Quante ore di formazione dovremo fare?

Quante ore di formazione dovremo fare?

…l’obbligo non è un formalità…

Spesso negli incontri tra i docenti, nei collegi, nei social network, rimbalzano notizie circa le novità in materia di formazione in servizio per gli insegnanti, che la legge 107/2015 definisce “obbligatoria, permanente, strutturale”. Mentre è abbastanza semplice dare un significato all’aggettivo “permanente” (perché ci richiama all’idea di una formazione non una tantum, non spot, non un-corso-e-via, ma ad un percorso che continua nel tempo) e all’aggettivo “strutturale” (perché allora la formazione non è abbellimento di superficie, ma si intreccia fortemente con la didattica, il lavoro in classe, lo sviluppo della professionalità docente), più complesso è affrontare il nodo della “obbligatorietà”. Si nota anche un certo “nervosismo” da parte delle organizzazioni sindacali (le prese di posizione sono numerose). Ma cosa significa, in concreto, “obbligo”? La formazione impegna direttamente la responsabilità etico-professionale di ogni docente, richiede un’autonomia culturale e scelte motivate, e non può essere considerata un normale impegno di servizio, da subire perché previsto dal “mansionario”. Certo, potrebbe anche diventare una formalità impiegatizia, ma non è questo l’obiettivo che ci si augura.

…ma cosa dice il Contratto di Lavoro?

C’è dunque il tema contrattuale, cioè la collocazione degli obblighi e del tempo per la formazione in servizio all’interno dei diritti/doveri degli insegnanti. Il contratto è fermo da troppi anni e il lavoro del docente sta cambiando, si arricchisce di funzioni, di impegni, di modalità assai più articolate della vecchia cara “ora di lezione”. Il tempo di lavoro degli insegnanti, fermo ad una regolamentazione da anni ‘50, è una questione da affrontare con molta sincerità e decisione. Così pure la formazione, che non può essere lasciata alla totale discrezionalità. Appunto, è necessario un adeguamento complessivo del Contratto di Lavoro. Quello vigente, che risale al quadriennio 2006-2009, è totalmente reticente in materia di formazione in servizio. Infatti, pur affermando che la formazione in servizio è costitutiva della professione docente (art. 29: la formazione fa parte integrante della “funzione docente”), si “dimentica” poi di collocarla negli spazi contrattuali del tempo di lavoro: infatti non è menzionata né nelle prime 40 ore di impegni aggiuntivi, né nelle seconde 40 ore di impegni collegiali, né è riportata nel paragrafo degli impegni di servizio non quantificati (ad es.: scrutini, colloqui con i genitori, correzione dei compiti, ecc.). Dunque, una clamorosa dimenticanza, che però non può diventare oggi un alibi per non prendere decisioni in materia di formazione un po’ più coraggiose di quelle lasciate alla formula sibillina del “diritto-dovere”.

…formarsi oggi per far un buon Contratto domani…

È evidente il rischio di un braccio di ferro tra organizzazioni sindacali (che rivendicano l’esigenza di un nuovo contratto) e Governo (che con la legge 107/2015 ha innovato per via legislativa la materia). C’è una via d’uscita? Noi pensiamo che sia necessario un gentlemen agreement (un accordo tra gentiluomini), in cui sperimentare le nuove modalità previste per la formazione (che non prevedono solo ore in presenza, ma anche ricerca in classe, confronto sulle didattiche, lavoro in rete, verifiche sul campo, tutoraggio), definire il profilo delle attività riconoscibili (nella forma del credito formativo del valore di 25 ore, di cui però solo 6/8 in presenza). È ragionevole ipotizzare che ogni anno la scuola possa stabilire gli indispensabili impegni “interni” da richiedere ai docenti, anche con approfondimenti specifici a livello di territorio. Ci saranno poi le attività liberamente decise dagli insegnanti (non dimentichiamo che la Card di 500 euro annui serve a questo). Si tratta di trovare un equilibrio (fifty-fifty?) che veda da un lato la scuola farsi avanti con le sue esigenze di miglioramento (che riguardano l’intera comunità professionale e a cui non ci si può sottrarre), dall’altro l’insegnante coltivare le sue libere determinazioni culturali (che riguardano la sua professionalità). Ad esempio si potrebbe ipotizzare un credito a testa: uno per la scuola, uno di tipo personale (con la necessaria flessibilità), iniziando a dare consistenza, visibilità, documentazione all’aggiornamento ben fatto e ben organizzato, attraverso la certificazione. Ciò già succede in altri settori professionali (es.: la sanità). Questo rodaggio sperimentale potrebbe poi essere la base per definire, a ragion veduta, le caratteristiche della prossima contrattazione tra le parti. Tutti disporrebbero di qualche idea in più e di “credits” accumulati sul campo, di cui chiedere il giusto riconoscimento.

