La DAD e le ordinanze regionali: i limiti del potere

Esame della giurisprudenza

In questi lunghi mesi di emergenza sanitaria i Comuni e le Regioni sono intervenuti, con ordinanze di necessità e urgenza, per disporre misure di prevenzione. Facciamo l’esempio della didattica a distanza anche quando i DPCM la prevedevano in presenza.  Tali misure hanno un impatto sul diritto all’istruzione e pongono diversi quesiti sui limiti stessi di questo potere, specie in un settore, come quello dell’istruzione, che, al pari della salute, è costituzionalmente garantito e richiede, pertanto, l’esercizio di un sapiente bilanciamento.

Il potere extra ordinem

Come noto, tali ordinanze sono espressione di un potere amministrativo extra ordinem, utilizzabile per fronteggiare casi eccezionali ed imprevedibili di pericolo di grave lesione a preminenti interessi generali di rilevanza costituzionale.

La giurisprudenza è costante nell’affermare che «trattandosi di manifestazione di un potere residuale e atipico, a rischio di frizione con il principio di legalità dell’azione amministrativa, il suo esercizio legittimo è condizionato dall’esistenza dei presupposti tassativi, di stretta interpretazione, di pericolo per l’igiene, la sanità [], pericolo che deve essere peraltro dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili» (tra le altre, Cons. Stato  n. 868/2010 e n. 904/2012).

Requisiti di legittimità

La giurisprudenza costituzionale (ex multis, sent. 127/1995 e sent. 284/2006) ha individuato alcuni requisiti di legittimità: il rispetto dei principi generali dell’ordinamento, la temporaneità della misura adottata, la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente non altrimenti fronteggiabile, la proporzionalità.

A ciò deve aggiungersi il limite “formale” rappresentato dalla necessaria motivazione e da un’adeguata istruttoria.

Poiché in questi mesi i presidenti di Regione non hanno lesinato misure di prevenzione della diffusione del virus diverse da quelle disposte a livello nazionale, utilizzando, appunto, lo strumento dell’ordinanza, è nato un contenzioso davanti al giudice amministrativo, talora promosso dal Governo e sovente da cittadini, contro i provvedimenti volti a disporre la sospensione delle lezioni in presenza.

Alla luce delle diverse pronunce dei TAR, si possono ricavare tre ordini di questioni.

Il potere alle regioni

In materia di igiene e sanità pubblica, l’articolo 32 della legge 833/1978[1], istitutiva del sistema sanitario nazionale, è la fonte che legittima il potere di sindaci e presidenti di Regione, di emanare ordinanze contingibili ed urgenti. Esse hanno, ovviamente, un effetto limitato al territorio amministrato.

Dette ordinanze sono considerate atti amministrativi generali, soggetti al vaglio di legittimità della giustizia amministrativa e quindi annullabili in caso di ricorrenza di uno dei classici vizi di legittimità: incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere.

Con specifico riferimento alle strategie di contrasto della pandemia Covid-19, il potere di ordinanza di sindaci e presidenti di Regione è stato definito in tre successivi atti normativi.

Adottare misure in caso di necessità (DL 23 febbraio 2020, n. 6)

Nella fase iniziale dell’emergenza sanitaria, è intervenuto il Decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6  che, innanzitutto, individuava un elenco di misure finalizzate al contrasto delle diffusione del virus, adottabili attraverso i DPCM, consentendo (art. 2) “alle autorità competenti” (tra le quali sono da annoverare, appunto, i presidenti delle regioni) di assumere ulteriori misure, con la precisazione, contenuta nell’art. 3, che esse potevano adottarsi «nei casi di estrema necessità ed urgenza» e «nelle more dell’adozione dei decreti del presidente del consiglio dei ministri».

Questo spazio d’azione veniva prontamente colto da diversi “governatori”, in primis dal presidente della Campania. E dal proliferare di ordinanze creative e restrittive nasceva quindi un contenzioso tra governo centrale e regioni.

