L’alternanza scuola-lavoro: tempo di ripensamenti?

Il parere del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione

L’impressione che si ha nel leggere il parere autonomo espresso il 26 luglio 2018 dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (CSPI) in materia di “Alternanza Scuola Lavoro” (ASL) è quello di una riflessione che presenta certamente aspetti positivi, ma al tempo stesso contraddizioni e rischi, con ambiguità che forse spiegano l’inconsueto unanimismo con cui è stato approvato da forze che solitamente non la pensano proprio nello stesso modo.

Il “parere”, in effetti svolge un’analisi su cui è difficile non essere d’accordo. Si sostiene, infatti, che l’alternanza tra scuola e lavoro rappresenta una metodologia didattica utile per il conseguimento dell’obiettivo primario della scuola, ossia la crescita della cittadinanza attiva, critica e consapevole. Da questo punto di vista, anch’ io, come molti pedagogisti, sono d’accordo nel dire che sarebbe meglio sostituire il termine “alternanza”, che evoca una successione temporale, con quello di “alleanza”, per sottolinearne il carattere formativo.

Un nuovo paradigma per l’alternanza?

Non solo. Giustamente si afferma che la relazione tra scuola e lavoro può favorire l’aggiornamento dei curricoli scolastici e rappresenta un’occasione preziosa per interconnettere le conoscenze acquisite nelle singole discipline, coerentemente con una didattica che sappia guardare con attenzione alle competenze, ponendo fine alla loro presunta contrapposizione con le conoscenze.

Deve essere rifiutata, pertanto, una concezione tradizionalista dell’apprendimento inteso come semplice ricezione e memorizzazione, poiché apprendere vuol dire al contrario, citando alla lettera il parere, svolgere una attività “caratterizzata dall’elaborazione delle informazioni e dei dati, dall’uso di strategie come forme di sperimentazione per la ricaduta di tali conoscenze sul piano pratico della vita reale e del lavoro… , dalla verifica di ipotesi e dalla tendenza a superare i limiti del dato… L’insieme di attività così complesse non può che situarsi concretamente in contesti operativi; tali contesti forniscono non solo i contenuti delle azioni, ma rappresentano anche la palestra nella quale addestrarsi.”

I bisogni “inediti” di formazione e le risorse produttive del territorio

All’interno del documento, poi, vengono sottolineati alcuni altri aspetti fondamentali implicati dalle esperienze di ASL.

Il primo è la consapevolezza dei mutamenti rapidissimi e sconvolgenti che stanno attraversando il mondo del lavoro, per cui nessuna formazione può essere considerata preparatoria rispetto ad una specifica mansione. Si tratta di un elemento che nella nostra esperienza lombarda viene continuamente sottolineato dall’associazionismo imprenditoriale, teso a valorizzare le “soft-skills” e a metterle in relazione con gli obiettivi chiave della scuola. Oggi nessuno più considera lo “specialista” come un operatore rinchiuso in un settore limitato, ma come un tecnico capace di immaginare /progettare nuovi scenari, sia nella grande impresa, sia nella piccola azienda artigiana in cui sono richieste competenze sempre più complesse.

Il secondo aspetto è che progettare alternanza implica la conoscenza delle risorse produttive e culturali presenti sul territorio e la consapevolezza che la scuola ne fa parte fino in fondo: l’ASL richiede infatti una profonda “sensibilizzazione” alla lettura di quel che effettivamente esiste e di quello per cui lo studente ha maggiori attitudini: è quello che si chiana “orientamento”. Per questo il documento riafferma che “la cultura del lavoro deve essere presente nel percorso curricolare: nei contenuti dello studio, nell’approccio esperienziale al conoscere (laboratorialitàcome modalità costante di lavoro scolastico), nell’assunzione di responsabilità e autonomia personali e collettive e nella pratica di azioni con “valenza sociale e di cura”.

Come non essere d’accordo?

I pregiudizi e i fraintendimenti contro l’alternanza

Però, a questo punto non si può fare a meno di chiedere: ma questa non è esattamente la logica che ha ispirato la legge 107/2015, la Guida Operativa, le scuole, le Reti regionali (tra cui quella lombarda in particolare) ?

Evidentemente, il Consiglio Superiore condivide molte delle riserve ampiamente riportate dalla comunicazione di massa e definite infatti “comprensibili”. Riprendendo le convinzioni del mondo sindacale (non di tutto), c’è nel parere in primo luogo l’idea che l’attuale normativa permette che l’alternanza sia concepita non come una modalità didattica, ma come un’esperienza al servizio dei soggetti ospitanti, rispetto ai quali gli “studentilavoratori” si devono rendere disponibili a qualsiasi richiesta. Insomma, un vero e proprio sfruttamento dei giovani.

Inoltre, si sottolinea molto il rischio che l’introduzione dell’alternanza obbligatoria sia concepita come un modo per avviare gli studenti al lavoro per una loro immediata occupabilità, come una sorta di “periodo di prova”.

