Competenze vs conoscenze? Impazza un (finto) dibattito

Dalle conoscenze alle competenze: un continuum evolutivo

Il tema delle competenze scolastiche in questi anni ha ricevuto ospitalità in tre settori ben precisi del discorso pubblico: l’editoria scientifica specializzata, la normativa scolastica ed il mondo dei media. La percezione degli insegnanti ha risentito, ma in misura alquanto diversificata, del modo in cui il tema è stato trattato – e tuttora viene trattato – dai tre settori individuati. La brevità dello spazio non permette se non di ricostruire a grandi linee i termini di questo eterno dibattito, cui in realtà soggiace una questione più profonda, che riguarda il modello di società, di cittadinanza e di lavoro.

Occorre subito smascherare una fissità del dibattito che non giova alla sua fruibilità pedagogica. Mi riferisco alla presunta alternativa conoscenze-competenze. Si tratta a mio modo di vedere di un mero alibi dialettico, perché nei fatti non c’è persona di buon senso che non ammetterebbe che conoscere qualcosa e diventarne competenti stanno nello stesso continuum evolutivo. A scuola infatti insegnare e imparare si muovono attorno alle “azioni” del conoscere, del ricordare, del contestualizzare, dello sperimentare, senza che ci sia bisogno di creare costruzioni concettuali artificialmente contrapposte. Al di fuori di una cornice di senso il conoscere, perdonando il gioco di parole, non ha alcun senso. Qualsiasi contenuto culturale o conoscenza che dir si voglia acquista significato nelle menti degli allievi se contiene in sé una promessa di contestualizzazione. È quanto contenuto nelle Indicazioni Nazionali per l’infanzia e il primo ciclo d’istruzione[1]. E qui la norma non presenta equivoci. In accordo con la scienza pedagogica.

A che serve l’istruzione?

Ma perché allora, nonostante la sua inconsistenza epistemologica, questo pseudo-dibattito è così duro a morire? Credo che le ragioni vadano ricercate nella questione ideologica cui ho fatto cenno, che probabilmente soggiace ai pronunciamenti ufficiali.

La domanda di fondo è sempre la stessa: a che serve l’istruzione? A seconda della risposta che si ritiene di dare a questa domanda, è possibile individuare gli schieramenti in campo. Provo a dare tre risposte.

Prima. L’istruzione deve consegnare alle nuove generazioni un sapere disinteressato, che ha come unico scopo la costruzione negli allievi del senso critico indispensabile per esercitare la cittadinanza.

Seconda. L’istruzione deve consegnare alle nuove generazioni un sapere spendibile in un mercato del lavoro in continua evoluzione, che richiede menti flessibili in grado di apprendere lungo tutto l’arco della vita (concetto di capitale umano).

Terza. L’istruzione deve consegnare alle nuove generazioni un sapere capace di costruire negli allievi competenze di ordine culturale che consentano loro di agire la cittadinanza, ed in prospettiva di abitare la realtà lavorativa.

Umanesimo vs aziendalismo?

Come si può vedere, gli schieramenti non sono due ma tre. Se fossero soltanto due il dibattito potrebbe tranquillamente polarizzarsi attorno ai sostenitori delle cosiddette conoscenze (disinteressate) e a quelli delle cosiddette competenze (spendibili). E in questo caso si tratterebbe di un dibattito vero, perché vedrebbe in campo effettivamente due diverse concezioni della società, del cittadino e del lavoro. Umanesimo e aziendalismo si prenderebbero a sciabolate e avrebbero buon gioco i signori Settis, Galimberti, Recalcati, Nussbaum, che rivendicano la gratuità culturale dell’istruzione. Se i loro avversari fossero proprio i sostenitori delle competenze in senso aziendalistico (con un sentore pedagogico comportamentista), non faremmo fatica a schierarci con gli umanisti. Chi vorrebbe dismettere i contenuti culturali del sapere a favore di un metodologismo sterile, tutto infarcito di compiti di realtà e rubriche valutative?[2].

Lo si è detto. È solo ideologia. Si disputa sulle competenze per disputare su altro. E quest’altro è del tutto trasversale ai tradizionali schieramenti politici. Chi può dire che le competenze siano di Destra o di Sinistra?[3] Le politiche scolastiche da tempo non sono più riconducibili alla Destra o alla Sinistra. Dunque cos’è questo altro di cui si discute? È sempre politica, senza dubbio. È visione della società, del cittadino, del lavoro. Ma con la pedagogia e la didattica c’entra ben poco. Perché in pedagogia e didattica il duello tra conoscenze e competenze cessa di esistere.