Efficacia temporale (DL 25 marzo 2020, n. 19)

Si è giunti così all’abrogazione della norma ed alla sua sostituzione con il Decreto legge 25 marzo 2020 n. 19 che, all’art. 3, prevede una restrizione del potere dei presidenti di regione, disponendosi che: «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 2, comma 1, e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive rispetto a quelle attualmente vigenti… esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza».

La restrizione, rispetto alla precedente norma abrogata, risulta in particolare dalla necessità della sussistenza di un nuovo requisito, rappresentato dall’esistenza di “situazioni sopravvenute” di aggravamento del rischio, nonché dalla specificazione che l’efficacia temporale dell’ordinanza cessa al momento dell’adozione di un successivo DPCM.

Rimodulazione dei poteri regionali (DL 16 maggio 2020, n. 33)

Ulteriore modifica normativa è intervenuta nel mese di maggio, cioè nel momento in cui si stava oramai concludendo la prima fase pandemica: il Decreto legge 16 maggio 2020, n. 33 (convertito, con modifiche, in legge 14 luglio 2020 n. 74), all’art. 1, comma 16, prevede che «per garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, le regioni monitorano con cadenza giornaliera l’andamento della situazione epidemiologica nei propri territori» e, in relazione all’andamento della situazione epidemiologica sul territorio, possono «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (…) informando contestualmente il Ministro della salute, introdurre misure derogatorie restrittive rispetto a quelle disposte ai sensi del medesimo articolo 2, ovvero, nei soli casi e nel rispetto dei criteri previsti dai citati decreti e d’intesa con il Ministro della salute, anche ampliative».

Come si vede una norma leggermente ampliativa di quella prevista dal DL precedente (19/2020) e peraltro con la stessa convivente.

Coordinamento delle fonti (legge 25 settembre 2020, n. 124)

La contemporanea vigenza di questi testi ha ovviamente posto un problema interpretativo che il legislatore ha tentato di risolvere con la legge 25 settembre 2020, n. 124 introducendo l’articolo 1bis nel Decreto legge 20 luglio 2020, n. 83. Tale articolo prevede un coordinamento tra le due fonti normative, nel senso che le disposizioni del DL 19/2020 «si applicano nei limiti della loro compatibilità» con il DL 33/2020.

A proposito di questo complesso sistema regolatorio, si è parlato di un «modello di intervento normativo “a ventaglio” ove Stato e Regioni alternativamente assumono le proprie iniziative (rispettivamente, con DPCM e ordinanze regionali) sulla base di un meccanismo per così dire “a doppia cedevolezza” (…) ossia dal basso verso l’alto, allorché siano le regioni a disciplinare taluni ambiti in attesa di eventuali interventi governativi; dall’alto verso il basso, allorché sia il governo a prevedere che talune misure dal medesimo stabilite possano formare oggetto di ulteriori deroghe in peius o in melius, sulla base dei dati epidemiologici disponibili anche su base territoriale… » (cfr. TAR Lazio – Roma – sent. 29 ottobre 2020 n. 11096).

Interpretazione controversa della locuzione “nelle more”

Uno degli aspetti più problematici è l’interpretazione della locuzione “nelle more”, che parrebbe ragionevole intendere nell’usuale significato che esso assume nel linguaggio giuridico, quindi come facente riferimento al tempo che precede l’emanazione del DPCM.

Da questa opinione, certamente prevalente in giurisprudenza, si discosta tuttavia il TAR Lombardia (MI) decreto 13 gennaio 2021, n. 32[2], secondo cui, in sostanza, lo spazio per l’esercizio del potere d’ordinanza regionale sarebbe limitato al solo momento in cui, cessata l’efficacia di un DPCM, non è ancora stato adottato il successivo.

