Dai diritti negati ai diritti riconosciuti

Cinquant’anni fa, la grande svolta

Il 1971 ha segnato un cambiamento epocale nella storia della scuola italiana e dei servizi educativi della prima infanzia. In quell’anno infatti il nostro parlamento approvò tre provvedimenti ancora oggi di fondamentale importanza: la legge 1044 riguardante gli asili nido, la legge 820 istitutiva del tempo pieno nella scuola elementare e la legge 118 di cui ci occupiamo in questo contributo.

Il cambio di scenario

La contestazione giovanile scatenatasi nella seconda metà degli anni Sessanta portò l’Italia ad approvare una serie di riforme scolastiche di portata rivoluzionaria.

In particolare, l’inserimento dei bambini con disabilità nelle classi comuni della scuola pubblica rappresentò un vero e proprio rovesciamento di dogmi che fino ad allora avevano caratterizzato la vita delle persone cosiddette minorate.

Quella scelta rimane una pietra miliare della cultura dell’inclusione apprezzata e valutata in modo molto positivo da tutti gli organismi europei e internazionali.

Il cambio di paradigma educativo è contenuto nellalegge 30 marzo 1971, n. 118 di conversione di un decreto legge del 30 gennaio dello stesso anno recante come titolo “nuove norme in favore dei mutilati e degli invalidi civili”. Nell’art. 28 di quel provvedimento si affermava che lo Stato era tenuto ad assicurare l’istruzione dell’obbligo ai mutilati e agli invalidi civili nelle classinormali della scuola pubblica, salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali.

L’istruzione garantita a “tutti”

Si sottolineava altresì che nelle scuole medie superiori ed universitarie, agli studenti con disabilità l’istruzione doveva “essere facilitata”. Tale espressione sarà poi oggetto della Sentenza della Corte costituzionale n. 215 del 1987, che la trasformerà in “sarà assicurata”.

La legge 118/1971 avviò il processo dell’inserimento scolastico degli alunni “handicappati” nelle classi comuni, indicando una strada mai sperimentata in nessun altro Stato.

Conseguentemente nel nostro Paese iniziò il processo di smantellamento delle scuole e delle classi speciali che funzionavano esclusivamente per i bambini in situazione di handicap.

Classi speciali e classi differenziali

La vita delle persone disabili è sempre stata disseminata di infiniti ostacoli. La loro storia si perde in una sorta di porto delle nebbie in cui si sono consumate violenze di indicibile ferocia. In un’Italia contadina nella quale si nasceva e si moriva sulla terra, il bambino fragile trascorreva la propria esistenza in famiglia, in una condizione di mera assistenza, spesso di occultamento. 

Solo nelle città principali funzionavano istituti, scuole e classi speciali; nella restante parte del Paese ai genitori toccava il compito di farsi carico di tutto.

Un primo timido cambiamento si registrò agli inizi degli anni Sessanta: nella scuola media unica (istituita nel 1962) e nella scuola elementare furono organizzate numerose classi differenzialidestinate ad accogliere bambini e ragazzi disadattati, svantaggiati e con lieve ritardo mentale. Nella circolare del 9 luglio 1962, n. 4525 della Direzione generale dell’istruzione elementare del Ministero della Pubblica Istruzione si affermava che a seconda delle forme e del tipo di minorazioni, gli alunni sarebbero stati avviati alle scuole speciali o alle classi differenziali. Era indispensabile che il personale insegnante preposto alle scuole speciali fosse in possesso del titolo di specializzazione. Ai maestri elementari privi di preparazione specifica potevano essere affidate solo classi differenziali, nelle quali venivano accolti i bambini “normalizzabili”.

I due fratelli “Milani”: Lorenzo e Adriano

Don Lorenzo Milani, prete e maestro dei figli degli operai e dei contadini di Barbiana, è uno degli educatori che ha maggiormente contribuito a provocare i cambiamenti avvenuti negli anni Settanta. Nella Lettera a una professoressa egli ha fatto conoscere il marchio della povertà educativa e culturale dei bambini del Mugello e, più in generale, delle fasce emarginate della popolazione italiana.

Meno conosciuto è il fratello maggiore Adriano Milani Comparetti, medico e neuropsichiatra infantile, il quale avviò le prime esperienze di terapia riabilitativa dei bambini affetti da tetraparesi e negli anni Cinquanta creò presso la Villa Torreggiani di Firenze un apposito centro per la loro rieducazione.

Questa scuola non durò a lungo, ma fu di straordinaria intensità. Adriano Milani capì che l’unica educazione per questi bambini era l’integrazione scolastica, il cui principio però fu affermato solo nel 1971. Occorrerà aspettare poi la legge 517/1977 perché tale decisione fosse realmente garantita.

Una sola voce

Sia Lorenzo che Adriano, in settori differenti della vita infantile, misero al centro della loro azione il bambino nella sua pienezza educativa, indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, di salute…  “Il bambino handicappato, scriveva Adriano Milani, è essenzialmente un bambino, una

persona e il nostro obiettivo nei suoi confronti non è quello di effettuare un trattamento, ma è soltanto quello dell’educazione in senso ampio” (Besio-Chinato, 1996).

Gli fanno eco i ragazzi di Barbiana che in Lettera a una professoressa scrivono: “Chi era senza basi, lento o svogliato, si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta per lui” (LP, 1967).

La rivoluzione silenziosa

Nel periodo che precede l’istituzione dei Decreti delegati (1974) si fa dunque strada un disegno politico teso a concepire la giustizia educativa come una dimensione essenziale della più amia giustizia sociale.

