Concorso docente: tra ricorsi, denunce e polemiche

Ma il concorso serve a scegliere i migliori o solo a coprire i posti vacanti?

Continuano a girare sul web, ma anche sulla carta stampata, titoli che fanno notizia: “Concorso docenti, tutti incapaci?”; “Candidati, riammessi dopo i ricorsi, superano la prova”; “Denunce di irregolarità nelle procedure”; “Opinabilità e varietà nelle griglie di valutazione”; “La beffa del sostegno: in 4 regioni più cattedre che aspiranti”; “Raffica di bocciature: in Sicilia 400 cattedre restano vuote”; “Nessun ammesso all’orale per insegnare filosofia”

Una strada obbligata

Tutti hanno plaudito alla volontà del Governo di riavviare in maniera sistematica le procedure concorsuali per la selezione dei docenti, dopo la grande confusione degli ultimi decenni, anche per i noti sistemi di “stop and go”, attuati dai vari decisori politici.

Qualcuno potrebbe dire che “la strada per l’inferno è sempre lastricata di buone intenzioni”, nel senso che le buone intenzioni in sé non sono sufficienti a garantire l’obiettivo: occorre competenza e determinazione, soprattutto capacità di prevedere le difficoltà e di evitarle, proteggendo il “piano” già in fase progettuale, e non solo intervenendo lungo il percorso, quando le cose sono già accadute.

È questo, purtroppo, ci sembra stia già succedendo. Gli uffici amministrativi in questa fase stanno facendo grandi sforzi per affrontare e risolvere le difficoltà, man mano che si presentano. I “grandi numeri” – è noto – moltiplicano la varietà dei contenziosi, e ancor di più lo fa la natura stessa di questo “piano di assunzione” per concorso (alquanto intempestivo, seppure “lastricato di buone intenzioni”).

Tre questioni di fondo

L’attuale concorso in realtà fa scaturire domande che possono essere raggruppate in almeno tre tipologie di questioni:

a. Perché i docenti già abilitati all’insegnamento, grazie al superamento di un lungo percorso formativo all’Università (es. TFA), devono ancora essere sottoposti ad un concorso nazionale?

b. Le prove, così come sono state congeniate, e le regole di svolgimento, sono in grado di verificare l’attitudine all’insegnamento e il possesso delle necessarie competenze?

c. Le commissioni (tante e mal pagate) danno quella garanzia di professionalità, sufficiente per poter valutare gli aspiranti docenti?

Concorso e TFA

Le possibili risposte alla prima domanda non possono attenere solo alla qualità certificata del percorso formativo effettuato all’Università. Esse vanno collegate alla complessità della questione del precariato italiano che ha visto una prima “sanatoria” nel piano assunzionale della “Buona Scuola”, ma che avrà bisogno di almeno tre anni per una sua stabilizzazione.

Con il concorso verrebbe in qualche modo ad essere eliminata (o attutita) l’evidente contraddizione tra “competenze” e diritti “acquisiti”, sapendo che puntare sulle competenze significa mettere al centro lo studente, mentre invece puntare sui diritti, significa mettere al centro l’insegnante. Il concorso di fatto ha il compito di coniugare entrambi gli aspetti: “hai diritto ad insegnare solo se sei competente”.

Si è verificato però, in più parti, che candidati in possesso di abilitazione acquisita con il TFA non abbiano superato la prova concorsuale. Da qui la domanda a cui difficilmente riusciamo a prevedere una risposta condivisa: chi ha ragione e chi è più attendibile? La prova concorsuale o il percorso universitario?

L’accertamento delle competenze

Sono domande che rinviano ad altre considerazioni. Le prove concorsuali attuali sono migliori o peggiori di quelle del passato? Sono prove sufficienti per verificare se il candidato potrà diventare un bravo insegnante?

Sul piano teorico (quello, cioè, delle “buone intenzioni”) la risposta è sicuramente positiva. Rispondere ad otto quesiti fa presupporre il possesso di molte conoscenze sui programmi di insegnamento oltre che di una grande capacità di sintesi. Però, rispondere ai quesiti non è la stessa cosa che costruire un saggio (come nel passato). Si tratta di dimostrare, in poche righe e poco tempo, di saper affrontare un problema reale, di saper impostare una lezione, di saper costruire una unità di apprendimento…

Ma sono queste le competenze necessarie per diventare buoni insegnanti? Sicuramente sono competenze che servono, ma tale prova concorsuale non è tuttavia in grado di evidenziare le attitudini e gli atteggiamenti di un insegnante di fronte ai variegati bisogni degli scolari (ed è ciò che fa la differenza). Un percorso formativo lungo (es. TFA) potrebbe essere invece più funzionale.