Come si diceva, questa non è, tuttavia, l’opinione prevalente, non solo da parte degli altri TAR, ma neppure dal Consiglio di Stato: si veda Cons. St., dec. 6453 del 10 novembre 2020: «non è in discussione, in presenza di istruttoria conforme ai principi di attualità e completezza, il potere di ciascun presidente regionale di adottare provvedimenti più restrittivi rispetto a quanto il DPCM prevede per la “zona di rischio” in cui la Regione è inserita». Ed anche Cons. St., dec. 749 del 15 febbraio 2021, allorché afferma, senza però chiarire espressamente i limiti temporali, che «è consentita l’adozione di misure regionali più restrittive di quelle statali (art. 1 co. 16 DL 33/20) allorché ciò sia coerente con i dati scientifici raccolti nel monitoraggio quotidiano della situazione di contagio».

In sintesi: il potere dei presidenti di regione

Concludendo si può dunque affermare che il potere dei presidenti di regione possa esercitarsi nei «casi in cui sia necessaria una risposta urgente a specifiche situazioni che interessino il territorio regionale, situazioni che per l’evolversi del virus non siano state già apprezzate ed amministrate dall’Autorità governativa e con limitazione di efficacia temporale di tali interventi sino alla adozione del successivo DCPM» (TAR Calabria, dec. 324 del 16 febbraio 2021).

Adeguatezza della motivazione dell’intervento regionale

Stante quanto affermato in precedenza, il primo aspetto, in ordine logico, che deve essere chiarito nella motivazione del provvedimento regionale, è quindi quello costituito dalla necessità ed urgenza della misura adottata, dando conto di quelle specifiche situazioni sopravvenute rispetto al DPCM vigente, di aggravamento del rischio sanitario nel territorio regionale che, ad un tempo, legittimano l’intervento in termini più restrittivi del quadro statale e ne condizionano l’esercizio.

Tutti i decreti cautelari emessi dai TAR in questi mesi si soffermano sul requisito della motivazione, sottolineando come la giuridica possibilità di adottare ordinanze d’urgenza non può prescindere «dall’acquisizione di dati attuali, pertinenti e rilevanti, sotto il profilo della “quantificazione” del contagio e dell’idoneità delle misure individuate; dalla valutazione di tendenziale completezza del sofisticato apparato di protezione apprestato, che copre, attualmente, pressoché tutte le attività umane; dall’esplicita individuazione di livelli non riducibili di protezione di interessi confliggenti» (TAR Campania 20 gennaio 2021, dec. n. 142).

Appare pertanto necessario riportare puntuali dati epidemiologici riferiti al settore scuola, individuare «fatti, circostanze ed elementi di giudizio che indurrebbero ad un giudizio prognostico circa un più probabile che non incremento del contagio riferibile all’attività scolastica in presenza» (TAR Emilia-Romagna, BO, 15 gennaio 21, dec. n. 30). L’eventuale misura regionale più restrittiva, dunque, dovrebbe «essere motivata con dati scientifici evidenzianti il collegamento tra focolai attivi sul territorio e impatto della attività scolastica in presenza» (Cons. St., 11 gennaio 2021, dec. n. 11).

Ed ovviamente occorre che la motivazione sia logica e tale non è se vi è, ad esempio, un’incongruenza tra la premessa e la conclusione[3].

Proporzionalità e principio di precauzione

Ultimo aspetto problematico è quello della proporzionalità di una misura che, seppur volta a tutelare la salute, comprime però in qualche misura il diritto all’istruzione.

Il principio di proporzionalità costituisce un canone fondamentale dell’agire pubblico al fine di assicurare il rispetto del principio di legalità e di corretto perseguimento del pubblico interesse.

Come osservato da Negrelli[4] «esso si declina in due sottoprincipi: anzitutto, come metro di valutazione dell’adeguatezza della misura rispetto all’interesse pubblico perseguito dall’Amministrazione; in secondo luogo, come criterio per graduare il sacrificio degli interessi privati a fronte dell’interesse pubblico primario».

