Il pensiero computazionale a scuola, tra luci ed ombre

Perché si parla di “coding”

Il Miur ha recentemente pubblicato il documento “Indicazioni Nazionali e nuovi scenari”, redatto da un gruppo di lavoro (Comitato scientifico nazionale per l’attuazione delle Indicazioni nazionali e il miglioramento continuo dell’insegnamento) coordinato da Italo Fiorin (LUMSA).

Non si tratta di “nuove, nuovissime” Indicazioni (I.N.), ma piuttosto di un documento di inquadramento e di messa a punto di quelle tuttora vigenti (del 2012), con l’obiettivo di focalizzare l’azione delle scuole sulle competenze di cittadinanza, alla luce dei cambiamenti sociali sempre più rapidi, indotti spesso dalla frenetica evoluzione dei sistemi tecnologici, ma anche sempre più problematizzanti rispetto ai grandi temi della prospettiva globale.

Il documento non propone quindi nuovi contenuti, ma almeno un termine completamente nuovo, rispetto al testo originale delle I.N., emerge in modo evidente: il pensiero computazionale, al quale è dedicato un intero paragrafo (il 5.4), “strategicamente” posizionato tra quelli relativi al pensiero matematico e scientifico.

Un abito mentale per risolvere problemi

Molto si è scritto, negli ultimi anni, a proposito del pensiero computazionale, termine peraltro molto utilizzato nel Piano Nazionale Scuola Digitale, nel quale si trova anche una specifica azione (#17) in cui è declinato con il doppio aggettivo “logico-computazionale”.

Quest’attenzione ai dettagli, agli aggettivi e ai complementi, può sembrare capziosa. In realtà il dibattito attorno a questo argomento si è sviluppato spesso proprio su questi aspetti.

In primo luogo non è chiara la definizione. A questo riguardo si potrebbe obiettare che, in ambito didattico-pedagogico, è quasi normale che non vi siano certezze assolute e durature: si pensi all’enorme discussione ancora in corso sul termine “competenza”, che pure è alla base dell’intera architettura didattica del sistema nazionale di istruzione e formazione.

Nel caso specifico, tuttavia, si può tentare di capirne un po’ di più, tentando di collegare il costrutto “pensiero computazionale” al quadro di competenze che fa da sfondo al documento.

Va ricordato che l’idea portante del concetto di pensiero computazionale è che esso non debba intendersi come limitato alla programmazione vera e propria di sistemi informatici, ma debba piuttosto trascendere gli aspetti tecnologici per diventare una competenza di base.

Non si tratta quindi di “imparare a programmare un computer”, ma di acquisire un particolare abito mentale rivolto alla risoluzione di problemi.

Il pensiero computazionale come competenza

L’articolo del 2006 nel quale la professoressa della Carnegie Mellon University di Pittsburgh (USA) Jeannette Wing presentava i concetti base del pensiero computazionale, nonostante la brevità, include le caratteristiche fondamentali di questo nuovo approccio.

Vale la pena di recuperare qui quelle più strettamente legate all’idea del pensiero computazionale come competenza:

  • “Conceptualizing, not programming”: è l’elemento chiave per comprendere l’importanza del pensiero computazionale. L’informatica non è solo programmare computer. “Pensare come un informatico” significa ragionare sui concetti, in modo tutt’altro che meccanico.
  • “A way that humans, not computers, think”: ancora una volta il focus non è sulla tecnologia, ma sui processi cognitivi (umani) sottostanti.
  • “Ideas, not artifacts”: in sostanza quello che dovrebbe essere acquisito in termini di competenze, oltre gli artefatti tecnologici utilizzati o realizzati nell’attività.

L’obiettivo, quindi, non è creare “legioni” di futuri programmatori, allo stesso modo in cui la competenza digitale va ben oltre l’abilità nell’uso dei dispositivi.

Certamente non è assente la riflessione sul mondo tecnologico. Dalle tecniche di programmazione si ricavano sicuramente spunti ed esempi, con l’obiettivo di acquisire competenze rivolte alla risoluzione dei problemi in modo efficace, efficiente e organizzato.

Formare una “mente critica”

Si ritiene che pensare come un informatico (non come un computer!) possa essere un modo di essere, utile ad affrontare qualunque problema, da quelli della vita quotidiana a quelli più tipici degli ambienti tecnologici.

