Il femminile e il maschile nel linguaggio

L’uso maschilista delle regole grammaticali

All’interno di questa rubrica ho già commentato brevemente il documento del Miur che, con Linee Guida Nazionali, propone l’approfondimento del comma 16 della Legge 107/2015, in parte criticando alcune espressioni improprie, ma in fondo approvando l’intera impalcatura. Ora affronto un’altra parte di questo documento, e precisamente quella che analizza l’uso maschilista, quindi improprio, di alcune regole grammaticali e delle consuetudini della lingua italiana.

Il problema della denuncia del sessismo nella nostra lingua ha radici lontane. Lo ricorda, attraverso una voce della Treccani, Cecilia Robustelli, che ha fatto parte del gruppo di lavoro che ha elaborato le Linee Guida Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione. Ed io mi appresto a commentare proprio l’aspetto linguistico, che non aiuta certamente a far evolvere positivamente la coniugazione dell’autorealizzazione delle donne, del loro riconoscimento come soggetti e della prevenzione della violenza. È cominciata negli anni 60/70 negli Stati Uniti l’analisi della manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio, ed è stata ripresa in Italia nel 1987 da un volumetto della linguista Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Questa pubblicazione allargò il dibattito e arrivò anche al grande pubblico, ma lasciò la consuetudine dell’uso della lingua praticamente invariato.

Nel linguaggio istituzionale della scuola il primo cambiamento si fece strada con la stesura del testo dei “Nuovi Orientamenti per la scuola dell’infanzia” del 1991, in cui apparve l’espressione “bambini e bambine”, superando così l’uso del maschile come dominante ed onnicomprensivo, dopo che noi del “Comitato Pari Opportunità donna-uomo”, insediato presso il M.P.I. dal 1989, inviammo una lettera alla commissione che stava lavorando a tale documento, raccomandando l’attenzione alla differenza dell’identità di genere.

La dirigente scolastica

Quando ero in servizio, ricordo che apponevo la mia firma sempre dopo aver avuto l’accortezza di modificare la dicitura “Il dirigente scolastico” in “La dirigente scolastica”, e non mi sognavo assolutamente di recedere da questa decisione anche se le altre colleghe invece continuavano ad utilizzare la formula maschile. A me, senza tanti alibi ideologici, in genere portati avanti allora dalla “Pedagogia della differenza”, sembrava molto naturale comportami così, senza fra l’altro scomodare questioni estetiche.

Avevo intuito che fosse per una ragione di importanza, implicitamente assegnata al maschile, che molte colleghe usavano questa formula. Altre invece lo facevano forse per passività (in quanto i documenti prestampati così venivano proposti) ma queste ragioni  non mi turbavano  particolarmente, semmai mi stupivano. Era senz’altro più coerente con la mia passata appartenenza al Comitato dove, insieme alle altre, avevo maturato una più forte sensibilità alla problematica. Soprattutto però era una questione di presentazione corretta: ero una donna, dirigente scolastica, e non vedevo perché dovessi utilizzare la forma maschile. Fra l’altro quella femminile non era per niente “brutta”, né “suonava male”: scusa utilizzata generalmente per i termini architetta, assessora, avvocata, chirurga, difensora, consigliera, prefetta (come utilizziamo a Treviso da tempo con nonchalance) e via dicendo. A proposito: vi siete resi conto che si tratta di “fare l’orecchio”?

Ritornando al tema del linguaggio, credo sia diventato ineludibile prendere atto che la situazione oggi è cambiata, e che le donne hanno raggiunto uno stato sociale, culturale e professionale, che un tempo solo gli uomini raggiungevano. “Fornire una rappresentazione inadeguata del genere femminile si configura infatti come una vera e propria violenza simbolica”, recitano le Linee guida, che provano a contrastare la tendenza a privilegiare il maschile nella grammatica e non solo, tanto che anche i bambini, rivolgendosi alle bambine, quando viene loro spiegata la dominanza nelle concordanze, spesso esclamano: “Vinciamo noi!”.

