L’inglese a scuola, in Italia e in Europa

Tante lingue, troppe lingue, una lingua per tutti?

Linguistic diversity is part of Europe’s DNA.” Esordisce così il rapporto Eurydice sull’insegnamento delle lingue straniere a scuola in Europa (Key data on Teaching languages at school in Europe – 2017 edition). La varietà linguistica è indubbiamente un patrimonio da preservare, e migliaia sono gli idiomi parlati nel mondo, decine dei quali purtroppo a rischio di estinzione. Nel 2014 Tullio de Mauro affermava che “In Europa son già 103” (il numero è un’evocazione letterario-mitologica), chiedendosi in maniera un po’ provocatoria se fossero troppe per una democrazia come quella europea. Entrare nel merito di questo dibattito diffuso, vivace e molto interessante, porterebbe troppo lontano. Certo è che nel mondo contemporaneo e globale una lingua veicolare universale è necessaria, e non v’è dubbio che questa lingua sia diventata, per una serie di ragioni anche extralinguistiche, l’inglese, che ora a livello internazionale è la lingua dei commerci, della tecnologia, delle scienze, della rete e via dicendo. Un’interessante lettura storica, sociologica, filologica, linguistica la offre il confronto a due voci – Beccaria e Graziosi – che si trova nel recente libro Lingua Madre. Italiano e inglese nel mondo globale[1].

Il citato rapporto Eurydice conferma che l’inglese è la lingua straniera studiata dalla maggior parte degli alunni nell’istruzione primaria e secondaria di quasi tutti i paesi europei (nel 2014 l’inglese era studiato dal 97,3% degli alunni durante l’intero periodo dell’istruzione secondaria inferiore, e rispetto a dieci anni fa un numero sempre maggiore di studenti lo apprende già a partire dall’istruzione primaria).

Come si stanno muovendo i sistemi scolastici europei?

Le 180 pagine del rapporto Eurydice dicono tanto altro ancora: sono ricche di contenuti e di cifre sulle politiche educative e sull’insegnamento delle lingue straniere; cifre e contenuti sono frutto della combinazione di dati statistici e informazioni qualitative sui sistemi educativi europei, e sono presi da diverse fonti, quali Eurydice, Eurostat, OCSE/PISA e TALIS; tali dati sono distribuiti su sessanta indicatori e suddivisi in cinque capitoli: contesto, organizzazione, partecipazione, insegnanti e processi educativi.

Ci rivelano ad esempio che:

  • Rispetto a dieci anni fa, gli studenti nell’istruzione primaria imparano una lingua straniera in più tenera età, anche se il monte ore ad essa dedicato rimane modesto.
  • Sempre rispetto a dieci anni fa, un numero maggiore di studenti impara due lingue straniere nell’istruzione secondaria inferiore: erano il 46,7% nel 2005 e il 59,7% nel 2014; in alcuni paesi lo studio della seconda lingua straniera non è un obbligo, ma un diritto.
  • Francese, tedesco e spagnolo sono rispettivamente la seconda (33,7%), la terza (23,1%) e la quarta (19,1%) lingua straniera studiata nella scuola secondaria inferiore. Altre lingue, monitorate in quanto studiate da almeno il 10% degli alunni di un paese, lo sono principalmente per ragioni storiche o di prossimità geografica, come l’italiano in Austria, Slovenia, Croazia e Malta. Mentre il francese è in lieve diminuzione rispetto a dieci anni fa, il tedesco è rimasto stabile nell’istruzione primaria e secondaria inferiore, ed è in leggero calo nelle scuole superiori; lo spagnolo sta conoscendo un incremento percentuale nelle scuole superiori, mentre è stabile nelle secondarie inferiori.
  • Il livello di conoscenza delle lingue atteso da parte degli studenti si attesta generalmente sull’A2 al termine della scuola secondaria inferiore, e sul B2 alla fine della secondaria superiore. Per quanto riguarda la seconda lingua straniera, l’obiettivo è meno ambizioso: A1-A2 nel primo ciclo e B1 nel secondo. Fa eccezione l’Italia, che al termine del secondo ciclo si aspetta il B2 anche per la seconda lingua.
  • Al termine delle superiori, il livello di conoscenza si certifica generalmente con un esame, ma non sempre si utilizza la scala QCER.

La conoscenza delle lingue

Il Rapporto Eurydice segnala anche che:

  • Molti paesi europei prevedono supporti linguistici per i migranti neo-arrivati (dalle classi ponte con insegnamenti intensivi – generalmente limitati a uno o due anni – all’adattamento individualizzato dei curricoli, all’integrazione diretta nelle classi corrispondenti all’età anagrafica; l’Italia fa parte di questo gruppo di stati). Sono pochi i paesi che prevedono una preparazione specifica per i docenti che insegnano ai migranti non ancora parlanti la lingua della scuola.
  • In molti paesi europei la maggioranza dei 15enni parla anche a casa la lingua della scuola (91%); quelli dove a casa si parla maggiormente una diversa lingua sono Spagna, Turchia e Russia, e nei 2/3 dei casi si tratta di immigrati.
  • Studiare una lingua straniera è obbligatorio in quasi tutti i paesi europei. Alcuni sistemi educativi stabiliscono quale lingua straniera debba essere studiata da tutti, mentre altri lasciano la scelta a scuole, studenti e famiglie. Generalmente l’inglese è la lingua straniera che gli alunni studiano per prima.
  • Il 98,6% degli studenti di secondaria inferiore impara una lingua straniera, e ben il 59,7% due o più lingue straniere.
  • Nella maggioranza dei paesi la prima lingua straniera si studia per 10, 11 o 12 anni; in pochi paesi fra i 7 e i 9 anni; in Italia 13. In dieci paesi gli studenti studiano obbligatoriamente 3 o 4 lingue straniere.
  • In molti paesi le lingue minoritarie e regionali (sono 57 e si stima vengano parlate da 40-50 milioni di persone) sono parte dei curricoli scolastici.

