Collegialità e nuovi collettivi studenteschi

Come educare alla partecipazione e alla democrazia

Non manca certamente nel nostro sistema d’istruzione una vasta normativa che assegna alla scuola un ruolo centrale nella formazione alla democrazia partecipativa. Tuttavia, l’astensionismo crescente e il disinteresse, soprattutto tra i giovani, che rileviamo, per esempio, in ogni tornata elettorale, pone l’obbligo di riflettere su che cosa non abbia funzionato nel tradurre le norme in pratica didattica e che cosa si possa fare ora per rendere più efficace tale azione prima che sia troppo tardi. Riuscire a riconoscere i nostri punti deboli ci aiuta a individuare le possibili soluzioni.

La democrazia è partecipazione attiva

Il nodo centrale di una formazione alla cittadinanza per fare delle scuole dei «cantieri di democrazia»[1] non sta solo nel conoscere la Costituzione con i principi e i valori in essa contenuti, ma nel sapere come fare ad applicarli nella vita reale di tutti i giorni. Non basta averne «l’idea», serve soprattutto «l’arte di governare». L’unico modo per imparare una competenza è esercitala concretamente: le competenze si costruiscono con l’esperienza del fare e con la riflessione sul come si è fatto. La democrazia è, innanzitutto, partecipazione attiva, la si impara esercitandola e riflettendo sui processi messi in atto.

Gli organi collegiali: un’occasione mancata

L’introduzione nel 1974 degli organi collegiali poteva essere l’occasione per fare della comunità scolastica un vero e proprio laboratorio dove esercitare la pratica della partecipazione attiva alla vita di una comunità. Sarebbero dovuti diventare i contesti privilegiati per costruire e “allenare” le competenze di cittadinanza democratica e di formazione civica sia negli studenti, sia negli adulti. Nonostante le possibilità offerte dall’autonomia, non si è colta tale funzione formativa.

Ci sono state probabilmente omissioni e superficialità. Per esempio, nel corso degli anni non ci si è preoccupati di sostenere e formare almeno i rappresentanti eletti. Ciò era stato previsto, seppure a livello teorico, per le Consulte provinciali degli studenti, dove era prevista la presenza di un docente referente[2] con una funzione educativa oltre che tecnica[3].

Tanti anni di lassez faire

Le assemblee, il lavoro dei rappresentanti, la stessa esistenza di un Comitato studentesco[4] sono stati spesso visti, da alcuni docenti (ma anche da alcuni studenti), come perdite di tempo e intralci allo svolgimento del programma, al massimo come atti dovuti o come attività extrascolastiche opzionali. In alcune situazioni alcuni insegnanti hanno continuato, durante le assemblee, a fare lezione con la motivazione di voler rispettare la libertà degli studenti non interessati. Tale svalutazione delle attività collegiali può avere rappresentato uno dei motivi (ma non il solo naturalmente) della disaffezione agli organismi collegiali.

Non c’è democrazia senza partecipazione

Vi è un’altra causa altrettanto importante che ha innescato questa dinamica che mortifica la democrazia rappresentativa. A volte, da genitori e studenti la rappresentanza negli organismi di istituto è stata percepita come la forma più immediata per conoscere le decisioni della scuola o più specificatamente dei docenti. È mancata, in questi casi, la consapevolezza che il contributo di genitori e studenti sia quello invece di fare proposte e di esprimere bisogni, sempre nel rispetto dei propri ruoli, e non quello formale di “ratificare” gli atti del collegio. Tale contributo è quello che può aiutare la scuola a rendere il PTOF sempre più aderente alle necessità della comunità scolastica e ai bisogni formativi degli studenti e del territorio. L’offerta formativa non è solo del collegio, che come organo tecnico la redige, ma è dell’intera comunità.

Va ricordato che l’introduzione degli organi collegiali nel nostro ordinamento scolastico non è stata una scelta di opportunità politica, ma l’attuazione del principio costituzionale di partecipazione e, con l’autonomia scolastica, l’attuazione del principio di sussidiarietà (declinato poi nell’art. 118 Cost.).

Spesso non si ha consapevolezza che solo la partecipazione garantisce “l’efficacia dell’autonomia delle istituzioni scolastiche” come dichiara esplicitamente lo stesso art. 16 del DPR 275/1999, e permette alle scuole di raggiungere più facilmente i propri obiettivi.

