Perché non possiamo dire no alla formazione obbligatoria

È la prima condizione per la crescita professionale

Sui social le risposte al Piano Nazionale di formazione (PNF), presentato al MIUR lunedì scorso (3 ottobre) in presenza di testimoni internazionali, non appaiono sempre lusinghiere.

Però la scuola reale lo sa: non possiamo più prendere scuse, né sostenere strategie di evitamento. Il diritto a non formarsi non ha più giustificazioni sostenibili. Non è confutabile il principio che la formazione costituisce la prima condizione per la crescita professionale e per il miglioramento della qualità della nostra scuola. Ed ora ci sono anche i presupposti economici e normativi per la sua obbligatorietà.

Lo aveva già affermato il comma 124 della legge 107/2015: “Nell’ambito degli adempimenti della funzione docente, la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale”. Da un anno è operativa, seppure con alcuni meccanismi da oliare, la card per i docenti, regolata dal DPCM 23.9.2015. Dovevano essere 381 milioni di euro annuali, secondo il comma 123 della legge. Sono stati ridimensionati a 325, secondo il comunicato del 3 ottobre del MIUR. Restano comunque disponibili e riconfermati anche per il 2017 i 500 euro per ogni docente di ruolo. Inoltre sono state aumentate le risorse per le iniziative di formazione delle scuole (40 milioni di euro annui – comma 125, a partire dal 2016) e, dal 3 ottobre, c’è anche un imponente Piano Nazionale (PNF) che definisce e dettaglia finalità e strategie.

Dal diritto all’obbligo, perché…

Il diritto alla formazione, che sostituì l’obbligo quasi vent’anni fa (contratto nazionale del 1998-2001), si è tradotto nel tempo anche come “diritto a non esercitare il diritto”.

Rinunciare al diritto alla formazione significa ostacolare la crescita del capitale professionale e il miglioramento della vita di tutti: rallentare quindi la marcia verso una democrazia matura.

Battersi per il diritto a “non formarsi” può rappresentare un “beneficio” per la persona, ma può costituire un danno per la scuola e un pericolo per il futuro delle giovani generazioni. Se si persegue un “beneficio” che ricade solo su un soggetto ed è scisso da un dovere (giuridicamente definito) o dalla deontologia professionale, si rischia anche di incrementare la disparità di trattamento. Perché ci devono essere studenti con insegnanti che non curano la propria professionalità? Ci sono ricerche mirate che sottolineano come tale disparità nel nostro Paese sia un dato significativo. Va ricordata, per esempio, l’indagine TALIS del 2013 (condotta su 33 paesi tra cui 9 non membri OCSE). Rispetto alla media TALIS, gli insegnanti in Italia hanno riportato tassi più bassi di partecipazione ad attività formazione, tra cui, per esempio, a corsi e a laboratori (51% contro il 71% della media Talis); a conferenze o seminari (31% contro il 44%); a stage formativi presso altre istituzioni pubbliche e imprese (3% contro il 14%); a reti di insegnanti (22% contro il 37%).

Non si possono, a nostro avviso, mettere al primo posto “scelte personali” su questioni che incidono sulla collettività.

Siamo appassionati ma diffidenti

Un particolare dell’indagine TALIS che invece appare in controtendenza rispetto agli altri dati è la partecipazione ad attività di ricerca individuale o in gruppo. Qui il tasso italiano risulta superiore alla media TALIS: 46% contro il 31.

Tali percentuali mettono ancora una volta in evidenza sia la nostra ritrosia a stare dentro i sistemi organizzati, sia la nostra propensione all’individualismo e all’autodeterminazione. Come dire: “siamo capaci di fare di più, ma non chiedeteci di farlo per forza”.

Forse proprio qui risiede il nodo della questione. La scuola italiana sa rispondere in maniera egregia a molti problemi, basti pensare alle straordinarie esperienze di inclusione, alla capacità di reagire di fronte alle emergenze, alla voglia di partecipare ad imprese didattiche a volte assai complesse, se non impossibili. Quando invece si tratta di ragionare in termini di allineamento a standard europei ed internazionali, ci presentiamo con tutte le nostre debolezze, soprattutto sul piano culturale: non crediamo molto ai confronti e ai sistemi di valutazione esterna; non siamo propensi ad accreditare gli esiti delle ricerche, ma piuttosto ad enfatizzare tutto ciò che resta dentro l’orizzonte delle nostre aree di azione: quello che possiamo controllare e dimostrare perché lo abbiamo vissuto. Anche da qui nasce una certa resistenza nei confronti di una disposizione di legge che inserisce la formazione in servizio come “adempimento connesso alla funzione docente”.

