Cosa fa la differenza… tra le classi?

Il concetto di variabilità

Complice il botta e risposta fra il maestro Franco Lorenzoni e la Ministra Fedeli, ospitato da “La Repubblica” nel giorno della presentazione del Rapporto annuale sulle prove nazionali Invalsi, l’attenzione mediatica e degli addetti ai lavori si è immediatamente focalizzata sulla lettura dei dati relativi alla variabilità (o varianza) degli esiti degli studenti (Cap. 5 del Rapporto).

La variabilità viene indagata e proposta sulla base di tre componenti: “la variabilità tra scuole, quella tra classi all’interno delle scuole e quella tra gli studenti dentro le classi. La variabilità tra scuole in un determinato territorio fornisce una misura di quanto esse differiscono in termini di risultati medi prodotti. Tanto più tale variabilità è elevata, tanto maggiore è il divario dei risultati medi di un’istituzione scolastica rispetto a un’altra. Fatte le debite modifiche, nello stesso modo può essere interpretata la variabilità tra classi, mentre quella interna alle classi è da considerarsi rappresentativa delle differenze interindividuali che si riscontrano comunemente tra gli alunni e che, per certi aspetti, non sono eliminabili.” (p. 78 del Rapporto).

La varianza tra territori, scuole e classi

I dati ci dicono di una situazione con luci ed ombre, per la quale, a fronte di un calo generalizzato dell’indice di variabilità su tutto il territorio nazionale ad esempio in II e V primaria, permane una differenza – quasi a costituire una varianza sul dato nazionale – profonda e strutturata fra centro nord e sud, sebbene, come si è detto, in un quadro di generale miglioramento. Ancora, nelle scuole primarie dell’area sud e isole, nel passaggio fra II e V primaria rimane costante il dato della variabilità fra classi e cresce, anche sensibilmente, la varianza fra scuole in MAT (grafici 5.3 e 5.4).

Si tratta quindi di un’area che ha implicazioni fortemente politiche, poiché ci restituisce la misura dello sforzo e dell’impegno di una comunità scolastica per assicurare l’equità degli esiti dei propri studenti attraverso un raggiungimento di livelli essenziali di competenza il più possibile omogenei. L’azione della scuola dovrebbe incidere, quindi, nella direzione della riduzione dell’incidenza numerica di studenti sotto una determinata soglia di apprendimento. Da un lato, quindi, vi sono scuole in grande difficoltà nel garantire l’uguaglianza formativa ai propri studenti; dall’altro lato accade che, nelle medesime aree, la forbice dei risultati fra scuole sia enormemente aperta (MAT in V primaria si arriva ad un differenziale del 33,2).

L’equità degli esiti formativi

Occorre ricordare che la varianza fra scuole, ma soprattutto dentro le scuole (classi che vanno decisamente meglio di altre, con un effetto “montagne russe” dei risultati), ha costituito un campo di grande attenzione nei processi sia di rilevazione degli apprendimenti che di valutazione delle scuole. Nel protocollo di “Valutazione Miglioramento” (2010-2014) l’area dell’equità degli esiti era oggetto di approfondimento nell’intervista al Ds e al suo staff, e sovente il confronto con il team di valutazione esterna portava riscontri interessanti, di cui diremo.

Nel modello attuale del RAV l’area dell’equità degli esiti rimane presidiata, sebbene con minore efficacia (il confronto sui dati Invalsi rimane ai margini dell’intervento del Nucleo di Valutazione Esterna); tuttavia le domande guida per la compilazione del RAV che accompagnano le scuole nella redazione dell’autovalutazione sui risultati delle prove standardizzate nazionali (Guida alla compilazione del RAV, ed. marzo 2017) costituiscono un ottimo strumento di autodiagnosi e di riflessione per incrociare l’incidenza della variabilità interna (quella più perniciosa) con il c.d. “effetto scuola”, e la densità della presenza degli studenti nei livelli di apprendimento  1 e 2 del quadro delle prove standardizzate nazionali.

