Educazione all’affettività

Troppi luoghi comuni

Il tema dell’educazione sentimentale e affettiva è oggi al centro del confronto culturale e politico per un gravissimo femminicidio, quello di Giulia, che getta nello strazio e nel dolore due famiglie amiche e aggiunge altro dolore alla scia di sangue di donne uccise, in quanto considerate oggetto e proprietà dell’uomo.

In questo, come in altri casi, la prima istituzione ad essere chiamata in causa è la famiglia. Subito dopo, la scuola. Il tutto oscurato da un dibattito mediatico-televisivo avvilente che, dalla mattina alla sera, crea un’enorme confusione e un senso di spaesamento sempre più mortificanti.

La scuola, in particolare, viene costantemente investita di nuovi compiti e funzioni, in una logica di rincorsa di tutte le bruttezze del nostro tempo. Le si chiede implicitamente di farsi carico di un problema irrisolvibile, quello di contrastare lo sfarinamento dei legami sociali che da “liquidi” stanno diventando sempre più “gassosi”.

Le norme, già ci sono

Per ogni problema che insorge nella complessa struttura della società attuale, si invocano leggi, provvedimenti, progetti ad hoc, dimenticando che le norme già ci sono.

Se, ad esempio, circoscriviamo l’attenzione agli ultimi vent’anni, il 13 aprile del 2004 il governo di centro destra (allora ministro dell’Istruzione era Letizia Morati) varò il decreto legislativo n. 59 che definiva le norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo di istruzione, con allegate le Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati dai 3 ai 14 anni. Il testo relativo alla scuola secondaria di primo grado comprendeva anche obiettivi di apprendimento riguardanti l’educazione alla Convivenza civile, suddivisa in 6 ambiti, tra i quali l’educazione all’affettività. Era il curricolo delle cosiddette “sei educazioni” (cittadinanza, educazione stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività).

I risultati di questa operazione non sono stati particolarmente esaltanti, anche se hanno contribuito ad alimentare un dibattito circa la trasversalità di questi “insegnamenti” all’interno delle discipline di studio, dall’italiano alla matematica, alla storia, all’arte…, che risulta ancora oggi molto attuale.

Con la legge 169 del 30 ottobre 2008 è stata introdotta l’educazione alla “Cittadinanza e Costituzione” e, infine, con la legge 92 del 20 agosto 2019, il Parlamento ha reso obbligatorio, dalla scuola primaria all’istruzione superiore, l’insegnamento trasversale dell’educazione civica per un monte ore annuale di 33 ore anticipandone esperienze di sensibilizzazione alla scuola dell’infanzia. Nella legge 92/2019 e nelle successive Linee guida (D.M. n. 35 del 22 del giugno 2020) ci sono tutti i presupposti che consentono di affrontare i temi del rispetto e dell’educazione affettiva oggi continuamente invocati.

Un po’ di chiarezza

Nel disordinato messaggio mass mediatico che caratterizza queste settimane, pseudo esperti, opinionisti, commentatori… si trasformano in investigatori che, anziché cercare ragioni e cause di questi feroci e ricorrenti fenomeni frugano per ore e ore nei particolari, anche più irritanti, per soddisfare le curiosità di un pubblico che fondamentalmente questo vuole.

Chi opera, invece, in ambito educativo, non solo deve sottrarsi a queste sirene, ma dovrà impegnarsi a fare chiarezza, ricostruendo un lessico che non riduca l’affetto al sesso, l’amore al possesso, il corpo ad un semplice involucro, gli accadimenti ad un’investigazione di particolari, compito quest’ultimo delle forze dell’ordine e della magistratura e non certo di commentatori improvvisati.

La stessa idea che una donna possa essere trattata come una proprietà non riflette necessariamente una mentalità patriarcale tout court. Ho conosciuto personalmente tante famiglie patriarcali dove il pater familias era spesso una guida, non un giustiziere.

Occorre poi sottolineare che il fenomeno dei femminicidi non è una prerogativa esclusivamente italiana. In un grafico, pubblicato sul quotidiano La Stampa (21 novembre 2023, fonte Uno dc- Nazioni Unite), l’Italia figura addirittura nelle ultime posizioni. Per ogni 100.000 donne, la percentuale dei femminicidi in Germania è dello 0,80; in Francia della 0,65; in Gran Bretagna dello 0,61; in Spagna dello 0,41; in Italia dello 0,39. La cosa non ci può certamente rallegrare. I dati dimostrano però la complessità del problema in tutte le società ipermoderne.

La famiglia

La dissoluzione dell’autorità paterna, cominciata oltre mezzo secolo fa, ha “liberato” i figli da quella figura esemplare che assicurava la trasmissione delle norme e dei comportamenti di vita. L’indebolimento della famiglia si accompagna quasi sempre al mito del successo individuale e alla perdita di testimoni autorevoli che hanno storicamente assicurato protezione ai giovani, permettendo loro di sviluppare un autonomo progetto di vita.