Stato giuridico o contratto?

Secondo alcuni, il Piano nazionale presenta molti punti di criticità perché non è collegato al rinnovo del contratto nazionale.

È abbastanza diffusa l’opinione che la condizione docente dipenda sia da norme giuridiche sia da norme contrattuali. In passato si conveniva che parlare di “stato giuridico” significava far riferimento alla funzione docente, ai diritti e ai doveri, alla formazione iniziale e alla formazione continua, al reclutamento, alla valutazione e alle carriere. Mentre invece quando si parlava di contratto ci si riferiva alle relazioni sindacali, alle retribuzioni, all’orario di servizio, alle modalità di fruizione della formazione in servizio, ad assenze, permessi e aspettative, al codice di disciplina.

Sappiamo, però, che in passato la linea di demarcazione non è stata mai molto definita, e che le posizioni spesso si sono un po’ confuse e sovrapposte. C’è stato il periodo in cui gli spazi contrattuali e negoziali si allargavano anche ad altre materie; c’è invece da qualche anno un allentamento dei rapporti sindacali, con un conseguente ampliamento dello spazio giuridico.

Oggi si ribadisce con forza che alla scuola si sta chiedendo troppo senza alcun compenso economico, o comunque senza alcun tipo di riconoscimento; si rivendica la condizione pattizia del Piano nazionale e, come conseguenza, se ne dichiara l’inaccettabilità.

Il disagio della scuola c’è…

Si tratta quindi di due questioni. La prima: alla scuola si sta chiedendo veramente troppo senza dare nulla in cambio? La seconda: il Piano Nazionale è materia di contrattazione?

Non possiamo oggi non percepire lo stato di disagio in cui versano tutti coloro che operano nella scuola: i dirigenti stanno dimenticando la propria funzione di leadership educativa in quanto costretti ad affrontare e risolvere quotidianamente le emergenze. I docenti rappresentano l’ultimo anello di un sistema che raccoglie il peso, senza possibilità di scelta, degli esiti, non sempre positivi, di nuovi processi e algoritmi (reclutamento, mobilità, chiamata…). Il personale amministrativo sente di essere una pedina abbandonata e lontana dalle priorità delle agende politiche.

È chiaro che, su questo settore, bisogna riconquistare credibilità e fiducia mandando segnali “ricevibili”.

Le “cose” che mancano

La seconda questione, però, non può essere collegata allo stato di disagio. Chi ha responsabilità di governo ha l’obbligo di pensare alle future generazioni. La formazione non può essere un optional e tale principio non è negoziabile. La funzione docente ha bisogno di cura continua della professionalità, ed è un presupposto non solo deontologico, ma anche giuridico, in quanto la formazione in servizio rientra negli impegni professionali di ogni insegnante (così prescrive anche il Contratto nazionale vigente: 2006-2009).

Tuttavia, per essere in sintonia con standard educativi e professionali, comparabili almeno a livello europeo, sarebbe stato necessario indicare (oltre ad obiettivi, strategie e strumenti) anche alcuni parametri quantitativi che non sono stati definiti né dalla legge 107/2015, né dal PNF, né ovviamente dalle precedenti note ministeriali (7 gennaio 2016, prot. n. 35; 15 settembre 2016 prot. 2915). E su questo punto si intrecciano i problemi. È vero che la “formazione” in tutti i suoi aspetti attiene allo stato giuridico, ma le sue modalità di fruizione e gli orari attengono al contratto. Non essendo stato ancora rinnovato, si è ritenuto strategico richiamare semplicemente le scuole all’obbligatorietà della formazione in servizio, suggerire unità formative sul modello universitario, ricordare alcuni principi fondamentali come qualità, chiarezza, coerenza, collaborazione…

I valori in gioco

Bene! Ora però bisogna pensare a “proteggere” il Piano sapendo che le scuole hanno bisogno di essere supportate (e non solo oberate di adempimenti); che i dirigenti chiedono di poter ricominciare ad esercitare una leadership educativa (e ci aspettiamo che la valorizzazione delle risorse umane sia uno degli indicatori di punta della valutazione); che i docenti vogliono essere riconosciuti anche per la loro capacità di trasmettere passione, di affascinare gli studenti e di essere efficaci nella loro azione in classe; che il personale amministrativo, da troppo tempo abbandonato, rivendica un’attenzione vera, magari anche attraverso serie modalità di accesso.

Il Piano Nazionale di Formazione può diventare il banco di prova per capire cosa il Paese si aspetta dai suoi insegnanti e come i docenti sono disponibili a mettersi in gioco su uno degli aspetti qualificanti della loro professionalità.