Formazione: andar per reti

La formazione in servizio tra scuole e reti

In materia di formazione in servizio la cornice culturale ora c’è (ed è delineata nelle corpose 88 pagine del Piano Nazionale di Formazione)[1], con l’individuazione delle priorità nazionali (i 9 contenitori tematici sono in sé accettabili), e un convincente impianto metodologico (tratteggiato nella scansione ricerca-didattica-operatività, all’insegna di una dimensione laboratoriale).

Ma allora, cosa manca per far decollare il Piano? Le risorse finanziarie in primo luogo: tuttavia sono in arrivo e saranno depositate presso una scuola capofila per ogni ambito, scelta dai colleghi dirigenti. Invece, gli aspetti giuridici dell’obbligatorietà della formazione sono ancora incerti, in attesa del nuovo contratto di lavoro. Il MIUR, saggiamente, ha scelto un atteggiamento “promozionale” non specificando l’entità di tale obbligo (quante ore?), ma facendo leva sulla qualità (cosa “mettere” dentro quelle ore?). E’ il Collegio dei docenti, con indirizzi “quadro” forniti dal Dirigente, che dovrà delimitare gli impegni degli insegnanti (cosa mi può chiedere la mia scuola?).

L’arabe fenice: l’unità formativa

Per facilitare queste operazioni, il Piano e la circolare che l’ha preceduta (Nota MIUR 2915 del 15 settembre 2016) suggerisce di adottare come possibile punto di riferimento l’unità formativa. Ci si riferisce ad un percorso formativo autoconsistente, cioè capace di delineare una competenza professionale anche minima (una procedura, un contenuto, una pratica didattica) concretamente raggiungibile attraverso un insieme di attività formative. Si tratterà di incontri in presenza con esperti/formatori, ma soprattutto di attività di ricerca, studio e confronto tra colleghi, ma anche di “messa in prova” in classe, di rielaborazione e documentazione di quanto appreso.[2]

Ma quanto “pesa” questa unità? E’ abbastanza ragionevole associarla al credito formativo universitario (CFU) il cui valore, nel sistema universitario italiano, è quantificato in 25 ore all inclusive. Dunque, l’unità formativa è un buon criterio per progettare una attività formativa dotata di senso compiuto, che offra ai partecipanti un’esperienza che lascia un segno nella professionalità, facendo crescere l’autoefficacia didattica e il desiderio di mettersi in gioco. Non sempre sarà così, ma la sfida è questa. Ed è bene che nel progettare la formazione a livello di scuola (e di rete) o da parte di enti accreditati ci si attenga a questa semplice regola.

Le attività riconosciute

Questione diversa è il riconoscimento delle attività svolte, cioè il dare loro un valore, il considerarle un credito documentato nel proprio curriculum professionale (o portfolio). Ho affrontato in altra sede l’argomento [3], portando l’esempio dei crediti formativi nella sanità (ECM). In quell’ambito ogni attività viene preventivamente “pesata” e “contrassegnata” dai crediti corrispondenti. Spetta poi al discente comporre un proprio carnet di esperienze formative cui partecipare. Ma le regole sono assai minuziose e precise. Potrebbe essere una soluzione da negoziare anche per il comparto della scuola. Nell’attesa che si definisca un sistema analogo, il suggerimento è quello di proporre una prima unità formativa obbligatoria (o vivamente consigliata) da parte della scuola, indirizzando i docenti anche verso percorsi esterni differenziati, lasciando poi alla libera fruizione degli insegnanti una seconda unità formativa personalizzata, inseribile però nel proprio curriculum, anche attraverso l’uso della CARD. Sembra un equilibrio accettabile. Fifty-fifty.

Un problema di governance

Il problema più urgente riguarda però la gestione organizzativa della formazione in servizio. Se le risorse virtuali per le singole scuole sono depositate presso la scuola capo-fila di ambito, occorre dar vita ad una progettazione territoriale della formazione, che sia però rispettosa delle esigenze delle scuole, ma consenta di valorizzare il fattore “economia di scala” dovuto alla rete. A scanso di equivoci, operare in rete per la formazione non significa promuove adunate oceaniche di docenti per farli incontrare una tantum con prestigiosi esperti. Si tradirebbe lo spirito dell’intero Piano, che è quello di promuovere lo sviluppo professionale, per ritornare invece ad un aggiornamento di facciata.

Come procedere allora? Non sarebbe stato più saggio assegnare un budget annuale sia pure minimo ad ogni scuola e confidare nelle virtù dell’autonomia scolastica? Dissentiamo da questa prospettiva. L’assegnazione di un fondo alle singole scuola non avrebbe garantito un effettivo utilizzo delle risorse. Dai dati sintetici dei RAV, recentemente pubblicati dall’Invalsi (cfr. http://www.invalsi.it/snv/docs/141016/Appendice_I.pdf), risulta che con i fondi precedentemente assegnati la quantità (e qualità) delle attività formative svolte autonomamente dalle scuole è assai limitata (ad esempio, nel primo ciclo: 36 euro di investimento pro-capite, 0,50 ore di formazione erogate a docente, per il coinvolgimento di poco meno del 35% del personale). E’ un panorama a dir poco desolante, confermato anche da riscontri internazionali (cfr. indagine OCSE-TALIS).

