Salviamo il colloquio della maturità

Cosa non funziona nel “nuovo” esame di Stato

Il nuovo colloquio dell’Esame di Stato del secondo ciclo è completamente fuori strada. Non nella norma, ma nella pratica. Si trasforma quasi sempre in un gioco di “collegamenti” tra un argomento e l’altro, in cui i passaggi sono spesso superficiali e improvvisati, mentre ogni singola parte si riduce a una ripetizione di nozioni appiccicaticce. Il peggio del vecchio unito al peggio del nuovo.

Le cause di questo disastro sono due:

1) la forzatura delle “buste”;

2) l’ossessione dei “collegamenti”.

1 – Le “buste” contraddicono lo spirito e la lettera della norma

Le finalità del colloquio nel nuovo Esame di Stato del secondo ciclo sono definite in questi termini:

“Il colloquio ha la finalità di accertare il conseguimento del profilo culturale, educativo e professionale della studentessa o dello studente. A tal fine la commissione, tenendo conto anche di quanto previsto dall’articolo 1, comma 30, della legge 13 luglio 2015, n. 107, propone al candidato di analizzare testi, documenti, esperienze, progetti, problemi per verificare l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline, la capacità di utilizzare le conoscenze acquisite e di collegarle per argomentare in maniera critica e personale anche utilizzando la lingua straniera.” (D. Lgs. 62/2017, art. 17, c. 9)

Si vede bene che lo scopo principale del colloquio è verificare l’acquisizione, in termini di obbiettivi di apprendimento, delle competenze attese alla fine del percorso di formazione svolto. La parte centrale è quella riferita alla “capacità di utilizzare le conoscenze acquisite”, che è la definizione specifica di competenza. Se quindi il nuovo colloquio parte dal PECUP e dalla verifica delle competenze, l’estrazione casuale degli “spunti” di partenza, con le buste, non è giustificata. L’ordinamento prevede la personalizzazione dei percorsi formativi. Questo è sottolineato dal testo stesso del D.Lgs. 62/2017: la frase “tenendo conto anche di quanto previsto dall’articolo 1, comma 30, della legge 13 luglio 2015, n. 107”, citata sopra, è fondamentale, eppure è stata trascurata, imponendo un modello che non rispetta le norme di legge. Quel comma della legge 107, infatti, recita così:

“Nell’ambito dell’esame di Stato conclusivo dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado, nello svolgimento dei colloqui la commissione d’esame tiene conto del curriculum dello studente.” (Legge 107/2015, art. 1, comma 30).

“Tiene conto del curriculum dello studente”: ripeto questa frase perché è un principio contraddetto frontalmente dall’introduzione delle buste. Queste sono una violazione della norma, perché se bisogna tenere conto del curriculum dello studente, non si deve partire da uno spunto casuale, ma da uno spunto mirato, scelto consapevolmente dai commissari in relazione al percorso personale del candidato.

2 – I “collegamenti” non sono conoscenza né competenza

Nella maggior parte dei casi, i nuovi orali si svolgono così: il candidato estrae il materiale dalla busta; lo studia per qualche minuto; inizia a parlare dei contenuti del materiale, e poi “si collega” alle varie discipline, finché non le ha esaurite tutte. Se ha difficoltà a collegarsi, lo fanno i commissari, spesso con delle domande. Se non ci sono collegamenti possibili, si “inserisce” il commissario “scollegato”, che non può che fare una domanda, cioè interrogare.

Perché questo disastro? Perché i “collegamenti” sono diventati, nella mente dei docenti e degli studenti, la cosa più importante. L’imperativo sembra: bisogna assolutamente verificare la capacità dello studente di collegare tutte le materie, o quasi.

Questa cosa è insensata, da due punti di vista, normativo e didattico.

2a – La forzatura dei “materiali”

Dal punto di vista normativo, il fine primario del colloquio non è affatto verificare la capacità di fare collegamenti. Il fine primario è verificare le competenze, cioè la capacità di applicare le conoscenze delle singole discipline in contesti specifici. Questo è lo scopo fondamentale a cui deve mirare la didattica. Per questo si deve partire da “materiali”: per verificare le competenze non bisogna “fare la domandina”, ma sottoporre al candidato un documento da interpretare, usando le proprie conoscenze. Ecco perché la riduzione dei materiali a uno solo è una forzatura gravissima: non è possibile che un solo materiale possa mettere in gioco tutte le competenze di un percorso che è formato da diverse discipline. Diversi materiali, invece, permetterebbero di mettere in gioco diverse competenze disciplinari. Nella norma, il riferimento alla “capacità di […] di collegarle [=le discipline] per argomentare in maniera critica e personale” è subordinata a quella di “utilizzare le conoscenze acquisite”, cioè alle competenze. Inoltre, se si deve argomentare in maniera critica, i collegamenti devono essere sensati, non forzati e artificiosi. E l’unico modo per farlo è che i materiali di partenza siano diversi e, soprattutto, che tutti i commissari proseguano la loro parte di colloquio sempre con lo stesso metodo: sottoponendo dei materiali al candidato. Invece, dopo il documento iniziale, il candidato ripete a pappardella parti imparate dai manuali e i commissari fanno domande che servono solo ad avere questo tipo di risposta. Il tutto in un contesto di collegamenti artificiosi. Il peggio del nuovo unito al peggio del vecchio.

2b – Il rischio della superficialità e dell’improvvisazione

Questo ci porta all’aspetto didattico. La norma chiede di “verificare l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline”. Dato questo presupposto, quello che conta, didatticamente, è che gli studenti abbiano acquisito i fondamentali delle diverse discipline, in termini di competenze. Questo è già un obbiettivo molto alto, molto difficile da raggiungere. Invece l’idea dei collegamenti “interdisciplinari” porta con sé inevitabilmente superficialità e approssimazione. Perché parte dall’idea che se conosci, in termini generali, due argomenti, li puoi collegare. Non è così. Se conosci a fondo un argomento, sai che non è isolabile, e che ha un contesto, afferente anche ad altre discipline, che lo rende comprensibile. Ma se conosci superficialmente due argomenti e li colleghi non stai acquisendo conoscenza e competenza, stai solo facendo chiacchiere da dopo cena. Ed è quello che succede in questi orali: si passa di palo in frasca, o sulla base di vieti luoghi comuni della scuola o della “cultura media” (tipo “Svevo-Freud”, o “Leopardi-Schopenhauer” ecc.), oppure sulla base di legami improbabili, basati solo su una parola o una suggestione (tipo “dalla luce nella fotosintesi alla luce negli impressionisti”). Tutto questo è il contrario della formazione culturale di una persona: è un cascame di approssimazione e sciatteria. Va spazzato via al più presto, prima che prenda piede.

Per salvare il colloquio

Concludo quindi con un appello a tutti i docenti, dirigenti scolastici, dirigenti tecnici, esperti di scuola e persone colte attente alla scuola che leggono questa rivista: cerchiamo di unire le nostre migliori forze per riflettere su questo nuovo colloquio, per correggerlo e farlo funzionare al meglio prima che diventi, nei prossimi anni, una farsa insensata. Facciamo da settembre un tavolo di lavoro che proponga degli aggiustamenti interpretativi in modo da ricondurre il colloquio al suo vero intento, la verifica delle competenze, e di sottrarlo al gioco suicida dei “collegamenti”.