Essere “Maestri di scuola”

La diversità tra docenti è il primo fattore di disuguaglianza

La scuola è una comunità molto articolata, perché tutto funzioni è necessario che gli elementi che ne fanno parte siano ben coordinati tra loro, che ci sia coerenza tra tutte le azioni poste in essere, che siano chiari ed esplicitati gli scopi da raggiungere e che si sappiano utilizzare in maniera efficace le risorse disponibili.

Sono le persone che cambiano il mondo

Per queste ragioni si ha bisogno:

  • di un dirigente che sappia utilizzare bene tutti i suoi poteri e ne sappia rispondere responsabilmente;
  • di insegnanti che, oltre ad essere competenti, siano capaci di stare dentro i processi svolgendo anche funzioni diverse;
  • di un personale amministrativo preparato, ma anche tecnico e ausiliario, che sappia condividere le scelte volte a migliorare la qualità dell’offerta formative delle scuole.

“Colui che è maestro di scuola può cambiare la faccia del mondo”. E per “Maestro di scuola” intendiamo tutte le persone che si occupano di educazione (direttamente o indirettamente). È un principio questo radicato nella nostra storia e nella nostra cultura, se già a partire dal diciassettesimo secolo, ce lo ricordava il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz.

Oggi questo monito, tradotto in “scuola come bene comune”, viene rilanciato nei principali documenti istituzionali e trasformato anche in risorse per migliorare le competenze dei docenti attraverso la formazione. In tal modo: il “diritto allo studio” va considerato al pari del “diritto alla salute”; la scuola come motore per il Paese; la formazione di tutti come principio costituzionale e come leva strategica per incrementare gli apprendimenti degli studenti.

Dobbiamo tuttavia ricordare che non è l’educazione in sé che migliora il Paese, ma, come era solito ripetere Paulo Freire, l’educazione cambia le persone: sono le persone che “cambiano il mondo” (…) “Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme con la mediazione del mondo”.

La scuola ha bisogno di buoni docenti

In un libro ancora recente, Mario G. Dutto[1] disegna in maniera magistrale il profilo del docente di qualità. L’autore mette in evidenza che le radici di un buon insegnante non risiedono solo nel sapere teorico, ma anche nel sapere pratico, che non è un sapere minore, ma un insieme di conoscenze, abilità e capacità, costruite nel tempo, condivise con i colleghi e alimentate continuamente dal dialogo professionale. I buoni docenti sono quelli che migliorano le scuole perché riescono a creare interesse, a far crescere la motivazione, ad aiutare a costruire senso e responsabilità. Sono quelli che lo sanno fare perché sono competenti e appassionati, perché conoscono le strategie, ma anche perché sono rispettosi degli studenti.

Sono i buoni docenti, dunque, a fare la differenza tra una classe e l’altra, tra un’istituzione e l’altra. Questa diversità è il primo fattore di disuguaglianze, soprattutto per alunni e studenti deboli, che non possono beneficiare di altri aiuti e che avrebbero bisogno di essere sostenuti maggiormente.

Sarebbe una scuola ideale, tuttavia, quella formata da sole persone competenti, colte, con le qualifiche giuste. Il fabbisogno di insegnanti è talmente elevato che non ci si può aspettare che tutti coloro che insegnano siano all’altezza del compito. Basta pensare al dramma del precariato, alla patologia del sostegno, al problema della mobilità Nord-Sud.

Ma il nostro sistema non sì può rassegnare di fronte a questo stato di cose e ritenerlo inevitabile. È necessario trovare strategie e correttivi adeguati proprio attraverso la formazione, la valorizzazione del lavoro, la responsabilizzazione del personale, ma anche attraverso azioni sistematiche di monitoraggio, riorientamento e rendicontazione.

La cura del capitale professionale

La cura professionale è parte integrante della deontologia di tutti i lavoratori e in particolare delle professioni “etiche”. È anche la prima indicazione di responsabilità che ritroviamo nel profilo docente a partire dal testo unico (1994), reiterata poi nei contratti, nei documenti culturali, ma soprattutto nei testi normativi.

Non si tratta però solo di un impegno personale e solitario del docente responsabile. È il sistema nazionale che deve garantire la cura del capitale professionale. Lo deve fare attraverso scelte coerenti e strategicamente corrette. Lo deve fare personalizzando le offerte formative perché non tutti i docenti sono uguali, non tutti hanno le stesse motivazioni o aspirazioni, non tutti hanno la medesima preparazione iniziale. Lo deve fare incentivando le diverse figure professionali che da sempre accompagnano lo sviluppo della scuola non solo in classe, ma anche nell’organizzazione e nella gestione.

Servono sicuramente bravi insegnanti di latino, di matematica, di scienze…, ma anche docenti che si mettano in gioco per aiutare i colleghi, per pianificare le attività, per coordinare gruppi di progetto. Le professionalità, perché siano tutte riconosciute, devono essere messe nelle condizioni di operare in maniera trasparente e documentata, soprattutto devono essere formate nella maniera più adeguata.

