente a migliorare le proprie prestazioni all’interno delle diverse aree di competenze. Per esempio, nel documento del 16 aprile 2018 sono espresse tre fasi di sviluppo: livello iniziale, livello base, livello esperto:

  • il livello iniziale è quello del docente principiante e in prova, in fase di formazione e di inserimento lavorativo, che ha bisogno di accompagnamento e tutoraggio. È la fase di adattamento e di sviluppo verso gli standard attesi;
  • il livello base è quello del docente con competenza accreditata, che ispira i propri comportamenti professionali a quelli attesi;
  • il livello esperto riguarda il docente di comprovata competenza ed esperienza in grado di mettersi a disposizione di altri colleghi e di favorire lo sviluppo di comunità di pratiche.

Va pure ricordato che tale suddivisione in livelli è in sintonia con le scelte a carattere europeo e internazionale. Alcuni studiosi del settore articolano infatti la progressione delle carriere degli insegnanti su tre o quattro fasce di professionalità, per esempio:

  • il pre-service teacher, in cui l’insegnante è ancora in formazione iniziale;
  • il novice teacher (primi 5 anni dopo l’anno di prova), in cui il docente presenta ancora scarsa consapevolezza situazionale e riflessiva;
  • l’expert teacher o master teacher (da 5 a 10 anni di servizio) che rappresenta il docente con una professionalità consolidata;
  • il senior teacher (oltre 10 anni di servizio) che costituisce il docente in grado di dare un supporto ai colleghi.

Purtroppo il “docente esperto”, previsto dall’articolo 38 del Decreto legge 115/2022, non nasce da un fondamento culturale, non è l’esito di un percorso sociale condiviso, non rientra neanche nella cultura del nostro Paese. Sarebbe stato utile, e neanche difficile, ripartire da un confronto con le parti sociale sulla base dello stesso documento istituzionale del 16 aprile 2018. E veniamo all’ultima considerazione: la documentazione.

Che fine ha fatto il portfolio?

Un’altra questione da approfondire è quella degli strumenti che devono essere utilizzati per permettere ai lavoratori della scuola di poter documentare in maniera giusta la propria biografia professionale.

Il docente inizia nell’anno di formazione con il piede giusto (DM 850/2015 e DM 226 del 16 agosto u.s.): c’è un portfolio in cui raccogliere e documentare le esperienze e descrivere le competenze acquisite; c’è un bilancio di competenze per capire le aree di criticità e di potenzialità.  

Perché questi strumenti finiscono lì? Nel documento ministeriale del 18 aprile 2018 è rinvenibile uno studio approfondito dei diversi modelli di curriculum e portfolio utilizzati a livello internazionale e nazionale a scopo formativo, documentativo e valutativo ed è pure delineato un modello implementabile in formato digitale. Nel documento si mettono, inoltre, in evidenza le connessioni tra portfolio, curriculum, bilancio di competenze e patto formativo per tracciare l’identità professionale di ogni insegnante.

L’utilizzo del portfolio garantirebbe un approccio non amministrativo, ma orientato alla valorizzazione qualitativa della biografia professionale di ciascun docente. Il portfolio permetterebbe una documentazione dinamica della propria crescita, aiuterebbe gli insegnanti ad acquisire consapevolezza dei momenti significativi delle azioni didattiche, anche attraverso la costruzione e ricostruzione di incontri ed eventi, permetterebbe di documentare ricerche e risultati innovativi, faciliterebbe il riutilizzo delle “buone pratiche” e i rapporti con i saperi degli studenti.

Il portfolio consentiorebbe inoltre di poter elaborare un bilancio critico delle proprie competenze, di valutare anche la coerenza tra le proprie idee sul fare scuola e le pratiche didattiche che, di fatto, si realizzano in classe.

Da dove ripartire

Bisogna proporre modifiche e integrazioni che possano ricondurre le scelte della “formazione incentivata” e dell’“insegnante esperto” entro binari che siano veramente funzionali agli obiettivi di miglioramento della scuola e che siano condivisi con le parti sociali.

I nuovi decisori politici hanno una grande responsabilità. La scuola, come sempre, è pronta a fare la sua parte[5].


[1] Intervento di Mariella Spinosi alla Festa dell’Unità, Bologna 6 settembre 2022.

[2] https://eurydice.indire.it/wp-content/uploads/2022/04/QUADERNO_EURYDICE_51_insegnanti.pdf

[3] Cfr. MG Dutto, Vela d’Altura, Tecnodid, 2019.

[4] https://www.miur.gov.it/web/guest/-/sviluppo-professionale-e-qualita-della-formazione-in-servizio-documenti-di-lavoro

[5] Per approfondimenti cfr. Notizie della scuola n. 24 del 16/31 agosto 2022, “Reclutamento, formazione, carriere, docente esperto”.