Sordità e inclusione scolastica. La prospettiva multidimensionale

L’Audiofonetica di Mompiano: un’eccellenza scolastica italiana

C’erano una volta i sordomuti. In realtà, i sordi non sono affatto “muti”, per una serie di ragioni ormai effettivamente accertate e universalmente condivise. Innanzitutto perché l’apparato vocale delle persone sorde – se si escludono altre particolari patologie – è integro ed in grado di funzionare perfettamente. In secondo luogo, perché i sordi sviluppano spontaneamente un altro linguaggio, quello visivo-gestuale, che consente loro di comunicare validamente attraverso segni che possono essere codificati e standardizzati.

La lingua dei segni non è una mimica

Infine va richiamato che la “lingua dei segni” non è banalmente una “mimica”, ma una vera e propria lingua: ha elementi strutturali di base equivalenti a fonemi (cheremi), strutture morfo-sintattiche e grammatica equivalenti a quelli della lingua verbale, e viene acquisita spontaneamente secondo le stesse progressioni e modalità della lingua degli udenti[1].  Si può aggiungere che – come accade per la lingua verbale – le lingue dei segni sono diverse da un Paese all’altro, e si somigliano o divergono per ragioni geografiche e storiche. Una di queste è stata osservata dal vivo generarsi presso un gruppo di bambini sordi rimasto isolato per circostanze dovute ad una guerra in corso in Nicaragua alla fine degli anni ’70[2].

Il termine “sordomuti” è solo burocratico

A conservare tenacemente l’uso del termine “sordomuto” restano soltanto i nostri burocrati, che fanno riferimento ad una cinquantenaria legge statale (26 maggio 1970 n. 381) per regolare ancora oggi delle misure economiche a favore della sordità. Bisognerebbe, invece, parlare solamente di ‘sordi’; rigorosamente distinguere, al riguardo, tra “deficit”, che rimanda all’aspetto organico (la mancanza dell’udito) e “handicap”, che costituisce invece l’aspetto sociale, per il quale il sordo incontra ostacoli vivendo in una società verbale, la quale non conosce, e tanto meno pratica, la lingua dei segni. Autentiche barriere sono quelle che da sempre sono a carico esclusivo dei sordi, costretti a inseguire, con le frustrazioni che si possono solo immaginare, il traguardo dovuto dal linguaggio imposto dalla stragrande maggioranza degli udenti. Non sono passati molti anni da quando ha cominciato ad affermarsi il paradigma dell’“uguaglianza nella diversità”; tuttavia, siamo ben lungi dall’aver conseguito la convinzione diffusa dei sordi come espressione di un gruppo minoritario da rispettare nelle sue peculiarità. Oggi, nella società post-moderna, analogamente ad altre minoranze emergenti, sono gli stessi sordi ad uscire dal silenzio pubblico, dichiarando la loro identità e chiedendo il riconoscimento di una specifica ‘cultura della sordità” (Deaf Culture)[3].     

L’Audiofonetica, un museo socio-pedagogico

L’Audiofonetica è una sorta di archivio, a cominciare dal suo nome, che sta a rivelare – con quel suffisso “fonetica” – il primato assegnato alla lingua verbale nella vertenza sul metodo –tra lingua dei segni e linguaggio parlato – dalla seconda Conferenza internazionale tenuta nel 1880 (nota come il Congresso di Milano) per decidere il futuro dell’educazione dei sordi[4].  Un museo autentico di quelli in attesa di essere aperti al pubblico[5], dove giace un capitale di memorie documentate del periodo più fecondo dello sviluppo della sensibilità verso i sordi. Correva l’anno 1856 quando le Figlie della Carità cominciarono – reinterpretando in qualche modo il loro carisma – ad occuparsi del problema.

Il cattolicesimo sociale lombardo

Nel pieno dell’Ottocento, nate – come altre congregazioni religiose – all’epoca della restaurazione post-napoleonica, dovettero adattarsi al clima surriscaldato del Risorgimento nazionale, con i governi italiani post-unitari – non importa se di Destra o di Sinistra – impegnati dal problema immanente della Questione Romana.