L’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria italiana

Rispetto all’insegnamento della lingua straniera nella scuola primaria, il rapporto Eurydice informa che spesso è un docente generalista ad averne la responsabilità, mentre in alcuni altri paesi tale insegnamento è affidato a insegnanti specialisti (qualificati per insegnare una o due discipline) o semi-specialisti (qualificati per insegnare un gruppo di almeno tre diverse discipline). L’insegnamento obbligatorio della prima lingua straniera inizia fra i 6 e gli 8 anni nella maggioranza dei paesi europei, al punto che è aumentato in maniera significativa il numero di anni totali di insegnamento.

È con la legge 53/2003 che l’Italia introduce lo studio della lingua inglese già dal primo anno della primaria. A livello normativo, dunque, le premesse per un insegnamento di qualità ci sono. Sono di per sé sufficienti? Manca forse qualcosa? È indubbio che un ruolo significativo lo giochi la preparazione dei docenti, ai quali è richiesto il livello QCER B1, che in questi ultimi tempi viene attestato dal superamento del concorso con annessa prova di lingua. Ma per chi insegna da tanti anni? Secondo quanto prescritto dal DPR 81/2009, i docenti specialisti nel giro di pochi anni avrebbero dovuto lasciare il posto agli specializzati (generalisti). Specialisti tuttavia ce ne sono ancora.

Il Miur, in collaborazione con Indire, ha organizzato negli ultimi anni due serie, i cosiddetti contingenti, di corsi triennali di preparazione, linguistico-comunicativi e didattico-metodologici, che prevedono un’attestazione finale da parte dei Centri linguistici di Ateneo, ma il cui percorso non è stato sempre lineare, avendo fra l’altro subito nel tempo diverse interruzioni. Sono in fase di completamento i corsi del secondo contingente, e i docenti di alcuni territori in queste settimane sono alle prese con il CEPT (Certificate of English for Primary Teachers).

Prospettive per la formazione in servizio dei docenti

Che cosa ci si aspetta in futuro? Il DM 797/2016, Piano triennale di formazione dei docenti, ha inserito nella priorità 4.4 diversi ambiziosi obiettivi di coinvolgimento e preparazione del personale docente, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado, ma secondo il cronoprogramma sarebbero dovuti partire già nel 2016. Confidiamo nell’inizio del prossimo anno scolastico, chiedendoci sotto quali forme essi verranno (verrebbero?) realizzati, anche per dare attuazione al DPR 81/2009.

Si potrebbe forse organizzare corsi di inglese anche all’interno della formazione triennale affidata gli ambiti territoriali; tuttavia in primo luogo non basterebbero e in secondo luogo lo stesso Miur suggerisce di “evitare sovrapposizioni di iniziative, che richiedono precisi standard operativi e che si devono innestare su protocolli nazionali (es.: la lingua inglese per insegnanti di scuola primaria e il CLIL per docenti della secondaria superiore)”[2].

La metodologia CLIL nelle scuole secondarie di secondo grado italiane

Lo studio Eurydice di cui sopra parla diffusamente anche della metodologia CLIL, ricordandone la definizione, la diffusione, i requisiti richiesti ai docenti; in linea di massima, per poter insegnare una disciplina non linguistica attraverso il CLIL (in Italia nelle quinte classi di licei e istituti tecnici, più terze e quarte dei licei linguistici), gli insegnanti devono avere un’ottima conoscenza sia della disciplina di insegnamento sia della lingua straniera in cui essa è veicolata. Quindici sistemi educativi europei richiedono a tale scopo titoli ed esperienze aggiuntive. Il livello minimo richiesto è espresso quasi sempre con il QCER e va dal B2 al C1. In una tabella analitica e descrittiva, la riga corrispondente ai requisiti necessari in Italia contempla il C1 e un anno di corso universitario (metodologico-didattico) corrispondente a 60 crediti. In effetti questi sono i requisiti “aurei” previsti dal nostro ordinamento; è però vero che siamo ancora in una fase transitoria, della quale abbiamo ampiamente parlato in un recente contributo sul numero 39 di Scuola7. Nulla sembra cambiato da allora: non si hanno notizie dell’attivazione di percorsi dedicati, e niente è trapelato neppure degli esiti del monitoraggio CLIL a SIDI, che gli istituti tecnici e i licei hanno compilato nel mese di aprile.

Risposte in tempi brevi?

Che cosa possiamo dunque aspettarci dai prossimi mesi? Il nostro recente contributo su Scuola7 presentava più domande che risposte. Ai quesiti di ieri e di oggi ci auguriamo che il Miur voglia e possa dare a breve riscontri positivi, già a partire da settembre, per rispondere sì ai bisogni formativi dei docenti e all’attuazione della normativa, ma in primo luogo per offrire ai ragazzi le opportunità di studio e gli standard di qualità già previsti dal vigente ordinamento.

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[1] Gian Luigi Beccaria, Andrea Graziosi, Lingua madre. Italiano e inglese nel mondo globale, Il Mulino, 2015, Bologna.

[2] “Documento di lavoro per lo sviluppo del Piano di formazione docenti 2016-2019. Questioni operative”, trasmesso con nota della DGPER n. 9684 del 6.03.2017, pag. 3.