Il fattore “T” per combattere l’insuccesso formativo

Personalizzare i curricoli e partire dal territorio

Il 14 luglio 2021 si è svolta presso il CNR la presentazione degli esiti relativi alle prove nazionali dell’Invalsi (Italiano, Matematica e Inglese) della scorsa primavera.

Il Rapporto restituisce al Paese la fotografia di una scuola decisamente in affanno. Rispetto al 2019 (nel 2020 la rilevazione non è stata effettuata a causa del lockdown totale) si riscontra, soprattutto nella scuola secondaria di I e di II grado, un calo consistente sia in Matematica che in Italiano.

Gli esiti delle prove INVALSI

Ciò che colpisce ancora una volta sono i divari territoriali delle scuole del Nord rispetto a quelle del Mezzogiorno. In alcune aree del Sud oltre il 50% degli studenti non raggiunge la soglia minima di competenze.

Emergono dunque, come in tutte le indagini precedenti (nazionali e internazionali), preoccupanti disuguaglianze educative in termini di difficoltà della scuola di svolgere una funzione “eguagliatrice” delle differenze socio-economico-culturali di provenienza degli studenti.

La Dad, più sintomo che causa

Dovendo individuare un capro espiatorio di tali esiti, la colpa non poteva che ricadere sulla didattica a distanza. I titoli dei giornali e i commenti apparsi qua e là in qualche servizio televisivo hanno immediatamente stabilito che la DAD si è ripercossa negativamente sulla preparazione dei nostri alunni fino al disastro finale.

In realtà, il Rapporto conferma quello che è stato rilevato negli ultimi vent’anni: un’Italia “spezzatino” divisa tra Nord/Sud e tra aree metropolitane/aree interne.

La didattica a distanza ha supplito all’emergenza sanitaria, evidenziando gli squilibri ampiamente rilevati in precedenza: la mancanza di connessione, la indisponibilità di device, di accesso a Internet, di servizi educativi, … la Dad, pertanto, è più un effetto che la causa.

L’insuccesso formativo è un dato oggettivo

C’è però un dato inequivocabile dal quale occorre partire: il fallimento formativo di molti studenti. Tale fenomeno pesa come un macigno sul nostro sistema di istruzione. La prolungata chiusura delle scuole ha sicuramente inciso sulla situazione generale aggravando la condizione di quegli alunni che già vivevano condizioni di povertà educativa.

L’aumento delle disuguaglianze prodotte dalla pandemia si è manifestato in particolare nella vita dei bambini stranieri a causa della carenza di competenze linguistiche loro e/o dei loro genitori; queste hanno reso arduo comprendere le istruzioni e i messaggi dei docenti.

Nelle aree del Sud, nelle periferie sociali delle aree metropolitane del Nord fino ai quartieri governati dalla malavita organizzata, lo scacco formativo e la dispersione scolastica si legano inevitabilmente sia alla povertà materiale (economica e sociale), sia alla povertà educativa e culturale (mancanza di servizi, di asili, di scuole dell’infanzia, di strutture culturali, di luoghi aggregativi…).

I progetti tesi a prevenire la dispersione scolastica (bocciature, ripetenze, frequenze irregolari, abbandono vero e proprio…) hanno ottenuto, nell’ultimo decennio, qualche effetto positivo; l’insuccesso è diminuito di qualche punto, ma le ragioni di fondo non sono state sostanzialmente intaccate.

Le ragioni

Il fallimento educativo è espressione di un intreccio di fattori legati sia a variabili personali (scarsa autostima, senso di inadeguatezza…) sia a fattori contestuali, quali il peso familiare, il capitale culturale dei genitori, i rapporti all’interno del gruppo dei pari, le aspettative degli adulti, le pressioni sociali.                                  

A seconda del grado di coinvolgimento di uno dei due aspetti si possono manifestare con maggiore evidenza fattori connessi alla vulnerabilità individuale (interni al soggetto) o cause derivanti dall’ambiente sociale di appartenenza (condizioni esterne alla personalità dell’individuo). Questa distinzione, pur frequentemente utilizzata, risulta eccessivamente schematica; si tratta, infatti, di condizioni concomitanti: l’insuccesso scolastico è un fenomeno multifattoriale, difficilmente circoscrivibile.

Personalizzazione e accompagnamento

Tutti i progetti finalizzati a prevenire e limitare gli effetti perversi della dispersione scolastica, attuati da oltre trent’anni a questa parte, ci hanno insegnato che non servono interventi generici e standardizzati. Lo stesso tempo pieno nella scuola primaria e il tempo prolungato nella secondaria di primo grado non hanno prodotto effetti significativi.

La parola chiave di un effettivo contrasto al fallimento formativo risiede nella personalizzazione degli interventi che deve sostanziarsi in forme sistematiche di accompagnamento del singolo ragazzo e della singola ragazza in difficoltà.

Personalizzazione e accompagnamento sono, pertanto, a livello nazionale, le forme educative che devono connotare le azioni tese a prevenire il drop out. Le risposte però devono concretizzarsi nelle comunità locali. Ci si prende cura, infatti, della vita dei giovani negli specifici contesti esistenziali. Il fattore T (territorio), risulta determinante nell’affrontare correttamente questo annoso problema.

La “società della conoscenza”, metafora interpretativa dell’epoca attuale, deve essere promossa nelle comunità più vicine all’esistenza dei ragazzi.

Come? Agire per priorità

La chiave per costruire realtà inclusive è rappresentata dai patti educativi di comunità, indicati dal Ministero dell’Istruzione (Piano scuola 2020-2021) come lo strumento operativo finalizzato a combattere la povertà educativa e l’insuccesso scolastico attraverso un approccio partecipativo, cooperativo e solidale di tutti gli attori in campo nelle singole municipalità.