Su questo sfondo di ombre e di tensioni, la scuola costituisce uno dei monumenti di quel “cattolicesimo sociale” – lombardo, distintamente bresciano – che ha visto convergere all’opera religiosi e laici per l’integrazione sociale dei ceti popolari in sofferenza nello sviluppo del liberalismo e dell’industrializzazione all’italiana. Un’istituzione che – insieme a molte altre – ha testimoniato gli alti e bassi di una vicenda tormentata e feconda che ha portato i cattolici a rientrare come maggioranza nella vita politica del Paese[6]. Ancora fino ad oggi, la Scuola di Mompiano ha potuto attraversare i tempi – anche quelli della contestazione aggressiva della segregazione dei ‘deficienti’ e quindi delle “istituzioni totali” – perché ha saputo integrarsi con la comunità locale, cittadina e provinciale (e oltre), legittimando con i servizi effettivamente resi la sua sopravvivenza, adattandosi fino a rinnovarsi.

Un “laboratorio operazionale” ancora attuale

Anche dal punto di vista delle pratiche educative, l’Audiofonetica è una sorta di palinsesto, dove si conservano – a chi le sa riconoscere – le tracce delle scelte che ne hanno contrassegnato la ricerca di volta in volta di metodiche congrue in base alle congiunture pedagogiche, ma anche, più particolarmente, all’inventiva di didatti che hanno fatto da protagonisti un pezzo della sua storia. Un esempio per tutti: il ‘laboratorio operazionale’ realizzato da Carlo Appiani negli anni ’70, presso la sezione materna dell’Audiofonetica, oggi adottato ancora fino alla seconda elementare, ovviamente con residui originari e adattamenti che sarebbe interessante conoscere. Non si è trattato di teorizzazioni astratte, bensì di concrezioni – variamente conglomerate fra loro – che nel tempo si sono sedimentate per la loro provata efficacia.    

Un reperto storico: l’“audifonostroboscopio” di Giovanni Teruzzi

Lo stesso si può dire delle attrezzature e dei supporti tecnici per la didattica. Anche a questo proposito valga un esempio: l’audifonostroboscopio, un tipo di stimolatore verbo-acustico costruito negli anni ’30 (del Novecento) da Giovanni Terruzzi, maestro dei sordi e monsignore, con l’aiuto di un ingegnere della Pirelli. Un pioniere, in anticipo sui suoi tempi: le suore lo acquistano nel 1950, ma lo strumento, dopo qualche tentativo, finì negli armadi, giudicato incompatibile con il metodo orale che dominava la scena nella scuola – appunto – audio fonetica[7].   

L’Audiofonetica oggi: un volume che spiega ed esemplifica

Il volume Sordità e inclusione scolastica. La prospettiva multidimensionale è stato pubblicato un anno fa da Scholé-Morcelliana (Brescia 2020). Firmata collettivamente come Scuola Audiofonetica di Mompiano, in poco meno di 200 pagine ne aggiorna, all’anno scolastico 2019-2020, la struttura attuale e l’attività educativa che la qualifica, con un corredo esemplificativo di studi di caso e percorsi didattici. Articolato in quattro sezioni: la scuola (I), il bambino sordo (II e III) dal punto di vista medico-riabilitativo-psicologico e scolastico, unità di apprendimento (IV) distinte per grado scolastico e discipline d’insegnamento, si rivolge con intenti formativi al pubblico professionale interessato a vario titolo alla sordità. L’opzione editoriale scelta è quello che possiamo dire della testimonianza e della rappresentanza: i quattro capitoli si compongono di distinti paragrafi (ben 28), ciascuno dei quali frequentemente a più mani, per un numero totale di autori davvero considerevole (62, alcuni ripetuti, uno di gruppo): tutti coinvolti nella stessa impresa. Quindi saggi brevi (in media 3 pagine) ed incisivi.

