Esami di Stato e alternanza

Perché gli studenti scendono in piazza

I giovani, gli studenti che sono tornati in questi giorni a riempire le piazze delle nostre città, quelli del Fridays for Future, quelli che sono entrati inesorabilmente nelle file dei Neet, come pure quelli che, in tutto il mondo, stanno scegliendo la YOLO Economy[1], tutti vanno ascoltati. La scuola deve capire il senso e le ragioni delle loro proteste se vuole migliorare.

Il «che cosa» e il «come» della protesta

Esami di Stato e alternanza scuola-lavoro sono due temi che mettono sul tavolo il rapporto di fiducia e di apprezzamento dell’istituzione scuola e delle istituzioni di governo del Paese. Gli studenti chiedono di chiarire che posto effettivo ricoprano nelle opzioni con cui si sta preparando e realizzando il futuro che li vede necessariamente protagonisti. L’attesa di azioni coerenti con gli obiettivi dichiarati si fa urgente: è un invito esplicito a considerarli attori sociali, interlocutori capaci di confrontarsi.

La scelta di affidare la loro protesta alla piazza e non solo ai social, alla presenza visibile dei corpi e delle voci, è un ulteriore segnale che qualcosa sta cambiando o è già cambiato nella percezione dei giovani di sé stessi e di come rappresentare i propri bisogni. 

Il richiamo all’azione si nutre di competenze cognitive e sociali, che stimolano il dialogo tra pari e con le istituzioni: la scuola non può che esserci.

Questo forse è il messaggio chiave che la scuola si trova ad affrontare e interpretare, a partire da quel passaggio ineludibile sull’ascolto attivo, particolarmente necessario in questa primavera post pandemica, per poter comunicare le risposte con la giusta assertività.

La coesione sociale a rischio

“Un’Italia più giusta e più moderna […] lavora ad abbattere le disuguaglianze territoriali e offre ai suoi giovani percorsi di vita nello studio e nel lavoro per garantire la coesione del nostro popolo”. Così il Presidente Mattarella nel suo recente discorso al Parlamento. 

Il rischio reale è quindi il venir meno progressivo di quella coesione sociale, minata dall’aumento delle diseguaglianze. Un rischio da valutare attentamente, se la scuola è il motore del Paese. E dunque cosa può significare il dare ascolto ai giovani, nel momento in cui esprimono il loro disaccordo su due punti nevralgici delle più recenti riforme scolastiche: aprire un dialogo per ribadire e argomentare le scelte fatte? prefigurare un percorso di miglioramento? ma non è prassi ormai consolidata quella di gestire le modifiche sulla base di riflessioni su dati conoscitivi?

Il punto è che la conoscenza dei dati (ammesso che ci sia) non trasforma automaticamente un atteggiamento oppositivo in un atteggiamento positivo. E questo è vero per entrambe le questioni oggetto di protesta.

La questione degli esami di Stato

Il risultato dell’ascolto è un pensiero valutativo di ciò che sta accadendo, che tenga conto anche della percezione degli studenti sulle situazioni problematiche.

È emblematica la risposta del Ministro “… gli studenti siano tranquilli: agli esami non sarà chiesto loro di fare nulla per cui non siano stati preparati dai loro insegnanti”. Ma gli studenti protestano, perché la reintroduzione delle prove scritte non terrebbe conto della situazione di oggettiva discontinuità nel percorso formativo segnato dalla pandemia, compreso quest’ultimo anno.

È come dire, e tanto scrivono sui loro social, “avete valutato male lo stato dell’arte, non siamo pronti ad affrontare un esame le cui prove sono tarate sul Profilo Educativo Culturale e Professionale dell’indirizzo di studi che abbiamo frequentato per cinque anni, perché gli ultimi anni hanno compromesso la nostra preparazione”. Affermano cioè che i loro risultati di apprendimento non possono essere comparabili a quelli dei compagni maturati negli anni pre pandemia e contestualmente che nelle loro stesse condizioni si sono trovati gli studenti, a cui per due anni scolastici sono stati però riservati esami facilitati.  

Una forma di autobocciatura?

Un’autobocciatura di partenza difficilmente può trasformarsi nella voglia di affrontare una sfida e di misurarsi con tutte le sue conseguenze. Se gli studenti (e a maggior ragione le loro famiglie) hanno questa percezione dello stato dell’arte, molto probabilmente, non hanno sufficientemente ragionato con gli insegnanti del Consiglio di Classe sul senso e il significato degli esami di Stato al termine del percorso scolastico, anche nello scenario dell’apprendimento permanente, né su quali competenze disciplinari e trasversali saranno valutati e sul come saranno valutati. “L’esame  di  Stato  conclusivo  dei  percorsi   di   istruzione secondaria di secondo  grado  verifica  i  livelli  di  apprendimento conseguiti  da  ciascun  candidato  in  relazione  alle   conoscenze, abilità e  competenze  proprie  di  ogni  indirizzo  di  studi,  con riferimento alle Indicazioni nazionali per i licei e alle Linee guida per gli istituti tecnici  e  gli  istituti  professionali,  anche  in funzione orientativa per  il  proseguimento  degli  studi  di  ordine superiore ovvero per l’inserimento nel mondo del lavoro”. È quanto viene ben descritto nell’art. 12 del D.lgs. n. 62/2017.

