Reclutamento docenti: abolire l’abilitazione?

Un accesso al ruolo meno selettivo?

Da quando si è insediato il nuovo governo Lega-Cinquestelle, il Ministro dell’Istruzione Bussetti è già intervenuto più volte sul reclutamento dei docenti, in una direzione piuttosto preoccupante, perché tende a renderlo meno selettivo. In primo luogo sta per bandire il concorso straordinario per i maestri diplomati, cioè per tutti quelli che hanno il diploma magistrale precedente all’a.s. 2001-02 e che, non essendo inseriti nelle Graduatorie a esaurimento (Gae), non hanno diritto ad avere un posto se non superando un concorso, come i loro colleghi più giovani laureati in Scienze della formazione primaria. Non ricostruiamo qui la vicenda surreale per cui erano invece stati inseriti nelle Gae da sentenze del Tar – alcuni di loro erano anche stati immessi in ruolo – e poi il Consiglio di Stato ha smentito tutto, per cui dovrebbero trovarsi di nuovo disoccupati. Per chiudere la faccenda, si fa un concorso “non selettivo” che assomiglia piuttosto a una sanatoria, creando nuove graduatorie “a esaurimento”.

Cambiano di nuovo le regole per il reclutamento?

Molto più allarmanti sono però le dichiarazioni sui concorsi per i docenti della scuola secondaria. Fin dal “Contratto di governo”, Lega e Cinquestelle hanno dichiarato che il sistema dei concorsi va riformato, per garantire un reclutamento su base regionale o provinciale, e per vincolare maggiormente i docenti alle proprie sedi. Fin qui nulla di male: è una visione politica chiara, coerente con le posizioni passate della Lega (che a quanto pare ha messo il cappello sulla politica scolastica, estromettendo il M5S). È però piuttosto fastidioso pensare che il sistema di reclutamento dei docenti è stato appena riformato, che c’erano dei concorsi avviati o previsti a breve, e che i danni più gravi la scuola li subisce sempre dall’incertezza normativa, dal cambiamento continuo delle regole in corsa. Queste dichiarazioni del “Contratto di governo” facevano preludere al solito rovesciamento disordinato delle regole, con la conseguente confusione che tutti conosciamo dalla storia della scuola. Già questo bastava. Ma il seguito è stato peggiore.

Nubi all’orizzonte del D.lgs. 59/2017

Il Ministro ha “congelato” due concorsi già calendarizzati entro fine 2018, previsti dal D.lgs. 59/2017: quello straordinario per i docenti non abilitati con tre anni di anzianità di servizio, e quello ordinario. E ha fatto una serie di annunci, vaghi, dai quali abbiamo capito quanto segue:

1) il nuovo sistema di formazione iniziale e reclutamento, detto FIT (Formazione iniziale e tirocinio), in vigore dalla primavera del 2017, verrà sicuramente abrogato, e verrà creato un nuovo sistema, rimettendo in discussione la stabilità normativa, la certezza del diritto e la regolarità del reclutamento. Tutti i giovani laureati che si sono procurati i famigerati 24 crediti universitari in “discipline antropo-psico-pedagogiche e metodologie e tecnologie didattiche”, in vista del concorso FIT, si stanno chiedendo perché l’hanno fatto;

2) il nuovo sistema prevederà concorsi su base provinciale solo dove servono posti, e cercherà di vincolare i docenti alle sedi; coerente con il “Contratto”, ma non molto chiaro nella realizzabilità per la prima parte. E, soprattutto, buona fortuna per il secondo punto: nessuno ci è mai riuscito;

3) la sorpresa arriva alla fine: il Ministro ha dichiarato che non servirà più l’abilitazione per accedere al concorso per l’insegnamento, qualsiasi laureato potrà farlo. Una dichiarazione foriera di gravi conseguenze.

Che fine farà l’abilitazione?