L’“integrazione inversa”: una innovazione dovuta

Misure e distribuzione stanno a segnalare, emblematicamente, la complessità dell’istituzione. Vede in azione uno staff sontuoso di 121 operatori, a fronte di 543 alunni (tra nido, scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado), dei quali 87 sono sordi e – da qualche tempo – anche altri con deficit di altra natura (non pochi: 30)[8]. Una scuola comprensiva – non solo inclusiva – nel senso che accoglie sotto lo stesso tetto pedagogico altri 456 soggetti udenti, secondo i modi, pertanto, di una apertura che qui – sin dall’inizio, nei ruggenti anni ’70- viene designata come “integrazione inversa”, secondo una proporzione – per stare ai numeri dello scorso anno (2019) – di 1 a 5. Una autentica “ristrutturazione” della vulgata corrente – all’epoca, ma ancora oggi – secondo la quale ad essere inclusi sono i soggetti a rischio di emarginazione. Qui siamo all’opposto speculare, un rovesciamento che impone di essere segnalato, anche se – all’origine – fu una scelta decisa principalmente a salvaguardia dell’istituzione.

Il rischio di mostra espositiva

Un altro criterio-base seguito per rappresentare la composita attività della scuola è quello di illustrarne i prodotti e le ragioni tattiche che li hanno ispirati. Tra i diversi paragrafi, si distinguono alcuni per la chiarezza con la quale portano all’evidenza il problem solving che si pone all’insegnante in presenza di alunni sordi (cfr. Barezzani, pp. 51-53 e Cartella, Rumi, pp. 75-77). E tuttavia, è lo stesso impianto a sollevare qualche perplessità nel lettore, posto dinanzi a paragrafi tanto numerosi e a tante scritture differenziate, che rischia di smarrirsi tra elementi giustapposti, con la conseguenza di non riuscire a cogliere la logica di sistema, quella che costituisce, invece, la nota distintiva dell’architettura scolastica di Mompiano. Ed anche il criterio di illustrare i ‘prodotti’ può ingenerare – senza volerlo – un effetto di ‘mostra espositiva’, che ottiene di indurre ad apprezzare, se non ad ammirare, il brillante lavoro compiuto – obiettivo comunque ragguardevole – ma non a capire come l’attività venga effettivamente condotta in situazione.

Una didattica saggiamente eclettica, non inquadrata in una sceneggiatura

Per quanto concerne l’assetto organizzativo, sarebbe stato opportuno, per esempio, offrire un quadro spazio-temporale della scuola, presentando le ‘routines’ dei diversi professionisti: ovvero che cosa fa, secondo quale sequenza, in quali spazi e con quali attrezzature, rivolgendosi a quali alunni, in coordinazione con altri attori, nell’unità di tempo corrente (una giornata, una settimana). Una sceneggiatura che avrebbe davvero messo in evidenza le dinamiche di una scuola così diversa. Per l’aspetto didattico, in particolare, l’impostazione espositiva può risultare ancora più controproducente, perché l’intento del capitolo – il più ampio: oltre 60 pagine dedicato alle Unità di Apprendimento è dichiaratamente mirato a favorire una comprensione più diretta della didassi effettiva:  sono costituite invece da un elenco, articolato diligentemente secondo il lessico ministeriale (Prodotti attesi-Destinatari, Docenti, Competenze chiave europee, Obiettivi di apprendimento, Conoscenze, Abilità, Atteggiamenti, Esperienze attivate), quando sarebbe stato preferibile rappresentarne il ‘copione’, ovvero esplicitare nel dettaglio le interazioni fra insegnanti e alunni quali effettivamente si sono compiute nella loro durata, negli spazi variamente attrezzati. Per quello che si può, comunque, rilevare, si tratta di una didattica saggiamente eclettica, che fa ricorso regolare alla “vicarianza”, interessando una gamma di mediatori – in particolare attivi e soprattutto iconici – evitando lodevolmente la dominanza di quello verbale-simbolico, tradizionalmente privilegiato dalla didattica scolastica.

Una governance sottesa ma non esplicitata

In una realtà così densa di competenze e culture di matrice diversa (pedagogiche, sanitarie, tecnologiche) può sorprendere che manchi un capitolo dedicato specificamente alla “cabina di regìa”, il centro nevralgico che individua – rispetto ai punti critici – le priorità ed elabora le strategie per ridurre le tensioni e promuovere le potenzialità. Importante in ogni organizzazione, irrinunciabile quando questa è impegnata nell’innovazione, un processo che logora come nessun altro e pertanto tende a decadere nella normalizzazione appiattita e ripetitiva, decisiva per vincere le resistenze, aggirare le barriere, superare gli ostacoli. L’Audiofonetica non può non disporre di una governance del genere, non solo perché si presenta in salute, ma perché vive ed opera, peraltro in un ambiente imprevedibile come il nostro sistema scolastico, sempre in attesa di una riforma che non arriva mai. E se non se ne parla, evidentemente dipende da una scelta deliberata con la conseguenza di rappresentarsi nelle improbabili vesti di un’armonia prestabilita.

