Parità di genere nella vita scolastica

La difficile strada per superare le stereotipie

La parità di genere, pur rappresentando da tempo un traguardo di primaria importanza a livello internazionale, viene letta e affrontata in modo differente a seconda del contesto sociale, culturale e istituzionale di riferimento. Nei Paesi islamici la supremazia di genere, legittimata dalla frangia ultraconservatrice del clero sciita a guida del Paese dopo le presidenziali del giugno 2021, comporta per le donne sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica, ma anche forme di coercizione e privazione della libertà personale in tutti i contesti di vita, da quella privata a quella pubblica, istruzione compresa.

I diritti e le libertà

Negli ultimi tempi, facendo seguito alle tragiche vicende di Mahsa Amini e di Nasrin Ghadri, molte donne iraniane – inneggiando allo slogan “Donne, vita, libertà” – hanno rotto il velo della paura e innescato una scia di proteste contro il regime jihadista in nome di quell’atavico retaggio antropologico legato alla biologia umana, il sex/gender system [1], su cui si fonda l’oppressione e la subordinazione sociale delle donne.

In Italia sono stati compiuti progressi notevoli sotto il profilo normativo e sociale: la svolta, avvenuta con l’emanazione della Carta costituzionale che all’art. 3 contiene il noto principio di eguaglianza [2], è stata poi avvalorata dalla modifica del diritto di famiglia con la Legge 19 maggio 1975, n. 151 attraverso la quale venne abolita l’autorità del marito nei confronti della moglie.

Gli stereotipi di genere

Perché, allora, nonostante questa occidentalizzazione delle menti e dei costumi, la differenza di genere e le sue implicazioni in ambito sociale, economico, ma soprattutto culturale, sono ancora relativamente poco visibili?

Il genere, che nella prospettiva socioculturale si delinea come una categoria interpretativa della realtà sociale, è divenuta una dimensione così pervasiva nella nostra esistenza che ogni aspetto della vita quotidiana si connota secondo il genere, tanto da ritenere scontato che in natura esistano per davvero un maschile e un femminile: ci sono giochi da maschio e giochi da femmina; ci sono sport, lavori e persino colori adatti all’uno o all’altro genere, come se tale distinzione fosse qualcosa di insito nella natura umana.

Anche nell’ambito dell’istruzione continuano a persistere differenze di genere e ciò emerge chiaramente quando vengono analizzate le tipologie dei corsi di studio a cui si iscrivono i giovani: la vocazione delle ragazze per il settore umanistico e dei ragazzi per quello scientifico è ben lontana dall’essere una predisposizione naturale. Persino negli esiti dei corsi di studio permangono disparità di genere: il successo delle femmine in ambito STEM resta tuttora inferiore rispetto ai maschi.

Istruzione come veicolo per superare il gender gap

L’importanza dell’istruzione come veicolo di sviluppo sociale e crescita economica ha dato l’avvio a numerose indagini sul ruolo dell’educazione della femmina e sui fattori che alimentano il gender gap educativo. È vero che a giustificare le decisioni di un sotto investimento in capitale umano femminile, oltre a fattori di tipo socio-culturale, esistono anche ragioni di ordine familiare (livello di reddito accessibile), ma è dimostrato come la disponibilità di sussidi pubblici integrativi non riesca comunque a smantellare la radicata influenza di stereotipi e ancestrali convenzioni sociali che privilegiano i figli di sesso maschile facilitando una celata e inconsapevole sottomissione della femmina.

Non è un caso che nel 2019 l’emanazione nel contesto educativo della legge che ha reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nell’ambito del più generale tema della cittadinanza (legge 92/2019), abbia riservato attenzione alle questioni di genere: il fatto che l’Italia, in tema di equità di genere, occupi – secondo il Global Gender Gap Index 2022 [3] –  il 63° posto su 146 Paesi censiti e il 25° su 35 Paesi europei, ci fa capire quanto sia urgente innalzare il livello di guardia e trovare soluzioni efficaci che possano far ingresso quanto prima nel mondo della scuola.

I modelli di genere che ancora persistono

Già nella scuola dell’infanzia, bambine e bambini imparano i ruoli e le norme di genere attraverso l’osservazione dei modelli che sfilano attorno a loro e, anche, per le stesse attività proposte dagli educatori. Nelle scuole più tradizionali, i bambini vengono impegnati in occupazioni che richiedono maggior fisicità e dinamismo, mentre le bambine sono incoraggiate a svolgere attività più tranquille che consentano loro di mantenere la postura da ‘brave’ alunne. Anche i giochi, che sono parte integrante del processo di sviluppo identitario, molto spesso rispondono a norme di genere dominanti, nel senso che svolgono una funzione di addestramento a ruoli e modelli sociali che i giochi stessi contribuiscono a rafforzare. A differenza di quelli destinati alle femmine, che ritagliano il loro mondo in piccoli spazi dove si privilegiano canoni prevalentemente estetici, i giochi dei maschi richiedono spazi più ampi per attività fisiche e di movimento.

L’apprendimento dei generi si consolida nel passaggio alla scuola primaria: qui gli stereotipi, che cominciano ad essere assorbiti dagli alunni, li conducono ad una diversa percezione delle proprie attitudini nel momento stesso in cui certe reazioni da parte degli adulti (genitori e insegnanti) esprimono disappunto circa un comportamento che non corrisponde in modo adeguato al proprio genere di appartenenza. È così quando, per esempio, si rimprovera la bambina troppo chiacchierona o quando si stimola il bambino ad essere più espansivo; o quando si mostra disappunto di fronte ad un bambino che piange, mentre si accetta come naturale la bambina che mostra timori e incertezze. Ancora più deleterio à quando si affida al maschietto attività complesse e impegnative mentre e si riserva alle bambine attività più ‘leggere’, che trovano il corrispettivo simbolico in attributi come la delicatezza e la fragilità, culturalmente valorizzati come qualità femminili.

