Il diritto ad essere diversi

Verso una educazione umanitaria

Alla vigilia della celebrazione della Giornata della Memoria ha suscitato profondo sdegno e dolore la vile aggressione di un dodicenne della provincia di Livorno, insultato e colpito da due ragazzine di 15 anni che, dopo averlo percosso e avergli sputato in faccia, nel silenzio e nell’indifferenza di un nugolo di adolescenti spettatori, avrebbero urlato: “Ebreo, muori nel forno”. È così che poi la stessa “espressione”, riportata in un articolo de “Il Giornale”, ha scosso gli animi della Comunità ebraica e suscitato lo sdegno dell’intero Paese.

Un altro episodio di razzismo tra giovanissimi si verificava quasi contestualmente a Firenze.  Anche in questo caso, al centro delle offese un ragazzo tredicenne. Qualche giorno dopo “La Nazione” pubblicava: “Nel mirino dei bulli perché ebreo”.

Il razzismo che ritorna

Episodi come questi, intrisi di odio razziale, rivestono una gravità inaudita e inaccettabile, e sugli ebrei in particolare, giace da sempre una sedimentazione di avversione e un coacervo di pregiudizi millenari. Purtroppo negli ultimi anni, smentendo le previsioni di coloro che lo consideravano un fenomeno ineluttabilmente destinato a scomparire, si è inaspettatamente verificata una nuova ondata antisemita più intensa e pervasiva. Dalla fine della seconda guerra mondiale ha preso forza e vigore una nuova giudeofobia. D’altronde, appartiene alla natura delle cose cheeventi significativi nella storia del mondo si ripresentino anche in futuro, perché il tempo è ciclico e la storia è un’incessante ritualità scandita dal ripetersi di eventi, anche malvagi per mano di individui banalmente comuni per poter compiere il male[1].

La paura del “diverso”

Il reato di ingiurie e lesioni a danno dei due ragazzi toscani è senza dubbio deprecabile, ma ciò che suscita sdegno e sgomento è soprattutto il fatto che ad utilizzare espressioni e insulti razziali siano proprio degli adolescenti. Ciò che ingenera raccapriccio e seria preoccupazione è il comportamento di sfida, arroganza e aggressività che talvolta assumono nei confronti di chi, ai loro occhi, appare diverso per confessione religiosa, etnia, orientamento sessuale, e l’ebraismo ha da sempre rappresentato per l’Occidente la diversità per antonomasia.

Negli ultimi due anni, complici forse anche le restrizioni, gli isolamenti preventivi e le lunghe quarantene determinate dalla perdurante pandemia, abbiamo assistito ad un’escalation di episodi di sfrontatezza, prepotenza e ostilità. Eppure, mai come ora si è parlato così tanto di tolleranza e di uguaglianza. Nonostante i passi compiuti in direzione del superamento di pregiudizi sociali, ingiusti e immotivati, la nostra società manifesta ancora forti tendenze all’esclusione del diverso, e la cronaca recente ne dà conferma.

Il termine “diverso” incarna una connotazione implicitamente ed archetipicamente negativa. L’avversione alla “diversità” affonda le sue radici nell’atavica paura dell’uomo nei confronti di ciò che non conosce e che, sfuggendo al suo controllo, viene percepito come una minaccia alle rassicuranti consuetudini della propria esistenza. Trovare riparo nella stabile uniformità di comportamento e di pensiero lontana da forme di perturbante sconvolgimento, funge come uno straordinario fattore di conforto.

I meccanismi di difesa

Per l’uomo è diverso semplicemente chi la pensa in altro modo, chi ha tradizioni etniche, culturali e religiose non affini o perché presenta peculiarità che si discostano dalla realtà nota. Intimorito da tutto quanto possa mettere a rischio la propria rasserenante quotidianità, l’uomo è istintivamente orientato a rifuggire “da ciò che non conosce”: è una fuga dal disagio e dalla paura. Esplorare l’universo dell’altro, il diverso per eccellenza, incute timore perché obbliga ad un confronto e comporta la messa in discussione del proprio mondo e dei fondamenti della propria identità. È una paura che fa assumere forme difensive come quella di utilizzare scorciatoie o di rifugiarsi negli stereotipi (su cui si fonda il pregiudizio).

