La refezione scolastica in “Cassazione”

Il tempo mensa è parte integrante del progetto educativo

Non esiste un “diritto soggettivo” a consumare il cibo portato da casa nei locali e nell’orario della mensa scolastica e i genitori non possono pertanto pretendere che l’istituto si organizzi per far posto ad un pasto diverso da quello offerto dal servizio di ristorazione comunale. Questo è, in sostanza, ciò che afferma la sentenza della Corte di Cassazione (n. 20504 del 30 luglio 2019) che ha accolto il ricorso del Comune di Torino e del Miur, annullando la decisione dalla Corte d’appello di Torino (n. 1049 del 21 giugno 2016) in cui si dichiarava il diritto dei genitori di non avvalersi del servizio di ristorazione e di consentire a scuola il consumo del pasto portato da casa.

Le Sezioni Unite danno atto che il “tempo mensa” fa parte sostanziale del “tempo scuola” in quanto la ristorazione scolastica è un istituto a tutela del diritto di tutti gli alunni ad avere pari opportunità nell’educazione ad una sana alimentazione, in una scuola intesa come comunità dove il consumo del pasto costituisce un momento di socializzazione e di condivisione del cibo in condizioni di uguaglianza, nel rispetto delle esigenze individuali determinate da ragioni di salute, culturali o di religione.

La refezione scolastica come servizio pubblico

Il pasto viene considerato parte integrante del progetto formativo dell’istituto e ne condivide le finalità formative e pertanto la famiglia, che opta per il tempo pieno e prolungato, esercita una libertà di scelta a livello educativo che comporta l’accettazione dell’offerta formativa della scuola nel suo complesso, comprensiva del servizio di ristorazione. Alla famiglia non è attribuito il diritto di modificare il servizio pubblico di mensa secondo le proprie esigenze individuali, in quanto le modalità di gestione della refezione sono rimesse alla “autonomia organizzativa” degli istituti, in attuazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione pubblica. In altri termini: il diritto al panino domestico imporrebbe alle istituzioni scolastiche di rivedere, anche con l’impiego di risorse aggiuntive, la propria organizzazione e ciò sarebbe una “ingerenza dei privati nella gestione di un servizio pubblico”.

No al panino da casa

Siamo dunque di fronte ad una sentenza che attesta il ruolo e la finalità della scuola e della ristorazione scolastica nel perseguire l’integrazione e le pari opportunità degli alunni in contrasto con diseguaglianze sociali e la promozione di sane abitudini alimentari e stili di vita. Si tratta di finalità che, come dichiarano le nuove “Linee di indirizzo nazionale per la ristorazione scolastica” in via di pubblicazione, portano a “dissuadere il ricorso al pasto da casa che può provocare un discostamento dalle condizioni ottimali di varietà alimentare ed equilibrio nutrizionale, ponendo problemi dal punto di vista igienico e interferendo con il processo educativo e con l’appartenenza del bambino al gruppo classe”.

Questa sentenza della Cassazione, che priva di una base giuridica i sostenitori del diritto all’”autorefezione” individuale, porrà fine alle rivendicazioni del panino domestico? I comitati a sostegno dell’autorefezione si rivolgeranno certamente alla dirigenza degli istituti per chiedere la continuazione dell’esperienza così come è stata realizzata in questi ultimi anni, considerandola adeguata nel bilanciare gli interessi individuali di tutti gli alunni.

La refezione tra genitori, enti locali e dirigenti scolastici

Una richiesta di questo tipo si scontra perlomeno con due vincoli. Da una parte c’è la questione delle risorse supplementari che gli istituti dovrebbero ancora impiegare per poter gestire e controllare i pasti portati da casa. A questo proposito, l’USR del Piemonte, nella nota del 7 agosto scorso, ha riaffermato l’esigenza che le modalità di gestione del servizio siano sostenibili e la convivenza del pasto collettivo con quello individuale non debba comportare “oneri aggiuntivi”. C’è poi il problema, più generale, della responsabilità posta in capo ai dirigenti scolastici in quanto titolari delle autorizzazioni e della gestione del pasto domestico a scuola, i quali non potranno trovare sostegno da parte dei comuni (che si atteranno a quanto di competenza, non facendosi implicare nella amministrazione del pasto portato da casa), e tanto meno dei fornitori del servizio di ristorazione (che ricercano certezze sulla continuità ed entità delle forniture e rifuggono i rischi connessi alla commistione di cibi di diversa provenienza). È probabile che le rivendicazioni restino confinate in quelle realtà locali che sinora hanno registrato adesioni significative all’autorefezione, e non trovino ulteriore diffusione se non a fronte di vicende locali in cui è a rischio la credibilità della mensa scolastica.

