Voti o lettere?

Guelfi o ghibellini?

Cominciano a filtrare le prime ipotesi sull’attuazione della delega contenuta nella legge 107/2015 in materia di valutazione degli allievi (e di certificazione delle competenze) nel primo ciclo di istruzione. Ma siamo appena ai primi passi. Un apposito gruppo di lavoro ha fornito agli uffici del MIUR una bozza con alcuni suggerimenti, tra i quali appare rilevante l’adozione di nuove modalità di valutazione, non più basate sui voti in decimi ma, probabilmente, su una scala pentenaria dove i 5 livelli potrebbero essere rappresentati dalle lettere dell’alfabeto (A, B, C, D, E) o da aggettivi sintetici. La delega prevede anche una semplificazione dell’attuale esame di licenza media, con l’accantonamento della temuta prova Invalsi (di carattere nazionale) che sarebbe anticipata all’interno dell’anno scolastico.

Ma torniamo alla battaglia sui voti. Come è noto i voti in decimi erano tornati in auge nel 2008 (Ministro Gelmini), con un decreto-legge che aveva ripristinato la situazione risalente a prima del 1977. Quell’anno (con la legge 517) erano stati aboliti i voti: era la stagione dei decreti delegati, dell’integrazione scolastica dei disabili, dell’introduzione della programmazione didattica. Dopo 40 anni ritorna il dibattito tra favorevoli e contrari al voto (parliamo sempre di scuola elementare e media).

Da un lato c’è un vasto movimento pedagogico che vede nel voto il retaggio di una scuola tradizionale, incapace di accogliere le diversità (e le potenzialità) dei ragazzi, e che finisce quindi con il proporre un insegnamento di tipo trasmissivo, tutto centrato sui contenuti da verificare, invece di promuovere l’autonomia dei ragazzi, il loro pensiero critico, le competenze da mettere alla prova in situazioni reali. Ci riferiamo alla petizione delle scuole sperimentali “Senza Zaino” (http://www.senzazaino.it/) o a diversi documenti sottoscritti dalle associazioni professionali come l’MCE e altri (http://www.mce-fimem.it/il-documento-delle-associazioni-sul-voto-numerico/). La scuola in generale (quella primaria soprattutto) sembra gradire questo approccio, che appare più coerente con il concetto di valutazione formativa, sostenuto dalle vigenti Indicazioni per il primo ciclo (2012).

Su un versante totalmente diverso si muovono i “rigoristi”, prevalentemente accademici di diversi settori disciplinari (o docenti delle scuole superiori), preoccupati che l’abbandono del voto possa aprire la strada ad un abbassamento della qualità e della preparazione degli allievi. Come esempio di questa tendenza citiamo il documento del “Gruppo di Firenze per il merito” (http://gruppodifirenze.blogspot.it/2016/06/valutazione-nella-primaria-ci-risiamo.html).

Ora, è evidente che il dibattito sulla valutazione non può certo ridursi ad un conflitto tra guelfi e ghibellini, pro e contro il voto. Dal punto di vista strettamente docimologico non fa differenza il codice utilizzato (il voto: 6, 7, 8…. oppure le lettere: A, B, C…. o anche i giudizi sintetici: ottimo, buono, ecc.) ma il tipo di scala (con 10 livelli, 5 livelli, ecc.), e soprattutto la descrizione del significato di tali codici, attraverso apposite rubriche, anche per garantire un minimo di uniformità ai diversi valori. La discussione, semmai, potrebbe vertere sul “segno” di questi cinque livelli. Nell’attuale sperimentazione della certificazione delle competenze (CM 3/2015) nel primo ciclo, il livello più basso (D) non esprime un dato negativo, ma il riconoscimento di una iniziale acquisizione – ancora fragile e incerta – di competenza. Un unico livello non adeguato (E) nella scuola di base sembrerebbe bastevole.

Ma c’è un altro nodo da sciogliere e riguarda le diverse funzioni svolte dalla valutazione. Spesso si confondono e sovrappongono tre funzioni distinte:

– la misurazione (per rilevare gli apprendimenti attraverso prove, osservazioni, compiti autentici, con una pluralità di strumenti). Se si usassero numeri – e non è detto che sia sempre utile farlo – si tratta di punteggi e non di voti;

– la valutazione (per attribuire un giudizio), in cui è determinante rendere espliciti i criteri adottati: ci si riferisce a valori assoluti? Alla comparazione rispetto alla distribuzione “normale” dei risultati? Ad un parametro riferito ad ogni singolo soggetto? Non è dunque una semplice operazione aritmetica, ma un’azione interpretativa che deve partire dai dati e considerare molti fattori. Qui il solo registro elettronico non ci soccorre;

– la comunicazione della valutazione (quindi le pagelle, le schede, i documenti formali) in cui occorre realizzare un’operazione trasparenza verso i genitori ed un’operazione verità con i ragazzi, garantendo comunque una funzione di sostegno pro-attivo all’apprendimento degli allievi ed al loro senso di fiducia.

Il voto, oggi, domina (quasi) incontrastato tutti e tre gli ambiti, creando molta confusione e finendo spesso con l’appiattire l’impegno degli allievi sulla prestazione richiesta, piuttosto che renderli consapevoli dei processi di apprendimento, delle criticità da affrontare, del piacere di riuscire bene.

Se dovesse essere adottata una scala a 5 valori per comunicare gli esiti della valutazione, sarà necessario precisare le rubriche sottese ai diversi livelli, suggerire gli strumenti di rilevazione e misurazione, fornire un orientamento per i criteri di giudizio. A nostro avviso, nella scuola dell’obbligo questi dovrebbero attestare la progressione (personale) di ogni allievo verso gli standard previsti (per tutti).

Dunque la valutazione formativa non è un cedimento al buonismo di maniera (questo, semmai, è dovuto al meccanismo dei 5 oggi trasformati in 6, per ragion di stato), bensì un modo per rendere più consapevoli tutti i soggetti della relazione educativa (gli allievi, i genitori, gli insegnanti) del reale livello degli apprendimenti in corso di acquisizione e di cosa sia necessario fare (da parte di tutti) per migliorare le situazioni insoddisfacenti.

Con un po’ di coraggio, anche la bocciatura (nella scuola dell’obbligo) dovrebbe essere abolita, paradossalmente proprio per “segnare” il maggior impegno dei tre soggetti sopra menzionati per raggiungere (e far raggiungere) le competenze di base necessarie nella società odierna. Bocciare, forse, è un atto di (astratta) giustizia, ma è anche – troppo spesso – la presa d’atto di una sconfitta.