Nella fattispecie in esame, la ricerca della soluzione idonea ed adeguata, comportante il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti, deve confrontarsi col tema del bilanciamento di diversi diritti costituzionalmente protetti.

Bilanciamento tra principi e diritti fondamentali

È noto che il diritto alla salute – unico ad essere dichiarato anche interesse della collettività – può considerarsi al vertice della scala dei valori costituzionali, ma, come chiarito dalla Corte Costituzionale, l’essere il diritto alla salute primario non significa che abbia “carattere preminente” rispetto a tutti i diritti della persona, ma solo che la salute non possa essere sacrificata ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati. Infatti «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri (…) Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Ne consegue «un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi ed il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati» (Corte Cost. n. 63 del 2016, n. 85 del 2013, n. 264 del 2012).

Ultima ratio quella della chiusura delle scuole

Dunque, ricorda TAR Calabria, dec. 324 del 16.02.21, «nel conflitto tra i diritti alla salute ed all’istruzione l’esito non è di necessaria ed automatica soccombenza dell’istruzione a danno della salute, ma in primo luogo di bilanciamento con praticabilità di adozione di misure di contemperamento e solo a fronte di impossibilità di tale “mediazione” la soccombenza del diritto all’istruzione (in presenza) è ammissibile».

E poiché il bilanciamento tra diritti ed interessi contrapposti è già operato a livello statale, sulla base dell’analisi combinata di più elementi, e l’amministrazione regionale – come ricorda TAR Emilia-Romagna (dec. n. 30 del 15 gennaio 2021) – ha anche altri strumenti di intervento, potendo agire sia sul trasporto pubblico locale che sulla diversificazione degli orari di ingresso a scuola, al fine di evitare assembramenti, un provvedimento “radicale” come il divieto di frequentare in presenza appare irragionevole e sproporzionato se adottato per fronteggiare un rischio solo probabile ed affrontabile anche con altre misure.

Interventi di precauzione su dati affidabili

Neppure l’avanzamento della soglia di tutela, riconosciuto al diritto alla salute tramite il principio di precauzione (art. 191, Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea; art. 301 codice dell’ambiente; art. 107 del Codice del consumo), che consente l’intervento delle Autorità per scongiurare rischi potenziali di danno, può essere invocato oltre ogni limite: l’intervento in precauzione, infatti, deve in ogni caso essere adottato solo all’esito dell’esame dei vantaggi e degli oneri risultanti dall’azione o dall’inazione e deve essere proporzionale e non discriminatorio, oltreché essere frutto di una valutazione completa, condotta alla luce di dati affidabili, che conduca ad un giudizio di stretta necessità della misura (Comunicazione della Commissione Europea del 2 febbraio 2000; Cons. St. sent. 6655/2019).

In sostanza, come ricorda TAR Calabria, sent. 2075/2020, la scelta di perseguire il “rischio zero” per la comunità scolastica, per di più «in esito ad istruttoria sommaria e carente in punto di specifica situazione di rischio – tra l’altro senza accompagnare la scelta a concorrenti misure di restrizione di sorta per le comunità adulte ove il virus circola maggiormente – ha certamente violato il parametro della proporzionalità: la sospensione del servizio scolastico in presenza, il cui rischio risulta già sotto controllo con le misure nazionali in atto, ha leso oltre misura il diritto all’istruzione per i cittadini più giovani arrecando non solo pregiudizio formativo, ma anche psicologico, educativo e di socializzazione (v. i rischi evidenziati dalla Società Italiana Pediatri) essendo la loro personalità in via di costruzione, costruzione che la Costituzione vuole avvenga anche ed obbligatoriamente nella “formazione sociale” della Scuola».

La leale collaborazione

Le tematiche affrontate valgono anche per i provvedimenti amministrativi generali assunti dallo stesso governo centrale[5].