Va inoltre rilevato che ai quesiti (la maggior parte ben posti, organici e complessi) si dovevano dare risposte in una manciata di minuti. Una impresa molto difficile, ma soprattutto illogica rispetto allo scopo: è giusto pretendere che un insegnante abbia conoscenze specifiche, competenze mirate e capacità di sintesi, ma è altrettanto doveroso metterlo nelle condizioni di poterlo dimostrare. Quindi la necessità di tempi più distesi per riflettere e mettere insieme i diversi frammenti utili alla ricostruzione del puzzle (quesito).

Le commissioni giudicatrici

La terza questione è ancora più delicata: chi giudica è in grado di giudicare? È pur vero che qualsiasi concorso ricorre a commissioni giudicatrici; che non può essere eliminata la soggettività; che non può essere garantita in assoluto la professionalità… Ma tutto questo, quando si tratta di numeri relativamente contenuti, viene generalmente ben gestito. Quando ci sono invece operazioni di massa si rischia che il fenomeno sfugga al controllo.

Si è verificato, per esempio, che docenti non abilitati, e immessi in ruolo da pochissimi anni, siano stati chiamati a valutare docenti già abilitati e con decine di anni di precariato. Qualche dubbio è stato espresso sulla qualità dei curricoli presentati, e anche sugli stessi docenti in pensione da diversi anni.

Inoltre i commissari, come è noto, sono mal pagati (nonostante gli ultimi interventi legislativi) e non sono esonerati (neanche parzialmente) dal servizio. Sono stati, quindi, costretti a correggere e ad interrogare soltanto nel tempo residuale (quasi sempre di pomeriggio).

La correzione di un compito richiede molta attenzione e cura. La stanchezza è la variabile che, più di altre, può compromettere il giudizio.

Molti candidati, non ammessi, che hanno chiesto l’accesso agli atti, hanno, per esempio, constatato che in poche ore pomeridiane risultava valutato un numero esorbitante di compiti, tale da far presuppore che ad ognuno di essi siano stati dedicati solo pochi minuti.

È una tra le questione che si presta sicuramente a polemiche e a ricorsi, soprattutto quando la percezione del candidato non è in sintonia con il risultato ottenuto.

Il problema dei ritardi

Diversi ritardi sembrano dovuti proprio alle continue rinunce dei commissari. Alcuni sono stati compensati dalle “fatiche di Sisifo” a cui le commissioni si sono sottoposte in piena estate.

Pur tuttavia qualcuno ritiene che i ritardi per l’infanzia e per la primaria siano stati intenzionali. Per l’infanzia, in realtà, c’è il problema dello smaltimento delle graduatorie di merito del concorso 2012. Ciò con tutta probabilità porterà al rinvio al 2017 dell’immissione in ruolo dei vincitori di concorso. Più difficile da spiegare l’intenzionalità del ritardo per la scuola primaria. Si tratta anche della procedura concorsuale con il maggior numero di partecipanti.

Il rapporto domanda offerta

È noto che la distribuzione dei posti non è omogenea in tutto il territorio nazionale. In Campania, per esempio, per l’infanzia e per la primaria, ci sono state sei domande per ogni posto disponibile.

I posti di sostegno nel Centro e nel Sud sono molto limitati ed in numero assai inferiore rispetto alle domande. In Lombardia e nel Veneto ci sono invece molto più cattedre rispetto agli aspiranti docenti.

Inoltre risultano differenze anche tra le classi di concorso. Nella stessa Campania, ad esempio, per la classe di concorso A23 (lingua italiana per discenti di lingua straniera) sono stati banditi 22 posti, ma solo 11 candidati hanno superato la prova scritta. Sono molti i casi in cui il fenomeno si ripete.

Non è questa una novità veicolata dall’ultimo governo in carica, ma una questione atavica derivante dalle politiche complessive che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese. Non possiamo pretendere che venga eliminata quasi per magia, ma possiamo esigere che su questo fenomeno ci sia una maggiore attenzione rispetto al passato. È importante, cioè, inventare nuove strategie finalizzate, non solo ad evitare disagi ai docenti, quanto piuttosto a migliorare la qualità dell’offerta formativa, soprattutto nei confronti di quelle scuole e di quegli studenti che presentano maggiori ed evidenti “sofferenze”.