I figli, spesso soli, abitano un presente dal futuro incerto, in famiglie destituite di ogni funzione simbolica. Tale perdita coinvolge anche la scuola. Per di più, soprattutto nel nostro Paese, già nell’età della preadolescenza, si fa strada l’illusione che tutto sia possibile senza sforzo. Così, si pensa di soddisfare i sentimenti “forti” come l’amore, l’innamoramento, l’amicizia, il rapporto sessuale, … alla stregua di un qualsiasi prodotto materiale. 

A farne le spese sono soprattutto le bambine e le ragazze che, in questo quadro, costituiscono l’anello debole. Il “maschio” è comunque più forte e, quindi, è in grado di sottomettere la femmina, comunque più fragile. Dunque, perdente!

Inoltre i social media hanno un’influenza destabilizzante sui processi che stanno alla base di un’identità sicura. La smaterializzazione della realtà, connotato essenziale dell’epoca attuale, accentua il processo di rimozione del rischio e del senso del limite, essenziali, in vista della costruzione di identità mature.

Figli, spesso abbandonati a sé stessi, accedono, fin da piccoli e con facilità e per tempi illimitati, alla rete dove la mercificazione del corpo della donna è l’immagine dominante, quasi ossessiva.

Ma ci sono programmi in cui succede anche il contrario. Ci si nutre così in tenera età di immagini in cui il virtuale imprigiona il reale in una spirale in cui all’uomo è concesso di disporre della donna come meglio crede. Questa “cultura” di morte e di possesso è alla base del naufragio della famiglia. Certo, fortunatamente, non di tutte!

La scuola

I giovani avvertono il bisogno di brave/i maestre/i. Come l’esempio di genitori che si amano e si rispettano vale più di mille parole, così la testimonianza dell’insegnante è la forma più elevata di educazione. Si insegna ciò che si sa, ma soprattutto ciò che si è!

I bravi docenti si prendono cura dei loro studenti attraverso la passione e la vitalità con cui esercitano la loro professione. Questa loro funzione può essere declinata su due piani: psicologico e culturale.

  • Sul piano psicologico si misura la capacità del maestro di mantenere vivo con gli studenti un dialogo educativo, indipendentemente dalla disciplina insegnata.
  • Sul piano culturale si misura la solidità disciplinare e la competenza di saper attualizzare la conoscenza in modo che gli stessi saperi possano diventare momenti per comprendere i problemi di oggi.

L’autoritarismo, a volte eccessivo, del genitore “patriarcale”, si è trasformato in giustificazionismo, che incoraggia i figli a trovare sempre nuovi capi espiatori alle proprie mancanze.

Se vanno male a scuola è colpa degli insegnanti, se vengono bocciati si ricorre al Tar. La fatica di crescere ha comportato e comporta quelle necessarie frustrazioni che oggi vengono immediatamente catalogate come disturbi a cui solo lo specialista può dare una risposta e trovare il giusto rimedio.

C’è bisogno di un progetto specifico, come quello presentato nei giorni scorsi dal ministro del MIM, Giuseppe Valditara? Mah. La proposta avanzata, “Educare alle relazioni”, riferita all’istruzione di secondo grado, risulta decisamente fragile. Innanzi tutto, si tratta di adesione facoltativa da parte delle scuole e poi stiamo parlando di un investimento di 15 milioni per formare l’ennesimo docente referente d’istituto. Si vedrà. Le premesse non sono incoraggianti.

L’abdicazione educativa

In una società frammentata come quella che stiamo vivendo, la domanda di educazione dei ragazzi deve essere presa in carico dall’intera comunità. Famiglia, scuola, oratori (dove ci sono), gruppi, associazioni… presi singolarmente non riescono a produrre quella “massa d’urto” necessaria a prevenire e contrastare un malessere giovanile, subdolo e difficilmente catalogabile, perché si manifesta da Nord a Sud e in tutti gli strati sociali della popolazione.

La compattezza educativa che, nel bene e nel male, ha caratterizzato la società italiana fino al Dopoguerra non esiste più. Occorre prendere atto che molti genitori hanno rinunciato alla funzione di crescere i figli, educandoli, per tante ragioni (mancanza di tempo, assenze dovute al lavoro, stanchezza…), ma soprattutto per il fatto che la famiglia nucleare è strutturalmente fragile. Figli soli e genitori soli possono fare ben poco per arginare la potenza dei media che, di fatto, si stanno sostituendo alle tradizionali istituzioni educative.

Oltre i protocolli istituzionali, per una risposta sociale

Che fare? Sicuramente il tema della condizione giovanile deve diventare una assoluta priorità della politica. Più che di protocolli o norme generali, c’è bisogno di agire nel tessuto specifico delle comunità. Il contesto di appartenenza è lo spazio privilegiato di intervento, in cui figli e genitori, alunni e professori… possono effettivamente costruire le condizioni per una reale educazione al rispetto e alla capacità di elaborare le frustrazioni.

Penso che occorra educare tutti, giovani e adulti, al senso del limite: è la parola chiave di un patto educativo di comunità.

Su questo tema sarebbe interessante aprire un confronto, raccontando anche le numerose buone pratiche che tante scuole, già da tempo, stanno realizzando.