I rischi per l’autostima e per il successo formativo

Questa precoce genderizzazione è come un valico che viene oltrepassato dagli adulti in maniera occulta, inconscia, quasi ovvia. Tanto basta, comunque, per minare l’autostima delle bambine inducendole – in una fascia d’età vulnerabile e facilmente influenzabile – a percepirsi come più ‘deboli’ e a dubitare delle proprie capacità, concorrendo con ciò a frenare lo sviluppo delle loro potenzialità, a soffocare eventuali talenti e a limitare la loro sfera di azione.

Anche nella scuola secondaria, pur ritenendo di rapportarsi con i loro studenti nello stesso modo, gli insegnanti sono più portati a correggere il comportamento turbolento dei maschi di cui però valorizzano l’indipendenza e l’individualità, mentre si aspettano che le femmine, più cooperative e inclini al conformismo, si facciano carico di attività di cura come occuparsi dei compagni in difficoltà o mettere in ordine l’aula. Questa traslazione nelle dinamiche scolastiche degli stereotipi di genere, seppur veicolati da pratiche che sfuggono al controllo e alla coscienza degli adulti, può risultare incisiva a tal punto da determinare persino che chi percepisce di non rientrare nei ruoli socialmente stabiliti si senta emarginato, e può, indirettamente, contribuire ad aumentare l’abbandono scolastico.

L’importanza del lavoro dei docenti

Ed è a questo punto che deve entrare in gioco la scuola, quella stessa scuola che – pur qualificandosi come sede privilegiata per formare menti critiche e libere – rischia inconsapevolmente di inciampare nelle derive di vecchi pregiudizi.

Gli stereotipi di genere, infatti, sono i più difficili da smontare perché ciò implicherebbe la decostruzione di tutto un mondo socialmente incasellato sotto forma di habitus [4]. Ma l’istruzione in sé, pur rappresentando l’unico vero strumento per colmare le disparità di genere, non basta da sola a ridurne il gap, perché è proprio dall’ambito della pratica educativa che occorre prendere le mosse per destrutturare questa atavica disuguaglianza. Demolire gli artifici culturali e le pratiche discriminatorie impone una rivisitazione critica nell’impostare il lavoro dei docenti che sono chiamati a porsi, in modo critico, nei confronti del sapere e ad innovare i modelli di comportamento. Non è facile, anche perché alcuni stereotipi vengono rafforzati dalle informazioni e dalle immagini contenute nei libri di testo: ce ne sono ancora tanti legati ad un modello di relazione tra i sessi che non rispecchia il pluralismo contemporaneo.

Nelle narrazioni dei libri scolastici, per esempio, a uomini e donne protagonisti di importanti eventi storici o scientifici, non è riservata la medesima visibilità: viene esaltato il protagonismo maschile con una percentuale che tocca il 65%, a fronte di un 35% rappresentato dall’evidenza di figure femminili.

I richiami dell’ONU e dell’Europa

Il richiamo ad una revisione dei libri di testo è pervenuto già in passato: il primo appunto è stato mosso nel 1997 dalla Commissione ONU responsabile del monitoraggio della CEDAW che aveva manifestato il suo dissenso verso le scarse iniziative compiute dall’Italia per eliminare gli elementi sessisti dai testi scolastici.

Il secondo campanello d’allarme è squillato nel 2010 a seguito di un Rapporto della Commissione Europea (Gender Differences in Educational Outcomes: Study on the Measures Taken and the Current Situation in Europe) fondato su di uno studio comparato promosso da Eurydice, dal quale emerse che l’Italia rientrava tra quei Paesi (Portogallo, Grecia, Romania, Estonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) “sprovvisti di politiche sostanziali in materia di parità tra i sessi nel campo dell’istruzione”.

Gli interventi istituzionali

Eppure, proprio alla fine degli anni ’90 prese l’avvio il progetto europeo POLITE (acronimo di Pari Opportunità e Libri di Testo), una sorta di codice di autoregolamentazione destinato all’editoria scolastica per non incorrere in discriminazioni di sesso.

Per non parlare, poi, del sessismo linguistico dove l’uso pervasivo del genere grammaticale maschile riflette la persistenza di un pensiero androcentrico che vede gli uomini come sintesi complessiva dei due generi. “Basta con la regola del maschile che prevale sul femminile” esordì nel 2017 il Manifesto pubblicato a Tolosa da oltre 300 docenti.

Tale sfida fu raccolta nel medesimo anno, sia dall’Accademia della Crusca che ai femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero dedicò un volume intitolato Quasi una rivoluzione,sia dal MIUR che nel 2018 emanò le Linee guida per l’uso corretto del genere grammaticale nel linguaggio amministrativo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.


[1] G. Rubin, The Traffic in Women: Notes on the ‘Political Economy’ of Sex, 1975. L’antropologa americana ha formulato per la prima volta il concetto di sex/gender system in termini scientifici.

[2] Costituzione, art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

[3] È un indice tematico sull’uguaglianza di genere, lanciato nel 2013 dall’EIGE (Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere), che monitora le disparità tra uomo e donna nei paesi dell’UE. Nella classifica 2022 l’Italia registra un miglioramento di solo 0,001 punti (il punteggio complessivo raggiunge il valore 0,720 da 0,721 dell’anno precedente) continuando ad occupare la stessa posizione del 2021, dopo Uganda (61°) e Zambia (62°).

[4] P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, 1979. Per habitus Bourdieu intende la chiave della riproduzione culturale in grado di generare comportamenti regolari che condizionano la vita sociale.