Miti e riti della (ex) Maturità

L’integrazione dei saperi: troppo facile a dirsi

Mentre scrivo sono in corso di svolgimento i colloqui degli esami di Stato del secondo ciclo, con le loro novità o pseudo-tali. In questa sede mi sembra utile riflettere sull’impatto che esse stanno esercitando sulla cultura professionale degli insegnanti, considerato che soltanto ad anno scolastico alquanto avanzato si è iniziato – attraverso linee guida, simulazioni e conferenze di servizio – quanto meno ad intuire le intenzioni del legislatore. A questo proposito occorre osservare il doppio movimento normativo, che dalla criptica ordinanza ministeriale 205 dell’11 marzo 2019 accede alla decisiva nota Miur pubblicata a fine anno scolastico, “facendo seguito ai quesiti pervenuti in questi mesi” (nota 788 del 6 maggio 2019).

La terza prova – com’è noto – è sparita, avendo sostanzialmente tradito negli anni la sua finalità ultima, che era quella di verificare “le capacità del candidato di utilizzare ed integrare conoscenze e competenze relative alle materie dell’ultimo anno di corso” (DPR 323/1998, art. 4, comma 4). La suddetta finalità è stata invece affidata al solo colloquio. Ma – come ben si sa – un colloquio d’esame non può risolvere il problema dell’integrazione dei saperi nel secondo ciclo.

Le nuove norme e le routine consolidate

Ciò è dimostrato da alcune grottesche letture della norma. Due sono in particolare quelle che, pur avendo scarso o nessun riscontro nelle norme, trovano largo campo: la necessità di predisporre materiali “non noti” agli studenti e l’invito ai commissari a “non porre domande” durante il colloquio. Si tratta di vere e proprie mitologie interpretative, capaci di innestarsi sui tradizionali rituali dell’esame; sia l’una che l’altra tradiscono il desiderio di non rendere le cose “troppo facili” per i candidati.

Allora accade che, nella predisposizione dei materiali, l’indicazione normativa “in coerenza col documento del consiglio di classe” e la successiva raccomandazione di mantenere il carattere “orientativo” del documento, si trasformano nel tentativo ossessivo di evitare che gli studenti trovino nelle buste gli stessi testi o documenti affrontati durante l’anno, perché in tal modo si riproporrebbe l’attitudine dell’allievo a “ripetere”.

Discipline e trattazione pluridisciplinare

A questo si aggiunge l’interpretazione impaurita del costrutto “ampia e distesa trattazione pluridisciplinare”. In realtà l’art. 4 del DPR 323/1998 al comma 5 già recitava che “il colloquio tende ad accertare la padronanza della lingua, la capacità di utilizzare le conoscenze acquisite e di collegarle nell’argomentazione e di discutere ed approfondire sotto vari profili i diversi argomenti. Esso si svolge su argomenti di interesse pluridisciplinare attinenti ai programmi e al lavoro didattico dell’ultimo anno di corso”. Qualcuno è in grado di riconoscere una differenza radicale rispetto alle finalità del colloquio 2019?

Eppure tanti docenti si sono letteralmente inventati l’idea che rivolgere ai ragazzi domande di carattere disciplinare avrebbe tradito l’intenzione del legislatore, che pur rimanda spesso alle “singole discipline” o alle “diverse discipline”. E quindi si assiste a “danze dialettiche”, volte a fare in modo che nessuno dei commissari attinga dal proprio sapere disciplinare una domanda qualsiasi e che si resti tutti pateticamente ancorati allo spunto iniziale, dimenticando che trattasi solo di uno “spunto”, fino a quando l’imbarazzato mutismo generale viene pietosamente interrotto da un “passiamo a…”.

Qualcuno legittimamente ha la sensazione che il proprio sapere disciplinare non conti più nulla, con annessa e ben nota “litania” sulla presunta sparizione delle conoscenze a favore delle competenze.

Ma come si insegnano le singole discipline?

Dunque c’è ragione di chiedersi: quale cultura professionale ha spinto a curvare la norma in direzioni del tutto imprevedibili? Cosa ha spinto a ritenere che le discipline quasi dovessero scomparire dal colloquio? Cosa ha spinto a ritenere che gli spunti di avvio del colloquio quasi dovessero riguardare una terra di nessuno, da non contaminare con i saperi disciplinari?

La risposta, che attende tuttavia approfondimenti, sembra semplice: la cultura professionale dei docenti del secondo ciclo non sembra conoscere alternative tra il disciplinarismo e la culturologia general generica.

La sintesi non si produce dall’oggi al domani, perché riguarda proprio le “singole discipline” ed il modo in cui si insegnano.