I comportamenti umani muovono o da esperienze vissute o da idee scaturite da opinioni già costruite. Non sempre e non tutti sono disposti a utilizzate tempo ed energie per acquisire più informazioni, per approfondire le questioni e per arricchire le idee.

La mente umana attiva meccanismi di difesa simili a quelli che avvengono nel mondo biologico: un corpo estraneo viene espulso perché ritenuto dannoso alla salute. Come il sistema immunitario interviene per proteggere il corpo da eventuali alterazioni patogene, analogamente la persona tratta come evento minaccioso per il proprio equilibrio interno l’individuo percepito come diverso.

Per una “tolleranza autentica”

La tolleranza autentica è traguardo e condizione imprescindibile per la realizzazione di una responsabilità condivisa in grado di nutrire il futuro dell’umanità. La tolleranza autentica si compiace della diversità e se ne arricchisce. La diversità è un valore che s’intreccia con la fraternità e la solidarietà, con l’identità e l’appartenenza, con la comunità e l’educazione.  

Ecco il motivo per cui è proprio dalla scuola che deve partire una profonda e forte sollecitazione verso un’educazione comunitaria rinnovata. Bisogna porre al centro dell’attenzione la condivisione dell’idea che la differenza, l’alterità, la diversità, sono aspetti che caratterizzano il nostro tempo e costituiscono una ricchezza, una risorsa, una potenzialità per tutti.

La scuola, come comunità educante e modello di vita societaria, risulta determinante nella diffusione di un atteggiamento mentale e culturale nuovo. È a scuola che si deve contrastare ogni forma di violenza e di prevaricazione, che si deve educare alla accettazione del diverso e al rispetto della sua dignità. Una comunità autentica deve riuscire a coniugare identità e alterità, uguaglianza e differenza, dialogo tra persone, tra nazioni e tra generazioni, perché il saper vivere insieme agli altri rappresenta, come suggerisce l’indicazione dell’Unesco per il 21° secolo, il livello di competenza più elevato[2]. 

Una scuola di educazione umanitaria

Nella fase storica che stiamo attraversando appare evidente come certe durezze, di cui ultimamente si infittiscono le cronache, lascino trapelare lo scarso valore attribuito oggi alla vita umana. Forse finora la storia ci ha insegnato poco, perché la strada che conduce verso un’umanità pienamente libera sembra ancora lontana.

Per conseguire l’ambizioso obiettivo di un futuro pregno di vera umanità è necessario, quindi, che la scuola s’impegni ad allontanare dal cuore delle giovani generazioni sentimenti come la freddezza dell’indifferenza e la rassegnazione ad un futuro senza orizzonte, a indirizzarli sul sentiero della consapevolezza aiutandoli a superare la molteplicità delle naturali differenze antropologico-culturali. Bisogna avere lo sguardo rivolto ad un’educazione umanitaria integrale che muova da una considerazione unitaria dell’uomo e sappia nutrirsi di trascendenza. È proprio tale connotazione che distingue l’essere umano dagli esseri di altra natura e lo rende persona.  Nell’educazione umanitaria si prova a costruire la risposta sensata alla domanda kantiana: cosa devo fare? come posso guidare la mia azione verso il bene?  La difficile storia del concetto di tolleranza è tutta racchiusa nell’affermazione “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che nella persona di ogni altro uomo, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”[3].

La tutela della dignità umana si traduce nella protezione dall’umiliazione, dall’infamia, dal disprezzo, dalla persecuzione. E la comunità deve farsene carico, in particolare la comunità educante. Alimentando il capitale umano deve favorirne la corresponsabilità relazionale mediante l’ascolto, il dialogo e un alfabeto emotivo che consenta comunicazione autentica e fiducia empatica: sono i presupposti dell’appartenenza e l’antidoto contro la paura del diverso.


[1] H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Bologna, 1963.

[2] Agenda ONU 2030 del 25.09.2015. L’Obiettivo 4 dell’Agenda interessa l’educazione e al comma 4.7 afferma la necessità di “assicurarsi che tutti gli studenti acquisiscano le conoscenze e le competenze necessarie per promuovere…i diritti umani, l’uguaglianza di genere (…) una cultura di pace e di non violenza, la cittadinanza globale e la valorizzazione della diversità culturale”.

[3] Kant: La Fondazione della metafisica dei costumi, 1785.