I costi alti di un servizio ancora “individuale”

Gli importi delle tariffe poste a carico delle famiglie e la qualità dei pasti rappresentano i principali motivi di disaffezione verso la mensa scolastica e di incentivazione delle richieste di autorefezione. Nel consumo del pasto domestico a scuola troviamo bambini di famiglie che si rifiutano di pagare tariffe considerate eccessive, che ritengono i pasti di dubbia qualità o non in linea con il loro credo alimentare. Ma troviamo anche bambini esclusi dal servizio di ristorazione a causa della “morosità” dei loro genitori che non pagano la retta dovuta. Il costo dei pasti è questione da affrontare, tanto più in un contesto economico-sociale in cui molte famiglie faticano a fronteggiare le spese per la frequenza scolastica dei figli. Ma la ristorazione scolastica continua ad essere un “servizio a domanda individuale”, un servizio la cui istituzione non è obbligatoria e la cui frequenza è a pagamento con una quota del costo a carico dell’utenza, il cui importo dipende dalle scelte di politica tariffaria delle amministrazioni comunali. In una situazione di carenza di risorse pubbliche, tenere bassa la contribuzione delle famiglie può comportare una gestione carente della ristorazione scolastica. Ma anche tariffe alte non garantiscono di per sé mense di qualità. La questione del costo dei pasti troverebbe soluzione se la ristorazione scolastica venisse definita come un servizio universale, con un livello essenziale delle prestazioni (LEP) da erogare su tutto il territorio nazionale, dal nido alla scuola primaria, con i costi di funzionamento coperti per gran parte dalla fiscalità generale, soprattutto dello Stato, e con una ridotta compartecipazione da parte delle famiglie in base al criterio dell’universalismo selettivo. Ma al momento, vista la situazione dei conti pubblici, siamo ben distanti dalla generalizzazione e dalla gratuità o semigratuità della mensa scolastica, che continua a caratterizzarsi per presenza, qualità e costi per l’utenza in modi alquanto difformi lungo le contrade della nostra Penisola.

La qualità dei pasti

Le famiglie del panino domestico fanno riferimento alla bassa qualità della mensa offerta ai loro figli. Una qualità che, a partire dalle derrate alimentari utilizzate, dovrebbe contrassegnare la gestione dell’intero ciclo di produzione, distribuzione e consumo dei pasti. A proposito degli acquisti, è importante cominciare a fare i conti con i nuovi Criteri Ambientali minimi (CAM) per l’affidamento del servizio di ristorazione scolastica, che entreranno in vigore tra non molti mesi e obbligheranno le mense dei comuni all’utilizzo di prodotti e procedure rispettosi dell’ambiente e di percentuali significative di derrate alimentari biologiche e con importanti marchi e certificazioni di qualità. I CAM spostano certamente in alto la qualità delle materie prime da utilizzare ma, nel contempo, comporteranno un aumento del costo dei pasti in gran parte dei comuni italiani e questo rappresenterà un problema per i loro bilanci e per le tariffe a carico dell’utenza.

Verso la generalizzazione del biologico a tavola?

I CAM hanno fatto propri, in modo non ben ponderato rispetto alla loro sostenibilità economica e di mercato, le percentuali di impiego di prodotti biologici stabilite dal Decreto 18 dicembre 2017, che fissa i criteri per ottenere il marchio di mensa “biologica” e ne incentiva la diffusione. I CAM renderanno di fatto “biologiche” tutte le mense scolastiche e obbligheranno a rivedere in parte la gestione della ristorazione scolastica sotto il profilo della sostenibilità ambientale e della qualità dei pasti. Auguriamoci che l’applicazione dei CAM possa diventare un’occasione per un monitoraggio su ampia scala delle mense scolastiche italiane, non per definire le tradizionali classifiche elaborate su un numero ristretto di situazioni locali, ma per rilevare i problemi e consentire di elaborare in modo più consapevole prospettive di miglioramento.