Frizzi (e lazzi) anche da parte di donne

Mi sono resa conto, però, che le raccomandazioni suddette, nei confronti degli aspetti del linguaggio sessista, hanno disturbato qualcuno e, purtroppo, qualcuna. L’avevo colto e continuo a coglierlo dai frizzi che appaiono ancora sulla stampa e su Facebook. Alcuni amici ed amiche, anche piuttosto noti nel mondo della scuola, si dilettavano e di dilettano tuttora assai ad ironizzare su questi aspetti. Allora ho capito che questi commenti, reiterati ed insistenti, sono importanti, in quanto il sessismo del linguaggio è ancora diffuso anche nel mondo della scuola. Anzi ho capito che il sessismo maschilista tout court è ancora incarnato all’interno di questa istituzione, che avrebbe il compito di sensibilizzare invece alle pari opportunità di genere. Un sessismo ancora più pericoloso se inconsapevole, perché difficilmente correggibile, assolutamente fuori luogo ed incomprensibile se sostenuto dalle donne. Qualcuna di loro, dirigente scolastica, ha definito le linee guida facezie, espressione seguita da un codazzo di “like”, ed io capisco allora se il lavoro portato avanti in modo, secondo me, molto significativo, da parte del Comitato, negli anni ’90 sia andato perduto, e non sia mai arrivato veramente alle scuole. Mi viene un dubbio: è forse allora ignoranza? (nel senso di non-conoscenza, naturalmente).

Queste osservazioni portano alla luce come il percorso della emancipazione femminile non sia stato sempre e solo ostacolato dagli uomini; molte donne, più o meno consapevolmente, l’hanno fatto e continuano a farlo. La derisione e la sottovalutazione sono i sistemi peggiori. Sono spesso donne abbastanza giovani da aver già usufruito delle conquiste femminili che a noi sono costate un caro prezzo, e non si accorgono che spesso le loro figlie sono la rappresentazione di una progressiva “involuzione”, come ha benissimo testimoniato Loredana Lipperini nel suo saggio “Ancora dalla parte delle bambine”.

Linguaggio neutro

Dalle linee guida vado ora ad estrapolare:  “…Si sostiene l’uso della sola forma maschile dei titoli che indicano ruoli istituzionali o professioni ritenute prestigiose anche se sono riferite a donne, accampando giustificazioni inconsistenti sul piano linguistico…. Invece le forme femminili che indicano professioni ritenute meno prestigiose sono tranquillamente accettate (es. infermiera, parrucchiera, cameriera). Ma è doveroso sottolineare che un atteggiamento omologante non produce un linguaggio “neutro”, bensì lo “maschilizza” ulteriormente attraverso l’estensione (impropria, come vedremo) alle donne dell’uso del genere grammaticale maschile e favorisce, così, quei comportamenti discriminatori che si riscontrano in molte esperienze sociali e di lavoro”.

La lingua esprime la nostra visione della vita, dei fatti, ed il suo uso ne limita o ne espande le potenzialità.  È quindi di grande importanza l’analisi che viene suggerita, con le sue conseguenze pratiche. La cosiddetta neutralità del linguaggio corrente consiste nel suo utilizzo riferito ad un solo soggetto apparentemente neutro e universale, in realtà maschile. Invece “un uso della lingua che rifletta la differenza attraverso l’uso del genere grammaticale e permetta di identificare la presenza delle donne e attribuire loro i nuovi ruoli che esse detengono nella società sul piano professionale e istituzionale, contribuisce a contrastare la discriminazione, a favorire la parità, e anche a trasmettere modelli socioculturali utili alle giovani generazioni per la scelta della loro futura professione”. Questo passaggio del testo ministeriale mi sembra particolarmente interessante.

Testi di educazione linguistica

I suggerimenti portati avanti dalle raccomandazioni ministeriali riguardano la pratica didattica, e soprattutto l’adeguatezza del linguaggio usato nei libri di testo di tutte le discipline, non solo per quanto riguarda la presenza di eventuali stereotipi del maschile e del femminile, ma anche per quanto concerne l’uso del genere grammaticale, che costituisce uno strumento fondamentale per la rappresentazione della donna nel linguaggio. Tutto ciò però era già stato affermato dal progetto “polite” nel 1999. Vorrà dire qualcosa…