Occorre domandarsi, a questo punto, quale possa (debba) essere il ruolo della scuola rispetto a questo tipo di approccio, riflettendo anche sulla necessità di evitare eccessi di facile entusiasmo, improvvisazione e approssimazione.

In una società iper-complessa, nella quale i “problemi” sono all’ordine del giorno (leggere una semplice notizia sul web, oggi, è a tutti gli effetti un problema!), i cittadini devono possedere un bagaglio di competenze che includa la capacità di approcciare i problemi, di scomporli, di analizzarli a diversi livelli di astrazione.

Rappresentare e organizzare i dati, riconoscere le classi di problemi e generalizzare le soluzioni, sono tutte abilità ormai necessarie, indipendentemente dall’uso delle tecnologie.

Sono aspetti che possono essere definiti “culturali”, e che hanno importanti riflessi sulla componente oggi più importante della competenza digitale, così come descritta già nella Raccomandazione del 2006: l’uso consapevole, lo “spirito critico”.

Per questo un esagerato sbilanciamento dei percorsi didattici sul coding, quasi fosse l’unico veicolo verso il pensiero computazionale, per di più non accompagnato da formazione approfondita e specifica dei docenti, può esporre al rischio di approssimazione e scarso rigore scientifico-metodologico.

Basta un kit per la pratica del coding?

In particolare nella scuola del primo ciclo, ai docenti spesso non mancano solo le conoscenze “tecniche” di programmazione, ma anche e soprattutto la piena consapevolezza del valore didattico e la capacità di inserire coerentemente le attività di coding all’interno di un più ampio progetto di sviluppo delle competenze, digitali e non.

Ben prima dell’uscita del documento “Indicazioni Nazionali e Nuovi Scenari”, lo stesso Miur ha promosso azioni specifiche (una su tutte, L’ora del Codice programmailfuturo.it) per favorire l’introduzione del coding fin dai primi anni della scuola primaria.

L’effetto in termini di divulgazione e diffusione è stato enorme, se si pensa che hanno partecipato a L’ora del Codice (edizione dicembre 2017) 5909 scuole, 28.313 docenti, più di 100.000 classi e quasi due milioni di studenti!

Ma sono davvero questi numeri a darci il polso del reale miglioramento dei percorsi formativi sul pensiero computazionale?

Sul sito “Programma il futuro” (che, ricordiamolo, è promosso dal Miur in collaborazione con il CINI – Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica) si afferma che le attività e gli strumenti proposti sono “progettati e realizzati in modo da renderli utilizzabili in classe da parte di insegnanti di qualunque materia. Non è necessaria alcuna particolare abilità tecnica né alcuna preparazione scientifica”. Non si fa cenno alla preparazione del docente. Anzi sembra di capire che la predisposizione dei “kit” per la pratica diffusa delle attività di coding sia funzionale all’estensione del numero dei docenti in grado di usarli, piuttosto che all’adeguatezza di un metodo e alla certezza di un rigore scientifico.

E dopo l’Ora del Codice? Che succede?

A questo punto vale la pena rimandare ad un altro documento da poco prodotto e diffuso dal Miur attraverso il progetto www.generazioniconnesse.it: il Sillabo di Educazione Civica Digitale.

Il Sillabo è una risorsa, associata a materiali dedicati, che orienta la costruzione di curricoli verticali all’interno dei PTOF delle scuole, e suggerisce dunque una coerenza nella progettazione dei percorsi verso le competenze digitali.

Nella quarta sezione, Quantificazione e computazione, si riconduce opportunamente il pensiero computazionale all’interno di un più ampio e definito quadro di skills: “Seppure non centrale, è utile che gli studenti acquisiscano consapevolezza degli aspetti computazionali della realtà, comprendendo il legame tra problemi e algoritmi, cuore del pensiero computazionale e alla base del funzionamento, dell’efficacia ma anche delle criticità di ogni applicazione digitale che ci circonda. Nei percorsi più avanzati, gli studenti potranno anche essere coinvolti nella costruzione di algoritmi, allo scopo di risolvere problemi attraverso soluzioni algoritmiche, anche in sinergia con basi di programmazione.”

Ecco la risposta! Dopo L’ora del Codice, anzi intorno a L’ora del Codice, ci dev’essere un progetto non approssimativo e coerente, fondato sull’appropriazione di senso da parte dei docenti rispetto a percorsi didattici che, come detto più volte in questo articolo, travalicano gli aspetti tecnologici. La futura formazione dei docenti dovrà tenere conto di questa prospettiva.