Non basta poter contare su maggiori risorse economiche

Anche la legge 107/2015 aveva ribadito che uno degli obiettivi primari, di ogni politica innovativa di governo, è quello di sostenere tutti gli operatori della scuola nei rispettivi processi di sviluppo. Tuttavia tali dichiarazioni, pur accompagnate da notevoli risorse dedicate, sono state molto timide nell’individuare una via legislativa per affrontare i problemi irrisolti (obbligatorietà effettiva della formazione, valorizzazione effettiva delle diverse figure professionali, crediti formativi chiari e condivisi…).

Anche a fronte di tali lacune, il dirigente scolastico, che ha la responsabilità della governance interna, deve comunque mettere i docenti nelle condizioni di lavorare meglio. Questo è possibile quando si riesce a dare risposte efficaci alle richieste di aiuto esplicite e quando si è anche in grado di leggere quelle implicite. Diverse possono essere le strategie di supporto alle esigenze dei docenti. In alcuni casi possono essere particolarmente proficui semplici scambi fra colleghi. È necessario però che tali scambi non siano solo fortuiti e sporadici.

Una comunità di pratiche ben organizzata

Ci sono, in ogni realtà scolastica, insegnanti che hanno particolari conoscenze tecniche e un buon expertise. Bisogna fare in modo che tali risorse possano ricadere su altri docenti. Lo scambio è il primo passo per la costruzione di una “comunità di pratiche”. Ma perché ciò si realizzi lo scambio deve diventare sistematico, deve confluire nelle strategie organizzative della scuola, far parte del piano annuale/pluriennale della formazione. Non basta, quindi, la sola disponibilità di alcuni docenti a supportare altri colleghi meno esperti spiegando e mostrando come si può operare in una certa situazione, non bastano le buone indicazioni. Sarebbe utile che tale disponibilità si possa trasformare in un modello progettato e pianificato, quindi riconosciuto e condiviso, soprattutto monitorato nei processi e negli esiti.

Una formazione digitale su misura

Tutti sicuramente hanno bisogno di formazione digitale, ma non tutti ne hanno bisogno alla stessa maniera. C’è una progressione dell’acquisizione di competenze necessarie per una buona didattica digitale. La sigla SAMR sta ad intendere i passaggi graduali e progressivi con i termini: “Sostituzione”, “Ampliamento”, “Modificazione”, “Ridefinizione”.

  • Sostituzione: è quando la tecnologia è utilizzata come uno strumento alternativo a quelli tradizionali per svolgere un compito, non vi è un reale cambiamento. Per esempio: anziché scrivere a mano gli studenti utilizzano una app per scrivere una relazione.
  • Ampliamento: qui la tecnologia è utilizzata ancora come sostitutiva delle metodologie tradizionali, offre però miglioramenti rispetto alle modalità di esecuzione del compito. Per esempio si utilizza una applicazione per la scrittura digitale sfruttandone le funzionalità (inserimento immagini, controllo ortografico, layout pagina, ipertestualità, etc.) con risultati non ottenibili con la scrittura su carta.
  • Modificazione: la tecnologia comincia a potenziare insegnamento e apprendimento. I compiti vanno progettati in modo da ottimizzare l’utilizzo. Esempio: applicazione web o mobile e cloud per scrivere in modalità collaborativa. Tale attività consente di commentare in tempo reale il testo, dialogare secondo un approccio peer tutoring.
  • Ridefinizione: la tecnologia determina un netto miglioramento e potenziamento dell’esperienza di apprendimento e risultati migliori. Le attività sono nuove rispetto a quelle tradizionali. Per esempio un documento realizzato collaborativamente viene pubblicato sul web tramite un blog, un sito o altro.

Anche i percorsi di formazione digitali devono, quindi, rispondere in maniera mirata al bisogno formativo di ciascuno. Il problema più difficile è quello essere in grado di dare ad ogni docente ciò di cui ha veramente bisogno, senza anticipazioni eccessive, ma neanche con offerte che non aggiungono nulla alle competenze già possedute.

Mettere a fuoco le esperienze

Allo stato attuale, possiamo contare sicuramente sui modelli formativi che nel tempo si sono consolidati a livello nazionale, di ambito o anche di istituto. Le note che di anno in anno forniscono le indicazioni operative alle scuole cercano di intercettare le domande che all’inizio di ogni anno scolastico si ripresentano: alcune in continuità con le situazioni usuali della scuola, altre nuove in risposta alle urgenze dei cambiamenti in atto.