…prime anticipazioni sul Piano Nazionale di formazione (comma 124 legge 107/2015)

Che ci sia un Piano nazionale è previsto dalla legge 107/2015. Ci sono lavori in corso che hanno già prodotto una consistente elaborazione, che è stata in parte anticipata, in alcuni incontri, alle associazioni professionali degli insegnanti e alle organizzazioni sindacali. La formazione si inserisce in una prospettiva di sviluppo professionale, che vede al centro la scuola e gli insegnanti, e assume un carattere operativo-riflessivo attraverso l’adozione di nuovi strumenti: l’osservazione in classe, il portfolio delle competenze, la documentazione didattica, il bilancio di competenze, ecc. Senza troppa burocrazia e con molta professionalità. Il MIUR starà leggero: individua alcuni obiettivi strategici (il digitale, le lingue, le competenze, l’inclusione, ecc.), assegna le risorse (parliamo dei 40 milioni annui previsti dalla legge 107, ma anche di ulteriori fondi: europei, ecc.), definisce criteri di qualità, ma affida la concreta realizzazione delle iniziative alle scuole, meglio se associate in rete, e a scuole-polo o snodi formativi nel territorio. Nasce dunque l’esigenza di una nuova capacità di progettazione della formazione: a livello nazionale (magari anche con qualche iniziativa diretta esemplare), a livello territoriale (chiamando le scuole a forme di autogoverno e dando sostanza alle reti).

…cosa può fare, concretamente, una scuola?

In questi anni gli insegnanti hanno continuato ad aggiornarsi. Alcune azioni hanno segnato un passaggio importante e anche qualche cambiamento in positivo. Ricordiamole: la formazione dei docenti neo-assunti, la pluralità di interventi sul digitale, le misure di accompagnamento sulle Indicazioni per il primo ciclo, progetti e didattiche per competenze, il lavoro sul Sistema Nazionale di Valutazione. Più faticose sono apparse in altri settori: il CLIL, le lingue straniere nella scuola primaria, le didattiche disciplinari, l’alternanza scuola-lavoro, l’integrazione e la disabilità. Oggi le risorse si preannunciano più consistenti e più preciso sembra l’impegno per rinnovare i metodi, i contenuti, la ricaduta sulla didattica. Alcuni mesi fa sono state diffuse alcune prime linee di lavoro che vanno in questa direzione (la nota MIUR n. 35 del 7 gennaio 2016). Le scuole stanno inserendo nel PTOF anche il Piano di Formazione: è un obbligo di legge ed è un’esigenza legata all’analisi dei RAV (Rapporti di Autovalutazione) e allo sviluppo dei Piani di Miglioramento. Ogni scuola dovrà poi rinnovare, adattare, regolare il proprio PTOF (entro il 15 ottobre di ogni anno) e quella sarà certamente una sede giusta per definire nuovi indirizzi per il piano di formazione che impegnano gli insegnanti. Nel frattempo sarà reso noto il Piano Nazionale (cioè il quadro di riferimento) entro cui collocare le decisioni di reti, scuole e insegnanti. È prevedibile che un consistente budget sia messo a disposizione di ogni ambito territoriale e delle scuole che ne fanno parte.

Il problema vero, dunque, non è solo quello delle ore obbligatorie da quantificare e dei corsi di aggiornamento da frequentare, ma l’opportunità di “ripensare” a fondo il senso, le caratteristiche e il valore della formazione per una piena professionalità dei singoli operatori e per consolidare il lavoro collaborativo nella scuola.