Sulle strade dell’inclusione: quarant’anni dopo la legge 517

Il grande cambio

Come sottolineato nel precedente contributo (Scuola7.it, n. 55), l’inserimento dei bambini “handicappati” nelle classi normali della scuola pubblica, reso obbligatorio dalla legge 517/1977, ha segnato un netto spartiacque nella cultura medica, pedagogica, politica, giuridica, del nostro Paese, avviando una vera e propria rivoluzione che ha interessato tutte le strutture della società italiana.

Il difficile passaggio da una concezione che vedeva nel disabile una persona “minorata” ad un modello culturale incentrato sulla valorizzazione della diversità ha modificato radicalmente orientamenti, atteggiamenti e convinzioni.

Da allora è stato percorso uno straordinario cammino; molta strada però resta ancora da fare. Infatti, come ci insegnano gli storici francesi, la storia delle mentalità appartiene al ciclo della lunga durata: l’abbattimento dei pregiudizi e delle barriere di varia natura è una sfida che ci accompagnerà ancora per tanto tempo.

Oltre l’approccio clinico: ICF

L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità ha eroso il paradigma “normale-anormale”, attraverso il superamento della visione medica tradizionale che si riconosceva unicamente in un modello categoriale. Centrale in tale approccio era la dominanza del deficit rispetto alla complessità del funzionamento della persona. Prevaleva spesso nel campo clinico una concezione fredda, distaccata, addirittura aggressiva e colpevolizzante soprattutto nei confronti della madre. La rigidità dei criteri di classificazione delle patologie lasciava poco spazio ai diritti delle persone handicappate e ai loro contesti di provenienza.

Gradualmente però, soprattutto negli ultimi vent’anni, si sono affermati i principi di una “medicina umanistica” (Alexander Lurija parla di “scienza romantica“), ben rappresentata dal modello ICF (International Classification Functioning) dell’OMS (2001). La salute e il benessere di ogni individuo sono riconducibili, più che ad un’appartenenza nosografica, alla condizione bio-psico-sociale dell’individuo, in cui prevale il costrutto di funzionamento del soggetto in un determinato contesto. Tale istanza viene pienamente recepita nel Decreto legislativo n. 66/2017, attuativo della legge sulla Buona Scuola (107/2015); infatti il protocollo dell’OMS costituisce il riferimento di base della redazione del Profilo di funzionamento dell’alunno con disabilità, che sostituirà sia la diagnosi che il profilo dinamico funzionale.

Quest’ultima scelta conferma che, rispetto alla concezione esclusivamente classificatoria che ha orientato la storia della scienza medica, il nostro Paese ha costruito un patrimonio di valore mondiale finalizzato ad integrare (in parte a superare) un quadro diagnostico prettamente clinico.

Dopo il “ragazzo selvaggio” l’educazione volta pagina

Il prima e il dopo della 517 sono magistralmente rappresentati dal film di F. Truffaut “Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron“. Il protagonista del capolavoro del regista francese, da fenomeno da baraccone che attirava la morbosa curiosità della gente, si trasforma, nel progetto del giovane medico francese Itard, in un impegnativo percorso educativo, rivolto ad un bambino che egli ha cercato in tutti i modi di affrancare da una condizione di “minorità”.

Si tratta di un cambio epistemologico di natura culturale, destinato a rappresentare la bussola di un nuovo modo di intendere l’educazione e il significato delle diversità personali.

Oggi la sfida dell’inclusione si apre a nuovi scenari. Il primo e più importante è quello che fa della sezione e della classe il vero spazio d’integrazione. Non ci stancheremo mai di ribadire che il positivo esito di un progetto personalizzato si costruisce entro le trame dei rapporti tra i compagni di classe, che, prima di essere semplicemente scolari, possono diventare, come ci ha insegnato don Milani, veri e propri maestri negli apprendimenti e nella crescita di un coetaneo in difficoltà.

La famiglia, da vittima a risorsa

L’istituzione che più di altre ha beneficiato della scelta operata dalla 517/1977 è stata senza ombra di dubbio la famiglia. Fino agli anni Settanta essere genitori di un figlio disabile significava vivere una condizione di isolamento e di impotenza, rispetto alle esigenze che tale condizione rappresentava. In molte realtà del nostro Paese bambini e bambine con handicap vivevano “sepolti” nelle case dalla nascita alla morte; prevaleva spesso il senso di vergogna che i genitori provavano nell’”esporre” un figlio che aveva tradito le attese di una nascita. Gli uni e gli altri, come ha scritto Andrea Canevaro, erano condannati a vivere “un tempo monocromatico, colorato di un solo colore, forse grigio, forse nero”.

L’integrazione scolastica di questi figli ha aperto orizzonti inesplorati, entro cui si è affermata una stagione “policromatica” mai conosciuta prima. Le famiglie hanno potuto così organizzarsi, promuovere forme diffuse di associazionismo, far conoscere a tutti esigenze e bisogni particolari, affermare e difendere diritti scritti solo sulla carta e mai rispettati. Mario Tortello e Marisa Pavone, nel libro “Pedagogia dei genitori“, scrivono che la famiglia è oggi riconosciuta come “interlocutore paritetico di tutte le figure professionali che sostengono il processo d’integrazione dei loro figli disabili, che posseggono diverse capacità e non necessariamente solo delle sotto-abilità“. In questa stagione molte madri-coraggio non si sono accontentate di combattere le sorti prestabilite dai medici nelle loro diagnosi. Hanno fatto molto di più, dimostrando il contrario di quelle certezze, scritte spesso su teorie smentite dalla vita reale. È stata anche questa la ragione di tanti successi.

Certo si è trattato molte volte di una corsa ad ostacoli, che ancora oggi si frappongono ad una completa affermazione dei diritti degli alunni in situazione di handicap. Ma quel tempo monocromatico è fortunatamente alle nostre spalle. E se pensiamo a quello che avviene in tanti paesi europei, dobbiamo essere riconoscenti a quel Parlamento che 40 anni fa decise di votare una legge così all’avanguardia, da rappresentare per il mondo intero una pietra miliare dei diritti delle persone più vulnerabili. Altro che “prima Repubblica“!