I dati Invalsi nel RAV

Al di là, quindi, dei clamori mediatici, una più capillare diffusione e fiducia nella valutazione degli apprendimenti effettuata da Invalsi in questi anni, ha permesso una riflessione più consapevole sul problema della differenza di offerta formativa, specie all’interno delle scuole.

Il diagramma che colloca le performance singole rispetto ad indicatori medi e benchmark di riferimento in ITA e MAT è uno dei più frequentati e utilizzati in quelle scuole dove la restituzione dei dati INVALSI si coniuga con la redazione consapevole e riflessiva (in termini di miglioramento) del Rapporto di Autovalutazione (nel RAV è una delle tabelle più discusse nei Collegi, par 2.2.a e 2.2.c).

Dalla lettura dei RAV (specie nell’area delle motivazioni dei livelli auto-attribuitisi) e dalle esperienze di valutazione esterna delle scuole, ci si può fare un’idea più precisa delle cause dell’enorme varianza interna dei risultati fra classi di una stessa scuola (può essere interessante leggere Le Rubriche del RAV. Prime analisi, Invalsi dicembre 2016).

Dove nasce la variabilità tra le classi?

La formazione delle classi, malgrado tutti gli sforzi di assicurarne l’equilibrio, si scontra con alcuni ostacoli:   l’ubicazione dei plessi sovente fotografa un ESCS differente anche su distanze di poche centinaia di metri in linea d’aria e all’interno dello stesso comune; differenze che si accentuano, insieme ad  un isolamento logistico, in molte scuole dell’interno con plessi (anche oltre 10) collocati in aree isolate, e sparpagliati in aree pedemontane. Mentre altri fattori strutturali incidono quasi “in automatico” nella formazione delle classi, operando spesso una selezione a priori (tempo pieno, lingua straniera, strumento musicale).

C’è poi l’effetto reputazionale che è il più difficile da contrastare, specie per quei dirigenti che si muovono sulla linea di una leadership “politica” di attenzione/acquiescenza alle richieste dell’utenza; per cui l’effetto attrattivo della reputazione di un docente o di un consiglio di classe finisce per richiamare una fascia di studenti più attrezzata di altri (al minimo con genitori, più attenti ed informati), richieste verso le quali il dirigente oppone poca o nulla resistenza.

Ritorna alla mente di chi scrive il dialogo con una dirigente che, di fronte ad una situazione patologica di varianza interna, giustificò il dato, di suo inoppugnabile, confessando che in quella classe, frequentata dal figlio dell’onorevole, si erano concentrati (come per magia, verrebbe da dire) i pargoli dei notabili della piccola cittadina. Ovvero, situazione vissuta di tenore uguale e contrario, una classe nella quale erano stati “inseriti” tutti e tre i bambini che vivevano in casa-famiglia, finendo con l’amplificare una condizione di disagio socio-affettivo di per sé gravissima.

Ma allora come si contrastano le classi “ghetto”?

Bastano questi esempi, raccolti in sede di valutazione esterna delle scuole, a legare indissolubilmente la varianza interna alla costituzione di classi “ghetto”? Certamente una delle cause è questa, ma anche l’eccessivo peso della tanto vituperata reputazione dei docenti (ricordiamo il progetto “Valorizza”?), brandita dalle famiglie con sempre maggiore insistenza/invadenza, porta a gravi squilibri nella formazione dei consigli di classe, quando non si trova un dirigente capace di resistere alle pressioni delle famiglie.

Per concludere, mi pare che sia più sul versante della costruzione di un buon consiglio di classe (un mix di docenti esperti, di neo-colleghi volenterosi, di scettici ed entusiasti), e non (solo) su quello della formazione delle classi, che occorra agire per battere la piaga della varianza dei risultati fra classi. Senza dimenticare le opportunità offerte dall’organico della scuola dell’autonomia post legge 107, che con i docenti del c.d. “potenziamento” permette di approntare una gamma di interventi mirati al superamento dei disequilibri interni, a patto che se ne individuino, specie a livello di Collegio dei docenti, con onestà, le cause e le possibili soluzioni.