Tetto per gli alunni stranieri?

Il nostro modello inclusivo

Dagli inizi degli anni Novanta del Novecento, l’afflusso di studenti con background migratorio è costantemente aumentato nelle nostre classi. Tale incremento ha conosciuto un vero e proprio boom fino al primo decennio del XXI secolo, per poi attestarsi sui livelli attuali che vedono la presenza di alunni non italofoni sfiorare, dalla scuola dell’infanzia all’istruzione di II grado, il numero di circa 900.000. Più precisamente, nell’anno scolastico 2022/2023, risultavano iscritti 870.000 alunni con cittadinanza non italiana, pari al 10,3% del totale.

La decisione del consiglio di istituto dell’I.C. “Iqbal Masih” di Pioltello, alle porte di Milano, di sospendere le lezioni il 10 aprile, nel giorno della fine del Ramadan, ha riaperto nelle forze dell’attuale governo la disputa sulla definizione di una soglia che limiti la presenza degli alunni stranieri in ogni classe. Ricordiamo che la scuola di Pioltello è intitolata a Iqbal Masih, un ragazzino pachistano che denunciò la violenza dello sfruttamento minorile nel suo Paese e che, per questo, nel 1995 fu ucciso all’età di 12 anni.

Ma il tetto esiste già da molti anni

Nel 2010 l’allora Ministra del Miur, Maria Stella Gelmini, emanò nel mese di gennaio la circolare n. 2 (Indicazioni e raccomandazioni per l’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana) nella quale si fissavano criteri organizzativi relativamente alla formazione delle classi. Secondo tali parametri, la presenza di studenti stranieri, di norma, non avrebbe dovuto superare illimite del 30% per classe. Va detto che le criticità sottolineate in quel provvedimento sono tuttora condivisibili. In particolare venivano evidenziate queste problematiche:

  • la significativa incidenza di dispersioni, abbandoni e di ritardi degli allievi stranieri;
  • lo scarso possesso dell’italiano, soprattutto come lingua per lo studio;
  • la necessità di prevedere moduli di apprendimento differenziati soprattutto nelle scuole secondarie di II grado;
  • l’impatto particolarmente complesso di culture eccessivamente diverse dalla cultura italiana.

Però, già allora venivano poste delle eccezioni a tale soglia.

Le deroghe al limite del 30%

Infatti, nella circolare n. 2/2010, considerate le difficoltà applicative della norma, venivano indicate possibili eccezioni al limite del 30%. Si prevedeva, infatti, che il Direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale potesse consentire motivate deroghe a tale soglia in presenza di:

  • alunni stranieri nati in Italia, con un’adeguata competenza della lingua italiana;
  • risorse professionali e strutture di supporto (offerte anche dal privato sociale) in grado di sostenere fattivamente il processo di apprendimento degli alunni stranieri;
  • consolidate esperienze attivate da singole istituzioni scolastiche che abbiano, negli anni trascorsi, ottenuto risultati positivi (documentate, ad esempio, anche dalle rilevazioni Invalsi);
  • ragioni di continuità didattica di classi già composte, come può accadere nel caso degli istituti comprensivi;
  • stati di necessità provocati dall’oggettiva assenza di soluzioni alternative.

Assenza di soluzioni alternative

Nell’ultima deroga indicata nella circolare n. 2/2010 si afferma implicitamente che la definizione di un tetto relativo alla presenza nelle classi di alunni non italofoni risulta inattuabile. Perché?

Primo. In Italia il 70% dei Comuni, esattamente 5.521 su 7.896, ha una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. In queste realtà, la formazione delle classi è inevitabilmente determinata dal numero degli abitanti. Si tratta quasi sempre di mono classi e, nelle aree alpine e appenniniche più elevate, di pluriclassi! Dunque, i criteri relativi alla composizione delle classi sono predeterminati in partenza, indipendentemente dalla presenza di bambini stranieri.

Secondo. Nelle città capoluogo di provincia e nei centri urbani maggiori esistono quartieri che vedono una concentrazione anche molto elevata di famiglie straniere. I motivi di tale fenomeno sono legati alla residenzialità per ragioni di lavoro, di ricongiungimento familiare… Potrà piacere o non piacere, ma questa disomogeneità abitativa è un dato di fatto di tutte le nostre città.

Che fare in queste situazioni? È impensabile trasportare i bambini da zone ad alta intensità di immigrati ad aree di minor presenza. Si pensi solo alle difficoltà legate ai trasporti quotidiani, all’organizzazione di servizi di mensa… Per non parlare dei disagi a cui andrebbero incontro i genitori e gli stessi alunni. 

Dunque, sia nell’un caso che nell’altro, qualsiasi tetto (20%, 30%) risulta impraticabile.