La riflessione pedagogica

La ricerca pedagogica certamente non nasce quando nasce questo pseudo-dibattito. I grandi della pedagogia italiana ed internazionale non hanno certamente iniziato a pubblicare i loro contributi negli ultimi venticinque anni. Si sono occupati tutti di apprendimento. E sia a rileggerne i contributi, sia a consultarne le bibliografie di riferimento, molto spesso viene da considerare che quelle che chiamiamo oggi competenze in realtà potrebbero provenire da ben più lontano.

E viene da considerare, a volte, che mai come in questo caso nomina non sunt consequentia rerum. Tutti coloro che si dichiarano ostili alla didattica per competenze non faticherebbero nel convenire che nessuna conoscenza può dirsi tale se non acquista significato dal contesto problematico da cui sorge e a cui è destinata, anche intendendo quale “contesto problematico” una questione culturale, un dibattito filosofico, un interrogativo esistenziale.

Contestualizzare le conoscenze

A scuola si studiano in letteratura i poeti stilnovisti. Che vuol dire studiare? Conoscere i soggetti, i luoghi, i tempi, gli oggetti, i processi. Guido Cavalcanti operò nella seconda metà del Duecento a Firenze, componendo testi poetici volti a rappresentare il tormento della passione amorosa. È “studiare”, questo? Senza ombra di dubbio. È l’aspetto conoscitivo dello studio. Si leggono i testi in classe, si interpretano, se ne misura la distanza con la nostra sensibilità, si contestualizzano e si va in cerca di contesti attuali che eventualmente mantengano tracce di quell’esperienza umana e poetica. Se ne discute in classe, si immaginano scenari similari, si prova ad approfondire, ad argomentare. I presunti sostenitori delle conoscenze valutano tutto questo “inutile”? Ritengono di potersi appagare del solo “Guido Cavalcanti operò nella seconda metà del Duecento a Firenze, componendo testi poetici volti a celebrare il tormento della passione amorosa”? Superfluo continuare.

Nel nome delle competenze…

Chi dicesse, come chi qui scrive e alcuni altri[4], che questa res – la rielaborazione e contestualizzazione del sapere – avrebbe il nomen di competenza, si sentirebbe rispondere che, se ci mettiamo d’accordo sul nomen, allora tutti possiamo convenire che non c’è vera conoscenza senza sviluppo di competenze. Ma il nomen è scomodo ed evoca avversari aziendalisti, economicisti, nemici delle humanae litterae. E quindi scatena l’offensiva di tutti i difensori delle sacre lettere, che tutto sommato difendono anch’essi le competenze, ma si guarderebbero bene dal salire sul carro dei nemici, e quindi parlano di senso critico, capacità di interrogarsi, di riflettere, di argomentare. Proprio quel che fa Recalcati nel suo L’ora di lezione (Einaudi, 2014): sostiene le competenze dichiarandosi ostile ad esse. Allo stesso modo Claudio Giunta nel volume già citato in nota: a pag. 46 si parla di didattica per competenze come “delirio pseudopedagogico”, ma alle pagg. 34, 74, 75, 84, 89 il Nostro non si fa scrupolo di chiamare “competenze” tutta una serie di atteggiamenti cognitivi virtuosi dei ragazzi nei confronti del testo e del testo letterario. Come dire che per gli intellettuali italiani le competenze sono necessarie e auspicabili, mentre la “didattica per competenze” è un delirio inventato dai pedagogisti.

Idea di cultura, idea di competenza

Come si può ben vedere, è un dibattito mal posto. Che crea schieramenti fittizi per parlare di altro. Si parli allora di altro e si convenga con Gramsci (quando parlava del sapere enciclopedico) che “questa forma di cultura è veramente dannosa soprattutto per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola a ogni occasione per farne quasi una barriera tra sé e gli altri”[5].  Tornare a Gramsci significa recuperare una certa idea di cultura, che non perde mai i legami con l’esperienza del reale. Definire aziendalista Antonio Gramsci forse sarebbe troppo. Ma è quell’idea di cultura che mi piace assumere nel concetto di competenza.

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[1] DM 254 del 2012.

[2] Una lettura istruttiva su questa battaglia culturale: C. Giunta, E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, Il Mulino, 2017.

[3] Tratto il tema in un contributo reperibile su: http://www.cidi.it/articoli/primo-piano/competenze-destra-sinistra.

[4] Sostenitori delle competenze culturali per la cittadinanza. La prospettiva è ottimamente illustrata da una pubblicazione del CIDI del 2007, curata da Mario Ambel e Domenico Chiesa, “Competenze culturali per la cittadinanza”, ed. CIID.

[5] G. Benedetti – D. Coccoli, Gramsci per la scuola, L’asino d’oro, 2018.