Tanti luoghi per decidere insieme

La normativa stabilisce che il dirigente debba, per esempio, tenere conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni dei genitori dei genitori e, nella scuola secondaria di secondo grado, degli studenti per formulare gli indirizzi da dare al collegio per la predisposizione del PTOF[5]. Generalmente, infatti, vengono istituite commissioni miste sulle diverse tematiche che vanno poi a comporre l’offerta formativa; per esempio, sappiamo bene quanto sia centrale e strategica la costruzione condivisa del Piano di inclusione (art. 9. D.lgs. 66/2017) per affrontare l’abbandono e la dispersione. Il contributo dei genitori e degli studenti è altrettanto importante per la redazione del Regolamento di Istituto e del Patto educativo di corresponsabilità: sono documenti espressione del modello educativo in cui si identifica la comunità intera[6]. La stessa stesura del Rapporto di Autovalutazione, a guardar bene la normativa, presuppone il coinvolgimento diretto di studenti e genitori e non si esaurisce certo nella consultazione delle piattaforme ministeriali. Il contributo alla stesura dei documenti programmatici e alla valutazione degli esiti conferisce alla partecipazione un valore sostanziale per l’attuazione dello stesso dettato costituzionale.

Vi sono poi le presenze di studenti anche in diversi organismi di garanzia e di consultazione a livello di istituto e di territorio[7].

I nuovi collettivi studenteschi

Nel tempo, malgrado le indicazioni normative, il rapporto tra i rappresentanti e la base non è migliorato. Resta tuttavia nei giovani il desiderio di farsi carico dei bisogni e delle problematiche della comunità scolastica, di occuparsi dei fatti sociali e di confrontarsi con i coetanei. Tale spinta ha trovato, specialmente tra gli studenti del secondo ciclo, altre strade per esprimersi e con modalità non sempre in sintonia con la democrazia rappresentativa. Da qui l’equivoco che le questioni importanti si possano risolvere meglio se ad occuparsene sono solo gli studenti interessati e che questi abbiano anche il diritto di decidere per tutti. Un po’ come accade nella società quando tutto è delegato alle segreterie dei partiti.

Non a caso, i collettivi spontanei sono sorti per iniziativa degli studenti più sensibili ai temi sociali e politici. Essi hanno formato gruppi omogenei per obiettivi e per idee che spesso si dichiarano autonomi e autorganizzati. Il rischio che possono incontrare è quello di chiudersi in sé stessi, di contrapporsi ad altri gruppi e pure agli stessi organismi rappresentativi. La differenza è che negli organismi rappresentativi c’è la fatica del confronto tra idee e mozioni diverse. Il confronto è la base della partecipazione attiva e responsabile.

Quale rapporto tra collettivi e democrazia partecipata?

Il desiderio di partecipazione (seppure non generalizzato) potrebbe costituire una preziosa occasione per costruire percorsi di formazione etico-politica per tutti gli studenti della scuola. Sarebbe più facile se i collettivi venissero riconosciuti formalmente nel Regolamento dal Comitato studentesco e dal Consiglio di istituto. Si attiverebbe così una dialettica virtuosa tra ambiti di partecipazione diversi ma riconosciuti ufficialmente come parte della comunità.

Anche la possibilità di fare di un gruppo un’associazione studentesca[8] di istituto può permettere di ricondurre, di fatto, un gruppo spontaneo nell’alveo delle procedure di rappresentanza sensibilizzando gli studenti ad utilizzare gli strumenti di partecipazione democratica previsti dalle norme e permettendo ai docenti e al Dirigente di tenere il punto sul rispetto della legalità senza violare il desiderio di autonomia degli adolescenti.

Uno sciopero o un’occupazione decisa secondo le procedure della democrazia rappresentativa ha un significato molto diverso da quello deciso autonomamente da un gruppo spontaneo. Un’azione non permessa dalle norme può diventare, in quel contesto, un’occasione di formazione e di confronto tra gli studenti e gli educatori e non un problema di ordine pubblico. Il mancato sostegno all’attività degli organismi collegiali (in attesa di una riforma quasi chimerica) ha offerto e potrebbe continuare ad offrire un involontario endorsement al populismo di qualsiasi colore. Potrebbe contestualmente mettere a rischio il concetto di democrazia rappresentativa (che si costruisce a scuola) e potrebbe indirettamente favorire anche l’assenteismo elettorale.

Educazione civica e organi collegiali: una sinergia auspicabile

In attesa, e indipendentemente, da una qualsivoglia demiurgica riforma degli organi collegiali, si può ripartire dallo spazio aperto dall’insegnamento obbligatorio dell’Educazione civica.