Il nostro modello inclusivo

Occorre non dimenticare che il quadro giuridico del nostro paese prevede che il diritto all’istruzione sia assicurato a tutti, alunni stranieri compresi. Infatti, l’art. 45 del DPR 394/1999 recita: “I minori stranieri presenti sul territorio nazionale hanno diritto all’istruzione indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani. Essi sono soggetti all’obbligo scolastico secondo le disposizioni vigenti in materia. L’iscrizione avviene nelle scuole italiane di ogni ordine e grado nei modi nelle condizioni previsti per i minori italiani. Essa può essere richiesta in qualunque periodo dell’anno scolastico”. Dunque, il diritto all’apprendimento non conosce limitazioni per nessun bambino, qualsiasi sia la sua situazione di provenienza o di appartenenza.

Le azioni necessarie

Preso atto che il modello educativo italiano è implicitamente inclusivo, occorre adottare scelte atte a migliorarlo. La scuola, infatti, come si sottolinea negli Orientamenti interculturali 2022, è strutturalmente cambiata. “Si individua nelle nuove generazioni un atteggiamento diverso dalle generazioni che le avevano precedute, e che potremmo definire proprio dei nativi multiculturali. In situazioni sempre più interconnesse e globali, avere un compagno o una compagna di banco la cui famiglia proviene da contesti diversi non è considerato un problema, né suscita timori o stupore”. La normalità è quella di essere sempre più variegata e multiculturale.

Nelle zone urbane ad alta concentrazione di famiglie immigrate sarebbe necessario ridurre sensibilmente il numero degli alunni per classe, in modo da facilitare interventi realmente personalizzati. In Francia si chiamano Zep (Zone di educazione prioritaria), in Inghilterra Eaz (Zone d’azione educativa): gli istituti che ne fanno parte sono invitati ad adottare progetti di rinforzo dell’educazione Tale determinazione dovrà essere accompagnata da una progettualità molto ravvicinata tra scuola e famiglia: il coinvolgimento dei genitori nelle azioni educative che si intendono attuare in tutti i contesti di vita e di studio è di primaria importanza.

Lingua della comunicazione e lingua dello studio

Sicuramente il problema del deficit linguistico è reale. Va però affrontato adottando strategie di particolare intensità (italiano L2), soprattutto per i bambini neo-arrivati, i quali spesso scontano divari molto elevati.

In questi decenni, dirigenti, insegnanti e amministratori locali hanno messo a punto varie soluzioni (come i protocolli d’accoglienza) prevedendo laboratori per far acquisire la lingua della comunicazione (contestualizzata), in tempi il più possibile veloci. Peraltro tale apprendimento avviene anche attraverso il contatto diretto con i compagni di classe.

Più complesso è il tema della lingua dello studio (decontestualizzata), che riguarda sicuramente gli alunni con background migratorio, ma che comprende anche significative percentuali di studenti italiani. In questo campo, occorre ridurre il lessico specialistico di molte “materie”, che risulta spesso incomprensibile. Di grande utilità è la semplificazione dei testi, soprattutto di quelli relativi a discipline estranee alla cultura di giovani che provengono da determinati Paesi. Si pensi, ad esempio, allo studio del diritto, della filosofia, della storia…

Formazione mirata e laboratori

Le scuole che negli ultimi 20-30 anni hanno sviluppato azioni incisive, in un’ottica strutturale e non emergenziale, si sono fatte carico di un fattore chiave dei processi inclusivi,la formazione del personale docente.

In particolare, per rispondere al gap linguistico tra italiani e stranieri, risulta di estrema importanza la competenza dei docenti nell’organizzazione dei laboratori linguistici; sicuramente, tra le possibili soluzioni, è quella più efficace. In particolare, per i neo-arrivati, questa scelta educativo-didattica consente di conciliare l’accoglienza con un percorso di integrazione, incentrato sull’insegnamento dell’italiano come L2.

Secondo questo modello gli alunni vengono regolarmente inseriti in una classe e seguono con i compagni le discipline che richiedono un minor coinvolgimento linguistico (educazione fisica, musicale, espressiva, informatica…). Con bambini che provengono dall’est europeo o dagli Stati asiatici, anche la matematica richiede un minore coinvolgimento linguistico. Frequentano invece il laboratorio di italiano L2 nelle ore in cui i loro limiti linguistici impedirebbero di partecipare alle lezioni in modo attivo, creando un vissuto di esclusione e di inferiorità.

Il laboratorio, situato fisicamente nella struttura scolastica, diventa in tal modo uno spazio di accoglienza e di sostegno per gli alunni stranieri (ma anche per i ragazzi italiani che possono lavorare fianco a fianco con i neo-compagni).

Una scuola inclusiva presuppone tempi aggiuntivi di lavoro, richiede altresì la presenza di dirigenti e insegnanti ad elevato tasso professionale, qualità educative, tecniche ed organizzative molto raffinate. In una parola, occorrono investimenti, sistematici, continui e mirati!

Dunque, il tema vero è quanto si vuole investire in una scuola realmente inclusiva!  

La vera inclusione di alunni di seconda e terza generazione non può essere collegata a meri parametri numerici. Stupisce che anche autorevoli esponenti politici facciano dichiarazioni, non supportate da alcun dato di realtà. Per molti di loro esiste solo il bicchiere mezzo vuoto. Al contrario, conosciamo sempre più spesso circostanze in cui sono i bambini, cosiddetti stranieri, ad insegnare “l’italiano agli italiani”!