La sfida interculturale dopo il COVID-19

Intercultura e ripresa della scuola

Niente sarà più come prima, è lo slogan che sostiene il dopo emergenza coronavirus; tra i diversi versanti del cambiamento ci sarà la composizione del tessuto sociale delle nostre comunità, che anche per la perdita di gran parte della generazione che ci ha preceduto si baserà ancora di più su un rimescolamento di provenienze geografiche e culturali. Parliamo di stranieri che ormai risiedono stabilmente nel nostro Paese e che mandano i figli nelle nostre scuole, e per i quali sarebbe ora di provvedere ad una normativa più equa sul piano della cittadinanza. Il mercato del lavoro ha bisogno di loro e la regolarizzazione in questo momento consente di tenere sotto controllo la salute collettiva.

L’apporto economico dei cittadini stranieri

Intanto che in Italia si combattono sterili battaglie ideologiche, i profughi stanno dando una spinta notevole all’economia tedesca, come beneficio demografico, ed anche le spese statali sostenute per la loro integrazione hanno avuto una positiva ricaduta sull’attività produttiva. Anche da noi mancano le persone da assumere e gli immigrati sono quelli che guardano alla formazione tecnica con maggiore attenzione o che cercano di far riconoscere i titoli di studio conseguiti nel loro paese per aspirare a qualifiche professionali più elevate.

In crescita sono anche le aziende guidate da persone provenienti dall’estero, che a loro volta richiamano altra occupazione e che hanno contribuito a fermare l’emorragia delle imprese italiane, ed i progetti di formazione/integrazione, anche se con scarsi finanziamenti statali, hanno ripopolato le zone interne con un importante intervento nella difesa del territorio. Bankitalia stima che il nostro PIL nel periodo 2001/2011 è salito del 2,3% grazie all’immigrazione e in futuro potremmo non poter contare su tale apporto in quanto vengono preferiti i Paesi del nord Europa al nostro.

Le diffidenze verso lo jus culturae

L’Italia invecchia, molti giovani italiani sono in fuga e l’immigrazione non riuscirà nemmeno a compensare tale effetto recessivo: solo l’8% della popolazione a fronte degli altri Paesi dell’Europa occidentale dove c’è una presenza a due cifre e dove è più facile ottenere la cittadinanza, mentre da noi lo jus culturae è ancora al palo. Ogni anno perdiamo 150 mila giovani, molti dei quali altamente qualificati e questa emorragia di capitale umano è aumentata proprio negli anni in cui diminuiva l’immigrazione.

Ci sono poi i minori soli che per diversi paesi costituiscono un aiuto a colmare il decremento demografico, alzano il tasso migratorio perlopiù nelle regioni del sud d’Italia in quanto zone di sbarco; essi devono essere accompagnati fino al diciottesimo anno, con attività scolastiche ed esperienze lavorative, trasformando bocche da sfamare in braccia pronte a lavorare, investendo nell’educazione. Nei paesi dell’OCSE uno studente su cinque proviene da contesti migratori e fra di loro ci sono competenze preziose che per i territori di accoglienza sarebbe una follia non utilizzare.

Il rispetto delle culture di provenienza

I nostri sindaci celebrano l’emigrazione degli italiani, vecchi e nuovi, che magari contribuiscono alle magre risorse dei comuni di origine, ma faticano ad accogliere gli immigrati che chiedono ospitalità, anche con l’impegno per lavori socialmente utili.

Ci preoccupiamo di difendere la lingua e la cultura italiana all’estero, se non anche il dialetto, mentre siamo insensibili al mantenimento della lingua d’origine e delle tradizioni dei nuovi arrivati, che sarebbe un arricchimento anche per noi.

Un’immigrazione ben regolata impedisce problemi sanitari

La problematica migratoria è confluita nella pandemia evidenziando che il rischio di malattie degli immigrati è più basso della popolazione in generale; l’OMS invita i governi a non alimentare preoccupazioni, mentre i rischi aumentano per il mancato accesso ai servizi sanitari ed è per questo che si rende necessario far emergere e regolamentare la loro presenza e non costringerli nella clandestinità e in situazioni abitative degradate, il che comprometterebbe il piano della salute, ma anche dell’ordine pubblico e più in generale delle relazioni in tutta la comunità.

E’ dal modo in cui gestiremo le migrazioni nel momento della ripresa che ci saranno risvolti rilevanti sul patto sociale e sull’avvenire stesso delle nostre democrazie, delle nostre società aperte e degli orientamenti liberali che oggi non possono che includere i nuovi cittadini.