La partecipazione agli organi collegiali dovrebbe diventare qualcosa di diverso dall’esercizio di un diritto formale. Si potrebbe iniziare proprio da una riflessione sulla partecipazione di studenti e famiglie alla progettazione di istituto, alla stesura del PTOF e del RAV coerentemente con quanto enunciato dagli obiettivi dell’Agenda 2030. Si può partire da un compito di realtà, suggerito dalla stessa normativa per rendere studenti e genitori co-protagonisti del miglioramento della qualità della scuola. Si può articolare un progetto di Educazione civica in modo tale che le attività di confronto tra studenti durante le assemblee e negli organismi di istituto siano collegate con le iniziative e le attività didattiche curricolari di classe e di istituto.

Utile sarebbe elaborare un vero e proprio progetto trasversale, chiamando in causa una figura professionale (esempio, funzione strumentale dedicata), e coinvolgendo pure le famiglie nella progettazione e nell’attuazione.

Ripartire dai fondamentali

Gli studenti nel biennio della scuola secondaria di secondo grado possono essere coinvolti in attività per lo sviluppo delle competenze di base e trasversali, che sono alla base per un buon funzionamento della collegialità. Per esempio: imparare le regole della partecipazione alle assemblee di classe; imparare a coordinarle; individuare le azioni per affrontare le elezioni dei rappresentanti; esercitarsi sulle regole per una buona comunicazione; conoscere gli strumenti per raccogliere i bisogni dei compagni di classe e della scuola; individuare le strategie decisionali e di mediazione; capire cosa significa, cosa comporta e come dare e ricevere “deleghe”; prendere coscienza delle responsabilità e degli obblighi che comportano l’assegnazione e l’accettazione  di un incarico, e molto altro.

Anche gli studenti della scuola secondaria di primo grado, attraverso attività guidate, potrebbero essere chiamati ad esprimere il proprio parere su alcune scelte della scuola. È un modo efficace per prendere coscienza dell’importanza della partecipazione e capire come ogni persona possa contribuire ad affrontare e risolvere i problemi.

Tante sono le esperienze e i progetti che molte scuole hanno realizzato[9].  Basterebbe ripartire da lì.


[1] Angela Gadducci, “L’apparente indifferenza della Generazione Z. Una scuola di partecipazione democratica”, in Scuola7 n. 300 18/09/2022.

[2] «Linee Guida Nazionali per i Regolamenti delle Consulte Provinciali degli Studenti.» Capo I Principi fondamentali, art. 1.

[3] «Nel suo ruolo di educatore […] il docente referente ha il compito di sostenere la più ampia partecipazione […] favorendo un consapevole e responsabile esercizio di democrazia diretta e di cittadinanza attiva da parte dei rappresentanti eletti.» Così scrive nel 2008 l’allora responsabile della Direzione Generale dello Studente del MIUR.

[4] Il Comitato studentesco è previsto dall’art. 13 comma 4 del D.lgs n.297/94 e dall’ art. 4 comma 4 e 5 del DPR n. 567/1996 con diverse funzioni particolarmente importanti per la partecipazione degli studenti alla vita sociale e culturale del proprio istituto.

[5] Art. 3 comma 5 del DPR 275/99 come modificato dalla Legge n. 107/2015 all’art. 1 comma 14.

[6] L’art. 2 comma 5 del DPR n. 249/1998 e s.m.i. prevede espressamente la possibilità di svolgere una consultazione di tutti gli studenti e dei genitori anche su loro richiesta.

[7]Nell’organo di garanzia di istituto, in quello provinciale e regionale, nelle Consulte Provinciali degli studenti, nelle Commissioni territoriali per l’alternanza scuola-lavoro ecc. per arrivare fino agli organismi nazionali in una ragnatela di organismi e di conseguenti apparati che si possono visualizzare in un apposito sito.

[8] Le libere associazioni studentesche sono previste dal comma 1bis dell’art. 5 del DPR n. 567/1996. “Alle associazioni studentesche si applicano le norme del codice civile sulle associazioni non riconosciute. L’associazione studentesca può costituirsi mediante deposito gratuito agli atti dell’Istituto del testo originale degli accordi di cui all’articolo 36 del codice civile. La rappresentanza dell’associazione è conferita ad uno studente maggiorenne”.

[9] Esperienze ormai consolidate sono quelle di “Scuola Città Pestalozzi” di Firenze o dell’Istituto sperimentale “Rinascita A. Livi” di Milano.