Dimenticanze?

Tale ipotesi è confermata anche dal paragrafo in cui viene presentata la valutazione eseguita dal CeDisMa dell’Università Cattolica, con uno strumento nel quale ben 3 obiettivi su 4 si prefiggono di individuare “punti critici”, “ambiti di miglioramento e interventi correttivi”, “processi di cambiamento per migliorare la qualità della scuola” (Folci, pp. 29-33). Ed è una ‘dimenticanza’ grave, perché non consente di apprezzare questo lavoro fondamentale, capace di assicurare la consilience in chiave educativa di un apparato siffatto.

Che qualcuno protegga gli insegnanti novizi da chi pensa di formarli nascondendo le difficoltà che comporta fare le innovazioni scolastiche!

Ma c’è un’altra dimenticanza, forse più sorprendente: non si trova alcuna traccia degli alunni udenti, nemmeno un paragrafo. E sì che sono la maggioranza (l’84% degli iscritti) ed è quindi palese che è un silenzio voluto. Si pensi a quanto sarebbe stato interessante scoprire come interagiscono con i sordi, e come questi si comportano con loro: a cominciare dai tempi informali (arrivi, intervalli, uscite…), ma principalmente come vengono orientati dagli insegnanti ad accettare la diversità e partecipare all’inclusione. Un’omissione che risulta sconcertante, soprattutto perché fin dall’introduzione il volume afferma la centralità della relazione fra pari per avere maggiori opportunità di apprendimento (p. 9). Mi piace pensare che non di incompiutezza si tratti, bensì di stimoli: un invito implicito ad andare a vedere direttamente, recandoci in visita alla scuola.


[1] Cfr. Stokoe, w. C. Jr, Sign language structure: an outline of the visual communication systems of the American deaf. 1960, in Journal of deaf studies and deaf education, Volume 10, n. 1, Winter 2005, Pages 3–37; Language in Hand: why Sign Came Before Speech, Gallaudet University Press, Washington CD, 2001.

[2] Cfr. Pinker, S., L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano 1997.

[3] È istruttiva, al riguardo, una visita al sito web della Gallaudet University di Washington, fondata nel 1864 da Abramo Lincoln come costola della Columbia University, prendo il nome da Edward Miner Gallaudet, figlio di Thomas che aveva aperto, insieme all’insegnante sordo Laurent Clerc, la prima scuola superiore per sordi nel 1817.

[4] Quell’occasione storica vide la sconfitta degli USA, strenui difensori della lingua dei segni (che continuarono imperterriti nella loro opzione, fino a fondare addirittura una università per sordi, tuttora attiva, praticando la loro ASL. Sul Congresso di Milano dal punto di vista degli USA, v.  Richard G. Brill, R. G. International Congresses on Education of the Deaf. An Analytical History, 1878-1980, Washington, D.C.: Gallaudet College Press, Washington DC, 1984; per una ricostruzione del contesto italiano d’epoca, cfr SANI, R., (ed.), L’educazione dei sordomuti nell’Italia dell’800. Istituzioni, metodi, proposte formative, SEI, Torino 2008.  

[5] A cominciare con l’auspicata pubblicazione della puntuale ricostruzione, dalle origini agli anni ’90, delle sue vicissitudini: v. Oneta, G., L’handicap come risorsa per la scuola. Un’esperienza di integrazione scolastica all’Istituto canossiano Scuola Audiofonetica dalle origini ad oggi, Tesi di laurea in pedagogia, relatore prof. Luigi Pati, aa 1996-1997.

[6] Cfr. Corsini, P. e zane, M., Storia di Brescia. Politica, economia, società 1861-1992, Laterza, Bari 2014.

[7] Oneta, G., L’handicap come risorsa per la scuola…, op. cit., pp. 58 e sgg.

[8] Il dato si riferisce al 2019.