La società “aperta” e l’esempio della storia

Si narra che una parte dell’impero romano d’occidente di fronte ad un’ondata di movimenti migratori ed alla pressione di nuovi soggetti ai confini si chiuse in se stessa e molte energie vennero spese in provvedimenti difensivi, mentre un’altra parte reagì costituendo un modello aperto e mostrò come quei soggetti che a Roma si chiamavano barbari potessero partecipare dell’antica cultura greco-romana e integrarsi attraverso una mescolanza tra etnie in modo da ridare forza all’antica Roma. Perché un impero possa riaprirsi sembra dunque aver bisogno degli stranieri, ed anche oggi che risulta evidente una certa decadenza del nostro sistema si potrebbe pensare ad una nuova civiltà in senso interculturale.

Nel momento in cui l’emergenza sanitaria sembra aver messo a rischio le nostre sicurezze individuali, la politica è – come diceva don Milani – la capacità di uscirne insieme e progettare il cambiamento, a cominciare dalla capacità di arricchire il capitale sociale con la partecipazione degli immigrati, attraverso varie forme di mutuo aiuto, come si è dimostrato negli interventi di solidarietà nei confronti della popolazione locale durante i drammatici momenti della pandemia.

Costruire identità culturali fluide

 Si parla di “identità culturali fluide” che hanno bisogno di consolidarsi nell’interazione tra modelli provenienti dall’estero e quelli della società ricevente, “decostruita e ricostruita”; gli italiani di domani non avranno un background etnico, culturale e religioso omogeneo. Si deve passare da una solidarietà basata sulla somiglianza, praticata negli stati-nazione ad una più organica in grado di tenere insieme le diversità, che va costruita consapevolmente per prevenire la formazione di una società segmentata e conflittuale.

E’ la scuola dunque al centro della riflessione, con la sua capacità di trattare le differenze culturali e di predisporre misure di accoglienza e di accompagnamento. Le classi miste, di italiani e stranieri, vengono considerate più lente, mentre ricerche dimostrano come i rapporti interetnici abbiano effetti positivi sulla personalità, esprimano una maggiore creatività e coesione se uniti dallo stesso obiettivo. In Inghilterra molti diplomati accolti nei più prestigiosi atenei sono figli di immigrati ed anche nelle nostre università ci sono sempre più studenti stranieri, che mettono il nostro sistema nella competizione globale. Un intreccio di lingue, esperienze e conoscenze che si compie non solo nelle aule, ma nelle case, nei luoghi di incontro e in tutte le occasioni sociali e culturali, per costruire identità espanse dove le diverse culture si mettono in gioco e si proiettano oltre loro stesse.

Dalla scuola multiculturale alla scuola internazionale

Le ultime linee guida del ministero dell’istruzione per l’integrazione degli alunni stranieri (2014) parlano non tanto di scuola multiculturale, che accoglie, ma di scuola internazionale, dove cioè la presenza straniera può essere un arricchimento anche per gli studenti italiani. E questo vale, ad esempio, per il plurilinguismo di cui gli immigrati sono portatori. Già alla fine del primo ciclo nelle prove INVALSI per la lingua inglese essi risultano migliori, soprattutto nell’ascolto, cioè nell’abilità più praticata nell’uso quotidiano delle lingue. Un’esposizione precoce a lingue diverse facilita l’apprendimento delle stesse anche in tempi successivi. In tale ottica non si tratta del semplice accostamento delle culture o dell’assimilazione a quella di arrivo; al centro si pone l’interazione e su questa va ripensato il curricolo scolastico, come ci viene richiamato dalle indicazioni nazionali per il primo ciclo (2012).

Promuovere le competenze interculturali

Il risultato sono le competenze interculturali che non vogliono tanto conoscere un contesto culturale diverso, ma realizzare uno scambio, una condivisione, una comprensione tra persone che appartengono a contesti culturali differenti, anche nella produzione di una nuova conoscenza a partire dai singoli contributi e dal risultato inedito che può nascere dalla loro interazione. Se però il contesto sociale non sviluppa una capacità di comprensione delle differenze e di superamento del proprio assetto monoculturale di partenza, anche le competenze personali maturate rischieranno di deteriorarsi lasciando spazio a reazioni identitarie difensive, vanificando il processo di formazione.