Le modalità mediante le quali costruire comunità in cui “nessuno si perda” dovranno essere messe a punto dai responsabili (pubblici e privati) delle specifiche collettività.

Le stesse forme di accompagnamento dei singoli studenti assumeranno connotazioni differenti a seconda delle risorse che verranno messe in campo.

Le migliori esperienze attuate negli ultimi decenni offrono alcune esemplarità di particolare efficacia quali, ad esempio, gli interventi mirati a migliorare il passaggio da un ordine di scuola a quello successivo.

Una buona gestione della continuità/discontinuità nel biennio di transizione dalla scuola dell’infanzia alla primaria (5-6 anni); dalla scuola primaria alla secondaria di I grado (11-12 anni) e da quest’ultima al primo anno dell’istruzione superiore (14-15 anni), se fatta in modo sistematico, rappresenta un fattore determinante nel prevenire l’insuccesso scolastico.

Negli istituti comprensivi la progettualità nelle annualità di transizione è più facile da attuare; risulta invece più complessa nel passaggio dalla scuola “media” alla secondaria di II grado.

Il biennio iniziale dell’istruzione di secondo grado

Per le oggettive difficoltà nel processo di continuità tra ultimo anno della secondaria di primo grado e biennio iniziale di secondo grado, occorre intensificare gli sforzi con azioni di supporto e accompagnamento nei primi due anni della secondaria di II grado, che rappresentano il “collo di bottiglia” del nostro sistema formativo.

In alcune province (Modena, Reggio Emilia) per le tipologie di studenti più vulnerabili (per esempio con disabilità o DSA) vengono promosse azioni di tutoraggio diffuso affidato a studenti universitari, disponibili, dietro riconoscimento economico, ad offrire un servizio di aiuto nello studio (non solo) sia a scuola che in famiglia.

Tale progettualità dovrebbe essere estesa e comprendere tutti gli studenti che avvertono i primi segnali di evidenti difficoltà. Il tutoring diffuso, se ben coordinato dalle strutture scolastiche, rappresenta un indubbio strumento di prevenzione e contrasto della dispersione scolastica. L’efficacia, infatti, di tali modalità dipende in larga misura dal fatto che si tratta di forme di sostegno riferite all’educazione tra pari.

La gestione delle “passerelle”

Un problema che richiede soluzioni rapide (in questo caso il tempo è una variabile dipendente) è rappresentato da quella fascia di studenti che hanno sbagliato la scelta dell’istruzione superiore. Già nei primi mesi di scuola, i docenti rilevano tale incongruenza; si trovano però spesso a combattere con armi spuntate perché il riorientamento ad un altro corso di studi risulta estremamente difficoltoso.

Occorre, invece, saper governare queste problematiche mettendo in condizione le scuole (di accoglienza e di nuova destinazione) di disporre di tutte le risorse necessarie per consentire un efficace passaggio ad un indirizzo più consono alle potenzialità dello studente, facendo in modo che l’anno scolastico non vada perduto. Anche in questo campo d’azione non mancano buone prassi alle quali attingere.

Le scuole di seconda opportunità

Dare una seconda chance ai ragazzi della scuola secondaria di primo e di secondo grado che hanno abbandonato (o stanno per abbandonare) la scuola rappresenta un’altra forma di accompagnamento da perseguire con determinazione. Le cause del drop out (cadere fuori), oltre a ragioni personali e sociali, appartengono anche alla mancata azione di contrasto delle politiche pubbliche. È come se la scuola “per tutti” non riuscisse al contempo ad essere scuola “per ciascuno”.

In Italia sono stati realizzati numerosi progetti di particolare efficacia educativa. Alcuni di questi sono tuttora in atto. Penso al progetto torinese “Provaci ancora Sam” e ai progetti “Ponte” della provincia di Trento. Molto attivo è stato “Icaro… ma non troppo” realizzato a Verona, Reggio Emilia, Piacenza e la “Scuola della Seconda Opportunità” di Roma. Il capostipite rimane “Chance – Maestri di strada” di Napoli.

Si tratta di scuole rivolte a quei ragazzi che hanno maturato un profondo senso di fallimento per i quali deve essere predisposto un curricolo “su misura”, anche in contesti extrascolastici, con figure in possesso di competenze professionali molto varie: insegnanti, educatori, ma anche musicisti, artisti, sportivi, atelieristi…

La ricchezza del curricolo costituisce un indubbio fattore di forza nel contrasto al fallimento educativo.

Concretezza

L’equità educativa si misura sul terreno delle persone. Si tratta di fare i conti concretamente e realisticamente con l’universo delle fragilità degli adolescenti e dei giovani, che vivono l’esperienza scolastica con demotivazione e senso di sconfitta. Come sottolinea Marco Rossi Doria, “sono gli stessi caratteri di crisi nei modelli di crescita e di autorità, che consigliano alla scuola di coltivare una grande competenza e capacità di rispondere a situazioni, bisogni ed emergenze educative molto differenziate[1].

Occorre agire. Esempi di buone prassi esistono in tutte le realtà del Paese. In particolare, vanno valorizzate e implementare quelle pratiche che si realizzano nelle comunità ad alto tasso di inclusività o che si prefiggono tale obiettivo, predisponendo curricoli ricchi di opportunità e mettendo in campo risorse umane altamente professionalizzate.


[1] Rossi Doria M. (2009), Destino o riparazione: riflessioni sulla scuola mancata e sulla scuola possibile, sta in Bertazzoni C. (a cura di), Le scuole di seconda occasione, Erickson, Trento.