Conclusivamente, alla luce di quanto sopra, si può quindi affermare che a sindaci e presidenti di Regione è richiesto di esercitare il potere d’ordinanza in modo non bulimico né volto a contraddire la norma nazionale in conseguenza di un diverso apprezzamento del bene pubblico tutelato. Ciò vale a maggior ragione nel caso in cui le misure adottate incidono sulla fruizione del servizio istruzione e quindi di un diritto costituzionale fondamentale tanto per i singoli cittadini quanto per la collettività. Occorre che tali autorità sappiano interpretare il proprio potere col modulo della leale collaborazione anziché con quello della competizione.


[1] «Il Ministro della Sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni…. Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprende più comuni e al territorio comunale…».

[2] Chiamato a pronunciarsi su un’ordinanza regionale emessa l’8 gennaio, il TAR fa il punto delle disposizioni vigenti (il DPCM del 3.12.20 e il DL n. 1 del 5.01.21) per poi affermare che «sino al 15 gennaio 2021, data di cessazione dell’efficacia del DPCM 3 dicembre 2020, non c’è spazio per una competenza regionale diretta ad introdurre misure più restrittive, perché i già richiamati DL n. 19/20 e n. 33/20 delimitano temporalmente tale competenza, escludendola una volta entrati in vigore i DPCM previsti dai medesimi decreti legge», precisando ulteriormente che «dal 7 gennaio al 10 gennaio 2021 la didattica trova disciplina nel DPCM 3.12.20 (che la prescriveva in presenza per il 75% degli studenti); dall’11 al 16 gennaio 2021 la didattica è disciplinata dal DL n. 1/21 (che impone di garantire l’attività in presenza almeno al 50% della popolazione studentesca); solo per il periodo successivo al 15 gennaio, essendo cessata l’efficacia del DPCM 3.12.20 e trattandosi di un periodo non disciplinato dal DL 1/21, trova nuovamente applicazione il meccanismo introdotto dai DL n. 19/20 e n. 33/20, in forza del quale, nelle more dell’adozione di un nuovo DPCM, si riattiva la competenza regionale per l’adozione di misure più restrittive».

[3] Affetta da illogicità, ad esempio, è stata considerata l’ordinanza del 20.02.21 del presidente della regione Puglia che vieta la didattica in presenza superiore al 50% sino al 5 marzo (quando, invece, il DPCM del 14.01.21 la prevede per un minimo del 50% e sino ad un massimo del 75% degli studenti) al fine di consentire la “attuazione del piano vaccinale degli operatori scolastici”. In proposito TAR Bari, dec. 77 del 24.02.21, rileva che per consentire la vaccinazione di tutto il personale scolastico «il provvedimento regionale dovrebbe avere una durata di efficacia molto più lunga; ciò ne evidenzia il difetto motivazionale o l’incongruenza tra la premessa e la conclusione, riverberandosi in un vizio logico-argomentativo ovvero in una carenza attitudinale della misura rispetto all’obiettivo perseguito».

[4] Annalisa Negrelli – Il limite dei principi generali al potere di ordinanza di necessità e urgenza nella giurisprudenza italiana – Foro amm. TAR, fasc. 9, 2012.

[5] Infatti la recentissima ordinanza del TAR Lazio (ord. n. 1224 del 26.02.21) dichiara l’illegittimità, per difetto di istruttoria e di motivazione, del DPCM del 14 gennaio 2021, in ordine alla previsione della didattica a distanza ivi contenuta, in quanto «non supportata da un’analisi dei rilievi epidemiologici orientata a stabilire, specificamente, il ruolo della riapertura delle scuole nella diffusione del contagio all’interno ed all’esterno dei plessi scolastici, né da un ‘indagine finalizzata a verificare se sia possibile implementare misure contingenti straordinarie finalizzate a garantire a tutti gli studenti la frequenza in presenza dell’intero monte ore settimanale». La previsione non viene tuttavia sospesa perché il TAR non ravvisa gli estremi del periculum in mora stante l’imminente perdita di efficacia (5 marzo) del DPCM impugnato.