E se fossero le scuole a chiedere più Invalsi?

Il rapporto tra scuole e Invalsi

Questa nota nasce dal confronto tra due convegni recentemente organizzati dal nostro Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Scolastico. Due convegni che mi hanno fatto nascere una domanda fulminante, in questi tempi in cui pare essere messo in discussione il ruolo dell’Istituto almeno come incarnato in questi anni (cfr. Cavadi, Scuola7.it, n. 117).

La domanda è: e se fossero le scuole che cercano i dati Invalsi e li usano, quando ne vedono l’utilità per la loro didattica quotidiana? Non la Commissione europea, non il Ministero, non la Banca d’Italia, non i ricercatori, ma le scuole, quelle vere, quelle in cui viviamo.

Due convegni sulla valutazione di sistema

Il primo convegno si è tenuto a Bari dal 26 al 28 ottobre 2018, con il titolo “I dati Invalsi: uno strumento per la ricerca”. Il secondo convegno si è tenuto a Roma il 14 dicembre 2018  su “OCSE PISA 2015 – Contributi di approfondimento”[1]. Ho avuto la fortuna di presenziare ad entrambi, peraltro molto differenti come numero di contributi: 79 contributi in 23 sessioni spesso in parallelo il primo convegno, una decina di contributi in tre sessioni (più qualche intervento invitato) il secondo convegno.  Già qui una prima differenza; eppure entrambi avevano lo stesso format di presentazione di brevi articoli a tema (15 minuti ciascuno), con lo stesso tipo di call for paper: qualche mese prima chi era interessato a presentare inviava un abstract che veniva valutato da una commissione e, se accettato, entro la data del convegno inviava slide ed articolo completo.

Perché tante adesioni al primo convegno e quasi un decimo al secondo? E mentre ascoltavo le relazioni del secondo convegno, qualcos’altro non mi tornava rispetto alla vitalità del primo: il secondo mi suonava interessante nei temi ma più freddo, come distante.

Rilevazioni di nicchia o rilevazioni censuarie?

Poi ho capito: nel secondo convegno PISA a presentare mancavano la scuole… cioè mancava la vita. Tutti i contributi erano presentati da ricercatori, cioè persone che parlano “delle” scuole. Nel primo convegno sui dati Invalsi, invece, ben 35 contributi, quasi la metà, erano presentati da scuole, o comunque da docenti in Uffici scolastici o associazioni, cioè persone che parlano “nelle” scuole. Con i soli contributi delle scuole presentati al convegno sui dati Invalsi si sarebbero organizzati tre o quattro convegni PISA…

E perché nel secondo convegno non c’erano le scuole? “Elementare, Watson”, direbbe il mio amico Sherlock Holmes: perché le prove PISA sono campionarie e non censuarie come quelle Invalsi, e quindi sono una realtà di nicchia, che coinvolge in silenzio poche scuole campione, che tra l’altro non ne hanno nessun ritorno e nessuna utilità diretta. Invece nel primo convegno Invalsi le scuole c’erano perché hanno partecipato in massa ed prima persona alle rilevazioni nazionali, hanno ricevuto i feedback di Invalsi, ci hanno litigato e lavorato sopra, hanno progettato gli aggiustamenti della loro didattica, ne hanno visto i risultati: le scuole hanno arato il campo, e quindi hanno raccolto i frutti.

Quindi censuario versus campionario. È proprio qui la differenza. Ci sono da una parte circa due milioni e mezzo di studenti e duecentomila insegnanti coinvolti tutti gli anni nelle prove Invalsi, versus gli undicimila studenti del campione PISA ogni tre anni. Un evento di popolo e di democrazia il primo, un esperimento in vitro (se pure utile e necessario) il secondo. E le scuole non sono negli esperimenti, ma dove ci sono popolo e democrazia.

La valutazione retroagisce sulla didattica

Basta leggere i titoli di alcuni dei contributi presentati dalle scuole al convegno di Bari: “I dati Invalsi come strumento di ricerca per il miglioramento dell’offerta formativa”; “Dalle prove di istituto alle prove standardizzate: un viaggio di andata e ritorno per l’innovazione didattica”; “Prova Invalsi di italiano e sviluppo degli apprendimenti nell’asse geo-storico-artistico”; “Dalla matematica alla meta-cognizione attraverso i dati Invalsi”; “Cosa posso imparare dalle prove Invalsi sull’apprendimento e sulla mia didattica?”; “Le abilità numeriche dalla scuola di infanzia alla scuola primaria”; “Dalla lettura dei dati Invalsi alla costruzione di unità di apprendimento”. Non troviamo le temute classifiche tra scuole, o peggio ancora tra i docenti, ma didattica e decisioni per il miglioramento. Come dire: Non toccateci l’Invalsi, lo usiamo nella didattica.

A proposito di teaching to the test

Possiamo aggiungere una notizia “ghiotta” emersa nel primo convegno. C’è una certa complementarietà tra i risultati delle prove standardizzate di italiano (comprensione del testo) e i risultati di quelle “tradizionali” fatte dai docenti per la produzione del testo. Mi spiego meglio con una domanda retorica: quali sono gli studenti che vanno meglio alle prove Invalsi? Quelli i cui docenti fanno solo prove strutturate oppure quelli i cui docenti investono in prove “tradizionali” (come il classico tema) di produzione libera? Sorpresa (neanche tanto): sono i secondi. Insomma il teaching to the test, che consiste nell’allenare allo sfinimento i propri studenti a fare “prove simil-Invalsi”, non è il modo migliore per prepararli alle prove standardizzate: il modo migliore è coinvolgerli su prove di produzione libera che stimolano la loro creatività. Se facciamo bene il nostro lavoro di insegnanti, i nostri studenti verranno premiati non solo da noi, ma anche nelle prove standardizzate Invalsi.

La valutazione può diventare una risorsa

Forse il confronto tra questi due convegni è un segnale che le prove Invalsi stanno diventando patrimonio delle scuole. Le scuole lavorano con chi lavora con loro, e con le sue prove standardizzate forse Invalsi sta riuscendo a parlare al cuore pulsante delle scuole, ai collegi docenti o almeno a loro sottogruppi attivi e significativi.

E se fossero le scuole a chiedere più Invalsi?

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[1] Se mi è consentita una battuta, bisognerebbe “tirare le orecchie” a chi inventa dei titoli così formali per questi convegni, o almeno ingaggiare in Invalsi un comunicatore per trovare qualcosa di più accattivante… In ogni caso il titolo del primo convegno, come vedremo, era fuorviante, rinviando solo alla ricerca, ed andrebbe almeno integrato con  “per la ricerca e la didattica”.