Per loro non è dunque rassicurante che solo la prima prova scritta sia a carattere nazionale e che la seconda (quella specifica dell’indirizzo di studi) sia predisposta proprio dalla Commissione interna sulla base di quanto hanno appreso nel percorso effettivamente svolto durante l’anno scolastico. E a loro non basta neppure sapere che ci sono Quadri di Riferimento disciplinari, adottati a livello nazionale, che aiutano gli insegnanti a predisporre le prove di verifica non solo per le prove d’esame, ma per le prove dell’intero anno scolastico.

Non trovano conforto neppure nei dati statistici che pure raccontano una storia tutta a loro favore: agli esami di Stato gli studenti vengono ammessi in percentuale superiore al 95%, la quasi totalità (99,8%) si diploma, aumentano anche i diplomati con lode.

I Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO)

L’alternanza scuola lavoro, oggi PCTO, è forse uno dei temi più divisivi, per usare un termine oggi abusato, tra gli insegnanti prima ancora che tra gli studenti e le loro famiglie. La cultura dell’alternanza scuola lavoro non è patrimonio consolidato nella scuola italiana. L’obiettivo primario, favorire l’integrazione nel curricolo delle discipline della cosiddetta area generale con quelle d’indirizzo con la pratica della didattica orientativa, è stato spesso vanificato dalle difficoltà attuative soprattutto nei licei.

Nella sua evoluzione normativa dall’obbligatorietà (legge 107/2015) fino alle Linee Guida per i PCTO (DM n.774/2019) passando per la Carta dei diritti della studentessa e dello studente in alternanza scuola lavoro si sono definiti compiti e responsabilità della scuola e delle aziende/enti accoglienti. Resta comunque il fatto che la materia, là dove si articola e sviluppa in stage, tirocini formativi e apprendistato formativo, assume una complessità tale, che non può coincidere solo nella formazione specifica dei docenti tutor che, come è noto, hanno il compito di collaborare con enti e aziende del territorio nella stesura e nella valutazione del progetto di alternanza. Né tanto meno può esaurirsi in sporadiche iniziative di placement per l’orientamento e il lavoro. 

C’è molto da migliorare

Gli strumenti fin qui disponibili sulla Piattaforma del Ministero dell’istruzione sicuramente non riducono le differenze di opportunità esistenti sull’intero territorio nazionale.  È un vero peccato che non si valorizzino in maniera adeguata le esperienze di alternanza scuola lavoro nelle Aziende Autonome degli Istituti Agrari, nei ristoranti didattici degli Istituti Alberghieri, nei tanti progetti di Service Learning che hanno contribuito notevolmente a fare delle scuole (e degli studenti) un valore aggiunto per i loro territori, e nelle esperienze di alternanza all’estero.

Insomma, ci sono ancora passi da fare sia verso una struttura interistituzionale (MI + MLPS) come richiesto dall’esperienza del VET europeo sia verso la costruzione di PCTO che contribuiscano a realizzare quel costrutto di competenza, delineato nell’EntreComp (Entrepreneurship Competence Framework) e tradotto nel Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità delle Linee Guida per i PCTO del 2019. In altre parole l’alternanza scuola lavoro dovrebbe confermarsi e consolidarsi come un insieme di esperienze capaci di valorizzare quelle “competenze per la vita”, le soft skills di cui i nostri giovani hanno tanto bisogno.

La percezione degli studenti

Non c’è nei nostri studenti, però, la percezione che ci siano stati e ci siano investimenti importanti sulla formazione delle loro capacità di auto orientamento, di orientamento lavorativo o di maturazione di quelle capacità che li proiettano verso la realizzazione dei propri talenti.

Perché?

Se il messaggio che prevale nella protesta è il no allo sfruttamento mascherato, e la morte di un loro coetaneo (non serve precisare che stesse svolgendo uno stage di un percorso di formazione professionale e non un PCTO) è un’occasione in più per far emergere questo stato d’animo, allora indiscutibilmente c’è un deficit comunicativo forte da parte della scuola, forse ancora essa stessa troppo timida nello sviluppare con convinzione un processo di innovazione del curricolo e della didattica. I PCTO sono un’altra cosa, ma non basta dichiararlo per essere creduti.

Fare di più e fare meglio

In entrambe le questioni oggetto della protesta si evidenzia piuttosto un deficit di fiducia, di voglia di ripartire, di ottimismo, di motivazione da parte degli studenti, come se implicitamente si chiedesse alla scuola di metterli in condizione di dirigere positivamente le loro azioni, di fare di più e di fare meglio perché diventino veramente resilienti.

L’assertività delle risposte da dare agli studenti sta proprio in quel di più e in quel meglio. Sono risposte che devono dar contodella coerenza coi valori che sottendono le scelte fatte e da fare, della trasparenza delle valutazioni che producono e accompagnano l’efficacia delle azioni, della sollecitudine e cura per la persona, della presa in carico responsabile del progetto di futuro per le persone e per il Paese.


[1] La Yolo (You Only Live Once) Economy è una scelta di cambiamento per costruire un futuro alla portata delle proprie necessità e desideri. Coinvolge in particolare i Millennial dei giorni nostri, ovvero i nati fra il 1981 e il 1996. Sono quelli che trovano poco soddisfacente lavorare esclusivamente per produrre e consumare e sono alla ricerca di esperienze a cui dare valore. La pandemia globale da Covid-19 ha sicuramente accelerato e supportato questo processo, costringendo le persone a rivalutare le proprie vite, a rivedere carriere e obiettivi da raggiungere.