L’inserimento dei bambini in situazione di handicap nelle classi di tutti rappresentò il modello descrittivo di una scuola inclusiva che, a sua volta, ebbe riflessi positivi in tutti i settori della società (famiglia, servizi sanitari e sociali, politiche degli enti locali, associazionismo…).

Gli “addetti ai lavori” più direttamente coinvolti in questo radicale cambiamento sono stati, soprattutto, gli insegnanti e i genitori. Anche gli operatori dei servizi rivolti alla persona (Comuni, aziende socio-sanitarie) e del terzo settore (centri, cooperative sociali, …) hanno dovuto reinterpretare alla radice ruoli e funzioni.

Gli anni Settanta: dai diritti negati ai diritti riconosciuti

LE PERSONE
DocentiComincia la stagione che dà l’avvio al primo vero incontro con la diversità. Un incontro contrassegnato anche da diffidenze e ostilità. 
GenitoriPer loro cambia tutto. Si passa dall’era dello “stigma”, dell’“occultamento”, e della “vergogna” all’era dell’affermazione dei diritti dei propri figli (fino ad allora negati).
SpecialistiGli specialisti dei Servizi sanitari abbandonano, non senza difficoltà, la logica imperante del “trattamento” (patologia) facendo spazio alla prospettiva del “progetto” (ricchezza della persona).

Come già sottolineato, l’apertura della scuola italiana ai bisogni dei bambini con disabilità ha messo a fuoco il tema della giustizia educativa, affermata nell’art. 34 della Costituzione (“La scuola è aperta a tutti”), ponendo la diversità a fondamento dell’uguaglianza.

Un primo bilancio su cui riflettere

Il cammino fatto nell’ultimo mezzo secolo ha stravolto dogmi di un sistema educativo “duale” profondamente ingiusto: una scuola per i normali e una, quando c’era, per i “minorati”. Il superamento di tale preconcetto ha permesso l’affermazione di un sistema d’istruzione realmente universale e democratico.

Quale bilancio si può trarre da questa straordinaria avventura formativa? Sicuramente positivo, se quanto avvenuto viene confrontato con la realtà che ha preceduto il 1971. Più complesso se tale bilancio viene rapportato alla situazione odierna.

Una scuola inclusiva con qualche problema

Ci limitiamo ad indicare gli aspetti problematici dell’attuale modello di inclusione italiana, seppure all’interno di un quadro normativo tra i più avanzati nel mondo.

  • Si avverte una crescente dicotomia tra l’inclusione legale, affermata nel quadro giuridico, e la scuola reale. In molte realtà c’è una scarsa coincidenza tra il dichiarato e l’agito.
  • Spesso nella realtà quotidiana l’inclusione si articola in un sistema duale: gli alunni con disabilità vivono la vita di classe in una condizione di marginalità: la classe da un lato, lo studente in situazione di handicap dall’altro. In non poche situazioni, gli studenti con deficit vengono separati dal gruppo classe e portati in altri spazi della scuola.
  • Si assiste spesso ad un’enorme difficoltà da parte dei docenti ad effettuare una corretta valutazione personalizzata degli apprendimenti. Questa criticità riguarda soprattutto l’istruzione di secondo grado in cui il tema dell’equipollenza del percorso scolastico incontra non poche resistenze tra il personale docente. 
  • L’idea del “gruppo docente”, posto alla base di didattiche innovative e inclusive risulta ancora oggi di difficile praticabilità. A qualche anno di distanza dalla legge 517 del 1977, nella C.M. 250/1985 il Ministro della P.I. ribadiva che la responsabilità dell’integrazione dell’alunno in situazione di handicap e dell’azione educativa svolta nei suoi confronti è, al medesimo titolo, dell’insegnante di sostegno, dell’insegnante o degli insegnanti di classe o di sezione e della comunità scolastica nel suo insieme. Sin dai primi anni della nuova stagione educativa, l’allora Ministero della P.I. poneva il tema della collegialità del progetto inclusivo. Purtroppo quel richiamo risulta tuttora estremamente attuale!

Un welfare di prossimità!

Ma la maggiore criticità del nostro processo di inclusione è costituita dall’isolamento degli alunni con disabilità nei tempi dell’extrascuola. L’ingiustizia, afferma Andrea Canevaro, dovrebbe essere insopportabile, soprattutto quando si somma alla sofferenza. È il caso delle persone con disabilità, la cui qualità della vita è connessa all’organizzazione sociale, che in questo momento storico sembra interessare pochi, essendo molto diffusa una percezione della realtà unicamente in rapporto con la propria situazione.  È l’individualismo di massa (Canevaro, 2013). Il welfare tradizionale è andato in crisi e la costruzione di un welfare di prossimità presuppone la presenza di “un intero villaggio per far crescere un bambino” (Canevaro, 2015). Un antico proverbio degli indiani d’America ricorda che “per capire veramente un altro bisogna camminare almeno un miglio nei suoi mocassini”.

Questo viaggio però non deve essere fatto in solitudine, ma coincidere con una responsabilità diffusa sia dentro la scuola che nella società. Dispiace constatare che si tratta di un cammino largamente incompiuto; di fatto, in molte (troppe!) realtà non è ancora decollato.

Alcuni approfondimenti

  • Besio S. e Chinato M.G. (1996), L’avventura di Adriano Comparetti, Roma.
  • Canevaro A. (2013), Scuola inclusiva e mondo più giusto, Erickson, Trento.
  • Canevaro A. (2015), Nascere fragili, processi educativi e pratiche di cura, EDB, Bologna.
  • Scuola di Barbiana (1967), Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze.
  • Rondanini L. (2019), L’ICF e la progettazione partecipata del PEI. Per una scuola come comunità di sostegno, Tecnodid, Napoli.