Gli strumenti per una alternanza di qualità

Ora, che questo sia potuto avvenire in alcuni casi può essere vero, ma- come si legge in tutte le prese di posizione dell’associazionismo imprenditoriale e in tutti i progetti di scuola- le convenzioni dicono tutt’altro e si tratta semmai di verificarne l’attuazione. Certo, la disponibilità di posti-stage, specie in alcune regioni, è limitata e ha prodotto storture come alcuni incredibili piani “chiavi in mano”, ma le soluzioni alternative esistono e sono previste nella normativa: i project-work che non esigono prolungate permanenze in azienda; le convenzioni con gli Enti Pubblici, le Istituzioni culturali e sportive; la simulazione d’impresa, che permette un coinvolgimento effettivo del Consiglio di classe. Il problema non sta quindi nella mancanza di strumenti con cui esercitare la libera progettualità dei docenti, quanto nella diversità di linguaggio e di sensibilità spesso presente tra gli operatori scolastici ed aziendali, aggravata da alcune pesanti carenze, giustamente messe in rilievo nella riflessione del CSPI:

– l’assenza di una adeguata specifica formazione del personale scolastico;

– il mancato supporto organizzativo alle scuole che hanno dovuto farsi carico di programmare le attività.

L’obbligatorietà dell’ASL, presupposto della sua curricolarità

Questi problemi andavano risolti “prima” della statuizione dell’obbligatorietà per legge? Mi permetto di osservare, a questo riguardo, come proprio la logica sottesa al “nuovo paradigma” di alternanza proposto dal Consiglio Superiore stia esattamente nella curricolarità dei percorsi di alternanza, ossia nel loro legame con gli esiti di apprendimento previsti dai profili in uscita dei regolamenti di riordino del 2010 attraverso la progettazione condivisa con i partner aziendali.

L’obbligatorietà non fa che rendere evidente istituzionalmente questo legame, che nel passato anche recente spesso mancava facendo dei progetti dei “fiori all’occhiello” privi di incidenza sul modo concreto di insegnare ed apprendere.

Ovviamente, questo mutamento, davvero radicale, non avviene in un giorno: il problema sta piuttosto in un più efficace intervento dell’Amministrazione sulle condizioni in cui si sviluppano gli ambienti di apprendimento, sul monitoraggio e alla valutazione non solo dei percorsi, ma anche degli esiti di apprendimento: senza imposizioni, ma contribuendo alla costruzione di modalità omogenee.

Servono proposte coraggiose

E qui arrivo a quella che considero la parte più povera del documento formulato dal CSPI: quella relativa alle proposte.

Cosa vuol dire che non ci sono “risorse adeguate” per il personale? A me risulta che i fondi per l’alternanza siano stati negli ultimi anni aumentati in maniera assai rilevante, al punto che molte istituzioni scolastiche si sono chieste come utilizzarle. Speriamo anzi che siano confermate per il prossimo triennio. I PON, poi, hanno ulteriormente aumentato le occasioni di finanziamento, sia pure con modalità a volte discutibili. La questione centrale è invece quella di riconoscere all’autonomia scolastica la possibilità di organizzare le attività giornaliere, settimanali e annuali in maniera diversa da quella oggi ancora rigidamente gentiliana, mentre la didattica delle competenze esige ben altre flessibilità. In questo ambito andrebbero previste una diversa normativa dei carichi di lavoro per i docenti e una formazione obbligatoria specifica, da condursi possibilmente in parallelo a quella dei tutor aziendali.

So benissimo che questo implica dei riflessi sul piano contrattuale, oltrepassa i confini dell’alternanza e forse per questo le diverse forze presenti nel CSPI non se la sono sentita di entrare nel merito più di tanto, ma questo è il vero compito dei prossimi anni, non il ritorno alle disponibilità soggettive dei consigli di classe e/o dei singoli docenti.

Un monitoraggio rigoroso, per non tornare indietro

Per quanto riguarda, infine il “mancato supporto organizzativo alle scuole che hanno dovuto farsi carico di programmare le attività” non c’è dubbio che il panorama si presenta molto diversificato sul piano territoriale e comunque generalmente critico. Anche qui, bisogna andare avanti, affidando compiti concreti alle Direzioni Regionali e utilizzando strumenti di monitoraggio efficaci e capaci di supportare la progettazione. Esistono oggi piattaforme diverse sul territorio nazionale cui bisognerebbe richiedere prima di tutto la comunicabilità dei dati tra l’una e l’altra. Non sarebbe male, da questo punto di vista, se il CSPI si occupasse anche del portale su cui è stata fatta la rendicontazione di quest’ultimo anno, che deve:

– prima di tutto funzionare;

– essere di uso semplice e non costituire un ostacolo burocratico;

– fornire indicazioni e strumenti per la valutazione degli apprendimenti, anche in vista del prossimo esame di Stato, in cui i risultati dell’alternanza avranno un ruolo molto importante.

Altrimenti l’esito della riflessione avviata rischia, attraverso l’accento posto sulla flessibilità del monte-ore, di costituire un ritorno al passato. Ricordo, a questo proposito, che già oggi la durata dei percorsi di alternanza non si identifica con il tirocinio in azienda, ma comprende le attività di preparazione e di ricaduta delle esperienze, nelle diverse modalità possibili. La “flessibilità”, insomma, esiste già e non è affatto contraddittoria con l’obbligatorietà.