La scuola che verrà: attendendo il nuovo Ministro…

La stagione del risentimento

Conclusa la campagna elettorale, cestinate le brochure  di programmi politici più o meno accattivanti alla ricerca dell’ultimo consenso, il nuovo governo che assumerà la responsabilità di guidare il Paese dovrà mettere mano alla  stesura di un piano di azione concreto, e fare i conti con la fattibilità innanzitutto delle promesse.

Sia chiaro: vale  per ogni Ministro incaricato l’auspicio che  possa essere designato  per competenze e professionalità specifiche  del dicastero di riferimento. Ma il mondo della scuola, che nel bene e male ha inciso fortemente sulla tenuta e stabilità dei governi, fosse solo per la forza dei numeri, attende chiarezza e propositività costruttiva.

Abbondano i richiami più o meno espliciti alla demolizione, abrogazione, abolizione di norme, che diventano note perché associate al nome del firmatario più che per i contenuti. È stato così in tutte le stagioni, e così è stato nell’ultima tornata elettorale, forse nel  tentativo di recuperare il consenso di  migliaia di docenti  che, sollecitati dal vento della contestazione  e dagli effetti  destabilizzanti di algoritmi errati, in un contesto generale di perdita di potere d’acquisto, aggravato dal mancato rinnovo contrattuale,  hanno manifestato la tradizionale avversione ai dettati normativi,  percepiti come compulsivi.

Ancora un “punto e a capo”?

Ma all’indomani del voto, il nuovo inquilino di Viale Trastevere cosa proporrà in pratica?  Demolire un impianto normativo  per proporne uno nuovo? Abolire cosa, per proporre cos’altro? Siamo  sicuri che la scuola italiana abbia proprio bisogno di “azzerare”? E per ripartire da cosa?

Se poniamo attenzione all’evoluzione normativa degli ultimi venti anni, fino ad arrivare ai giorni nostri, al di là del colore dei  governi che si sono succeduti,  e dei ministri più o meno popolari che hanno posto la firma sulle riforme,  non è difficile rintracciare una cornice unitaria di riferimento  che ha radicalmente cambiato l’impronta della scuola italiana. È il dpr 275/1999 (regolamento autonomia scolastica), decreto di  attuazione della Legge 59/1997 (Legge Bassanini),  meglio nota come  Legge sull’autonomia,  che ha segnato il passaggio dalla logica dei programmi alla logica della progettazione, dal centralismo burocratico e amministrativo all’intraprendenza  responsabile delle singole istituzioni scolastiche, sia pure nel rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni, garanzia del principio  costituzionale di uguaglianza formale e sostanziale.

Anche l’attuazione del regolamento  sull’autonomia ha subito attacchi e contestazioni,  che hanno  finito per derubricare la valenza di una riforma epocale in un’operazione di decentramento, paventando il pericolo di uno  smantellamento di  impianto unitario della scuola pubblica, che senza opportuni accorgimenti e mediazioni culturali ha finito per tradursi troppo spesso nella scuola-progettificio.

L’autonomia della scuola, un possibile punto di riferimento

A distanza di quasi vent’anni dall’entrata in vigore, chi ha indossato  lenti pedagogiche  adeguate per leggere l’orizzonte creativo del regolamento non può non vedere in esso la riforma delle riforme, che va oltre le mode e il tempo.

È il regolamento (dpr 275/1999) che sottolinea il protagonismo dei collegi dei docenti, la capacità di leggere il contesto sociale  di riferimento per pensare, ideare e realizzare il progetto-scuola,  che sia espressione di un’identità  culturale  e sociale che è irripetibile. È lo strumento normativo che evoca l’immagine della scuola come “cantiere aperto”, che sollecita professionalità creative e propositive in grado di delineare la “cassetta degli attrezzi” per avere sempre a portata di mano risposte adeguate alla molteplicità dei bisogni educativi speciali,  che vanno ben oltre  le etichette semplicistiche e gli acronimi ridondanti. È la scuola  “officina” che  riscopre l’etimologia del fare, coniugando  la dimensione  cognitiva del sapere con il piacere della scoperta attraverso  le dinamiche relazionali degli ambienti di apprendimento allestiti dal  “docente-artigiano”, sapiente cultore del ben-essere.