Seppure nell’ultimo quinquennio l’impegno sulla formazione sia stato più diffuso, anche grazie alle risorse economiche più consistenti, in realtà sono state lasciate ancora in ombra alcune questioni importanti. Per esempio: il vincolo orario annuale (e quindi l’obbligatorietà effettiva); soprattutto la ricaduta dei corsi di formazione sulla didattica e sugli apprendimenti degli studenti. Non basta raccogliere le così dette “buone pratiche” se prima non si condividono i presupposti fondamentali perché un percorso formativo possa fregiarsi dell’etichetta di “buona pratica”. Non sono sufficienti neanche le ricerche quantitative né tanto meno delegare le scuole ad autovalutare il proprio percorso per metterlo poi a disposizione degli altri. Un risultato utile comporta una ricerca più strutturata e, quindi, più impegnativa che, però, ancora non si intravede tra i tanti cantieri aperti del Quartiere generale.

Ripartire da alcune domande

Bisognerebbe ripartire da alcune domande che da qualche anno gli insegnanti si pongono ogni qualvolta sono chiamati a fare scelte di percorsi formativi o anche obbligate a seguire corsi definiti a livello nazionale o d’Istituto.

  • Sono preferibili percorsi da realizzarsi all’interno della propria istituzione?
  • Sono più funzionali quelli organizzati dalle scuole polo?
  • È importante che ogni insegnante sia libero di scegliere cosa fare, quali percorsi realizzare, perché ognuno conosce bene ciò di cui ha bisogno?
  • Sono invece le scuole che dovrebbero avere la responsabilità di decidere cosa è più utile per gli allievi? Perché è la scuola che, grazie anche al Sistema Nazionale di Valutazione (che quest’anno si è riavviato nel suo ciclo triennale), sa quali sono i loro livelli di competenza e che cosa fare per migliorarli?
  • Nei diversi casi quali sono i punti di forza e di debolezza, quali sono i rischi che si corrono?
  • Ci potrebbero essere sistemi e condizioni per rendere più efficaci le diverse tipologie di percorsi formativi?

Una biografia professionale ancora sommersa

È diffusa e fortemente condivisa l’idea che le competenze di un insegnante non siano sempre leggibili perché esse sono la risultante di un processo di affioramento di comportamenti impliciti e costituiscono la ricostruzione culturale della biografia professionale sommersa (esperienze, motivazioni, interessi, passioni verso nuovi settori). Il lavoro degli insegnanti non può essere riportato al classico ciclo delle performance di un qualunque dipendente. Diventa, per questo, sempre più importante consolidare l’idea della costruzione di un dossier professionale attraverso cui facilitare l’elaborazione di un bilancio critico delle proprie competenze, valutare anche la coerenza tra le proprie idee sul fare scuola e le pratiche didattiche che, di fatto, si realizzano in classe.

Verso la cultura degli standard

Da qui l’importanza di entrare nel merito della cultura degli standard. Il nostro sistema nazionale, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, ha provato ad abbozzare alcuni importanti tentativi, ha dovuto, però, fare i conti con le storiche ritrosie che da sempre caratterizzano la natura profonda della nostra scuola. Mentre da sempre abbiamo avuto una particolare sensibilità, per esempio, verso la cultura inclusiva, contrariamente abbiamo posto seri ostacoli a far evolvere sia la cultura valutativa sia quella dello sviluppo delle carriere e ancor più quella del riconoscimento della qualità del lavoro attraverso standard, indicatori e descrittori.

Stabilire i punti fondamentali da condividere sulle competenze professionali dei docenti non è sicuramente un’operazione agevole se non ci limitiamo soltanto a definizioni generiche. Si ha bisogno inoltre di una progettazione pluriennale con obiettivi definiti e chiari, di un passaggio a monte sul piano contrattuale per una giusta condivisione con le parti sociali. È pur vero che la formazione rientra tra le materie che attengono a competenze legislative (e così pure l’obbligatorietà di fatto sancita dalla legge 107/2015), ma la formazione va collocata all’interno di un quadro di servizio: e questo attiene alle aree di competenza contrattuale.

Urgenze da prendere subito in considerazione

Se con il prossimo contratto si chiarisce questo passaggio, diventa ineludibile, per far funzionare meglio la scuola, stabilire nuovi standard organizzativi, di funzionamento e di costo che siano adeguati e realisticamente applicabili, ma anche di facilitare il procurement della formazione (bandi, chiamate dirette…) trovando sistemi per garantire, il più possibile, la qualità delle molteplici offerte.

È altrettanto prioritario rivedere i tempi e le procedure di rendicontazione che siano più in sintonia con le esigenze delle scuole (e non solo con le regole amministrative e contabili). Per esempio, la triennalizzazione dei percorsi consentirebbe una maggiore continuità e una rendicontazione reale, contestualmente aiuterebbe anche a fare buone economie.


[1] Cfr. M.G. Dutto. Il dirigente scolastico e la leadership della scuola, Tecnodid, 2019.