Cosa può fare la scuola

Ora i fondi diventano più consistenti, ma l’offerta dovrà diversificarsi e qualificarsi. Ogni scuola è tenuta ad elaborare un proprio piano di azioni formative di istituto, inserendolo nel POF triennale. Occorre compiere una duplice analisi delle esigenze:

  1. quelle relative alla scuola, come impegni necessari per corrispondere al Piano di Miglioramento, allo sviluppo del curricolo (anche nei suoi aspetti disciplinari), alle innovazioni metodologiche e didattiche considerate necessarie;
  2. quelle legate ai singoli docenti, alle loro propensioni individuali, al bilancio di competenze, al desiderio di approfondire e intensificare certe competenze, anche al di là del “minimo sindacale”.

La risposta a queste esigenze può essere fornita dalla scuola, sia attivando direttamente corsi di formazione di taglio trasversale (ma è meglio non abusare), ma anche orientando i docenti verso attività formative specifiche e mirate organizzate nel territorio (dalla rete).  Ci sono poi le scelte personali dei docenti e ci saranno anche piani strutturati organizzati direttamente dal MIUR (ad esempio, per le lingue e per il digitale). Per non parlare poi delle  offerte del variegato mondo degli enti accreditati (Direttiva 170/2016). Il fatto è che il quadro è in evoluzione e non tutte le informazioni sono al momento disponibili.

Cosa si fa in rete

Il fabbisogno di ogni scuola e dei docenti dovrà essere portato al tavolo della rete di ambito, che magari si sarà dotata di una commissione di lavoro e che potrebbe proporre strumenti e rilevazioni comuni. Con il supporto della scuola capofila della formazione e di operatori messi a disposizione dagli uffici periferici dell’Amministrazione Scolastica, va dunque delineato un quadro di opportunità che possa comprendere:

  1. il finanziamento a progetti di piccole reti di scopo, accomunate da medesimi temi o continuità territoriale (con una metodologia simile alle misure di accompagnamento alle Indicazioni del primo ciclo);
  2. il finanziamento a singole scuole, per iniziative rispondenti a passaggi cruciali dell’istituto;
  3. l’attivazione di azioni destinate a particolari figure (tutor per l’alternanza, animatori di gruppi di ricerca didattica, referenti di aree tematiche, attori del miglioramento), fidando nell’effetto moltiplicatore a livello di scuola;
  4. la costituzione di laboratori territoriali, seminari permanenti, gruppi di approfondimento focalizzati su aree tematiche spesso trascurate a livello di scuola.

L’obiettivo è di definire una mappa di opportunità per i docenti, per meglio personalizzare la propria formazione.

La gestione delle iniziative può essere assunta direttamente da reti di scopo (con i loro snodi operativi e centri di costo), ma anche affidata ad organismi di formazione (enti accreditati, università, enti locali). A livello territoriale dovrebbero essere fornite le coordinate metodologiche, banche-dati di formatori, strumenti di verifica e monitoraggio, perché l’azione di rete è volta a garantire elevati standard di qualità.

Si dice che….

Si dirà che la governance della formazione diventa complessa, ma è lo stesso Piano a suggerire una prospettiva multilivello, cui partecipano: l’amministrazione scolastica, le scuole e le loro reti, il settore accreditato, i singoli operatori scolastici.

Si dirà che occorrono risorse umane dedicate per pensare a tutto questo, dunque si chiede la collaborazione di USR e USP che recentemente hanno visto rafforzato alcune strutture tecniche (una quota di docenti comandati, per il potenziamento) con la motivazione – prevista dalla Legge 107/2015 – di favorire il lavoro di rete.

Si dirà che la rete, di per sé, non garantisce la qualità della formazione, ma spinge comunque la progettazione formativa verso l’alto dando spazio alle energie migliori e più motivate, al servizio degli insegnanti.

Si dirà che il nuovo modello è tutto da costruire, in un quadro incerto, ma questo è lo sfondo per capire se l’autonomia scolastica sarà capace di imboccare la strada della cooperazione, dell’autogoverno, del legame col territorio, della valorizzazione delle risorse professionali.

Domande e risposte per una evoluzione che interpella comunque un diverso modo di essere delle scuole e dell’Amministrazione.

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[1] Il testo integrale del Piano Nazionale, presentato dal MIUR il 3 ottobre 2016, è riportato  nel fascicolo monografico di “Voci della Scuola”, Formazione in servizio per tuttiNotizie della Scuola, n. 5-6, novembre 2016, con saggi di M.Spinosi, C.Brescianini, M.T.Stancarone, P.Serafin, E.D’Orazio, N.Maloni, G.Cerini.

[2] Una possibile esemplificazione della consistenza di una unità formativa è contenuta nella nota MIUR 37900 del 19-11-2015, per la formazione dei coordinatori dell’inclusione, che la identifica in 25 ore variamente articolate.

[3] G.Cerini, Verso il Piano nazionale di Formazione, in Notizie della Scuola, n. 2-3, 16 settembre-15 ottobre 2016.