Il valore aggiunto dell’autonomia

La scuola dell’autonomia  ha accompagnato il percorso di revisione del sistema di istruzione e formazione, degli ordinamenti risalenti a stagioni differenti (il ‘68 per scuola materna, il ‘55 e poi l’‘85 per quella elementare, il ‘62 per la scuola media, il lontano ‘23 per la secondaria di secondo grado) che, nonostante tutto, hanno trovato una cornice unitaria; ha ampliato il ventaglio della scuola secondaria per promuovere percorsi di istruzione funzionali ai tempi e ai processi innovativi in atto,  sia pure nella specificità degli indirizzi che è esplicitata anche attraverso le quote di flessibilità; fa da sfondo alle indicazioni nazionali per il curricolo ed ha contribuito a delineare e rafforzare l’identità degli istituti comprensivi, promuovendo la piena attuazione del  raccordo pedagogico, curriculare e organizzativo tra i docenti dei segmenti diversi; affianca l’evoluzione e  la revisione del sistema nazionale di valutazione  degli alunni e l’approccio sistemico alla rendicontazione sociale; pone al centro dei processi di insegnamento-apprendimento la capacità dei docenti di promuovere ricerca-azione.

La ricerca di un progetto educativo condiviso

Forse sarebbe opportuno monitorare il ventennio trascorso e la fisionomia che  la scuola dell’autonomia ha assunto, per ridimensionare  alcune derive “commerciali” che hanno   finito per accentuare quella autoreferenzialità, tipica della scuola-edificio di un tempo,   che avrebbe dovuto tradursi in condivisione di buone pratiche e in reti educative per il territorio. Forse sarebbe opportuno partire da ciò che è stato, da come è stato vissuto dai protagonisti della scuola il processo di trasformazione, per rassicurare chi ha guardato con timore alla destrutturazione della linearità del tempo sancito dal susseguirsi delle pagine del libro di testo, perché non connesso con la fluidità delle sollecitazioni che provengono da canali comunicativi differenti, che spesso si sovrappongono e richiedono mediazioni intelligenti.

I docenti  andrebbero guidati  verso letture attente e ragionate delle norme già in vigore, per sollecitare un attivismo propositivo funzionale a declinare ogni singolo comma della normativa in una sfida professionale con se stessi, nella consapevolezza che nella scuola dell’autonomia c’è spazio per tutti quelli che vorranno sentirsi parte di un progetto unitario che va scritto, rivisto, revisionato giorno per giorno.

Una scuola “maggiorenne”

In fondo 20 anni non sono tanti,  e la scuola dell’autonomia è ancora giovane. Un po’ come i nostri ragazzi che, dopo percorsi formativi anche turbolenti, cementificano  i pilastri  cognitivi gradualmente, per imparare ad apprezzare  gli orizzonti di senso al raggiungimento della “maturità”. Questa sarà veramente compiuta quando i ragazzi avranno preso consapevolezza che anche dagli errori  si impara, e che solo assumendo il timone si può indirizzare il percorso verso ciò che si desidera realizzare. Ciò avverrà quando avranno compreso che la tanto agognata “autonomia da maggiorenne” è sinonimo di responsabilità piena, e che la responsabilità reclama capacità di compiere scelte consapevoli.

Anche la scuola  ha bisogno di  tempi distesi per dare piana attuazione alle riforme, e per cogliere  i frutti della “piena attuazione dell’autonomia scolastica”. Non affrettiamoci a demolire: probabilmente ciò che cerchiamo esiste già, e va solo letto con le dovute attenzioni.