Ormai in tutti i Paesi lo schema per accedere all’insegnamento è laurea-abilitazione-concorso, con combinazioni diverse, per struttura e priorità. Ma ci vogliono tutti e tre gli elementi, non basta la laurea disciplinare; ci vuole una qualche specializzazione che formi per l’insegnamento. E questo è del tutto sensato, perché la scuola che abbiamo di fronte adesso è realmente di massa, anche nelle scuole superiori, anche nei licei, e insegnare a studenti di origini e competenze molto eterogenee è difficile, richiede preparazione e motivazione: un percorso ad hoc serve per garantire entrambe, altrimenti l’insegnamento continua a essere un ripiego (com’è stato per molti), una seconda scelta che si poteva fare sulla base dell’assunto “se conosco la mia materia basta, per insegnare mi arrangio”. Questo sembra tanto più possibile per le superiori, e invece è proprio una causa profonda dei nostri guai: la dispersione scolastica si concentra alle superiori, soprattutto nel biennio, anche perché ci si è illusi che, arrivati a quel livello, il lavoro sulla relazione didattica diventi secondario, rispetto al ruolo fondamentale che ha, evidentemente, nella scuola elementare. Invece la relazione didattica è fondamentale sempre, e finché la società, tutta intera, non accetterà l’idea che un docente delle superiori ha molto da imparare da un docente della primaria, e non il contrario, allora la nostra scuola secondaria continuerà a fare acqua da tutte le parti.

Le competenze didattiche, del tutto marginali

Oggi si rovescia questa impostazione, legittimando il senso comune tradizionalista che domina in Italia. Sostenuto purtroppo in questo da una incomprensibile recente ordinanza del Consiglio di Stato, che vorrebbe autorizzare i docenti senza abilitazione ma con il dottorato ad accedere ai concorsi con la seguente motivazione: appare […] illogico che nel più, ovvero l’abilitazione all’insegnamento nell’università [che è data dal dottorato], istituzione di grado superiore, non sia compreso il meno, ovvero l’abilitazione all’insegnamento della stessa materia nell’istituzione di grado inferiore, ovvero la scuola superiore” (Consiglio di Stato, sez. VI, ordinanza n. 5134/18, art. 25). Quindi chiunque insegna in un ordine di istruzione “superiore” a un altro (“superiore” perché viene dopo nell’età dei discenti, argomento molto discutibile) può insegnare in tutti quelli “inferiori”; quindi chi insegna italiano nei licei potrebbe tranquillamente insegnare italiano nella primaria, per esempio. Facciamo la prova, e vediamo quanto sono contenti i bambini e i genitori. Questo modo di ragionare, questo modo di considerare inutili le competenze didattiche e la motivazione all’insegnamento, sono il solito retaggio del più ottuso tradizionalismo culturale italiano: quello che conta è il sapere umanistico, il sapere “superiore”, la “cultura”; se hai quello puoi fare qualsiasi cosa. E questo è, per la scuola ma anche per tante altre cose, l’anticamera del dilettantismo.

Voci, sussurri e grida (manzoniane?)

Autorevoli pronunciamenti ci stanno dicendo che non serve a nulla formare gli insegnanti, e che non ha nessuna importanza se a insegnare vanno persone che prima volevano fare altre cose, e poi hanno ripiegato sulla scuola perché non hanno avuto successo. Si vuole forse tornare all’età dell’oro, all’epoca in cui si entrava in ruolo senza sforzo, con sanatorie di ogni genere, e la scuola era una sorta di cassa integrazione permanente.

Con quel tanto di brivido in più, però. Perché, subito dopo le dichiarazioni di Bussetti, il senatore Pittoni, presidente della Commissione Istruzione del Senato e responsabile scuola della Lega, le ha smentite, derubricandole a “voci fatte circolare”. Sorvoliamo sulla confusione costante creata dal continuo rincorrersi di voci, dichiarazioni, smentite, sui provvedimenti messi in cantiere dal Governo. Resta che la scuola inizia in una grande incertezza su questo fronte, e come sempre chi lavora nella scuola deve fare i conti con l’instabilità progettuale, politica e normativa. Resta che l’Italia si compiace nel guardare all’indietro e nel chiudere gli occhi di fronte ai problemi reali di una modernità complessa, dell’istruzione di massa, degli imperativi di una scuola democratica.

Questo intervento è parte di un testo più ampio dal titolo Ricomincia (male) la scuola, pubblicato sul blog Le parole e le cosehttp://www.leparoleelecose.it/?p=33759