Don Milani: da San Donato a Barbiana

Lezioni per il futuro

Quelli trascorsi a San Donato Calenzano[1] sono stati per don Lorenzo Milani gli anni delle lacerazioni politiche (elezioni del 1948, scomunica papale ai comunisti…) e delle prime incomprensioni con la Chiesa fiorentina.

In quel periodo, egli comincia a manifestare apertamente alcune posizioni pubbliche in cui denuncia la distanza della gerarchia ecclesiastica dalle condizioni dei poveri e degli stessi lavoratori. Inizia anche una collaborazione con la rivista “Adesso di don Primo Mazzolari, il parroco di Bozzolo nel Mantovano, con il quale stringe un forte sodalizio.

Da San Donato a Barbiana

Quando il 12 settembre del 1954 don Daniele Pugi muore, contrariamente a quello che i parrocchiani di San Donato si sarebbero aspettati, don Lorenzo non prende il posto del prelato scomparso. La Curia fiorentina lo destina diversamente: lo assegna a Sant’Andrea di Barbiana, una pieve isolatissima sul monte dei Giovi nel Mugello.

Don Milani vi arriva il 6 dicembre 1954, accompagnato dalla domestica Eda Pelagatti e dalla di lei anziana madre, Giulia. Raggiunge Barbiana a piedi attraverso una mulattiera. Per di più quel giorno pioveva a dirotto. La nuova sede non è neanche un paese, ma una chiesetta con annessa una povera canonica, qualche cipresso e un piccolo cimitero. Il tutto è abbarbicato sul cocuzzolo di una montagna a cinquecento metri d’altitudine. Un centinaio di anime sparse qua e là in case lontane e distanti una dall’altra: una parrocchia, già destinata alla chiusura, resta aperta per don Milani.

Il giorno dopo l’arrivo a Barbiana, il 7 dicembre 1954, il neo-parroco si reca in Comune a Vicchio ed acquista una tomba nel piccolo cimitero locale. Don Lorenzo aveva 31 anni ma, in quel momento, aveva già deciso che Barbiana sarebbe stata per sempre la sua parrocchia.

Da un “lembo d’Africa”…

È capitato altre volte che l’esilio di una persona si sia trasformato in una esperienza straordinaria. Basti pensare al confino ad Eboli, negli anni Trenta, di Carlo Levi. Lo sperduto paese tra la Campania e la Basilicata si trasformerà per lo scrittore-pittore nel luogo in cui prenderà forma uno dei romanzi-denuncia più suggestivi della letteratura del Novecento: Cristo si è fermato a Eboli resta ancora oggi uno dei capolavori della cultura italiana.

Va detto, ad onor del vero, che nell’immediato Dopoguerra, realtà come quella barbianese (senza strada, luce, acqua, …) erano diffusissime in tutto il Paese.

Le “Barbiane” disseminate un po’ dovunque, dalla catena alpina, alla dorsale appenninica fino all’estremo Sud insulare si contavano a migliaia. Anche chi scrive è nato in uno di questi “angoli” dimenticati sull’Appennino reggiano in cui, fino agli anni Sessanta, la sera si usava ancora la lucerna a petrolio e si faceva il bagno in una tinozza di legno nella stalla, riscaldata dalla presenza degli animali.

Ma soltanto uno di questi “lembi d’Africa” è diventato “Barbiana”! Nella frazione del comune di Vicchio in cui era stato catapultato, don Lorenzo Milani darà vita non ad un semplice progetto educativo. Costruirà un nuovo mondo che verrà visitato da migliaia di persone dall’Italia e dall’Europa.

… alla più grande utopia educativa

Solo una persona “dura e trasparente come un diamante, pronto a ferirsi e a ferire” (Don Bensi, 1971), avrebbe potuto creare dal nulla una delle utopie educative più lungimiranti del secondo Novecento. Perché don Milani è stato un profeta, un puro, uno che ha saputo leggere i “segni dei tempi”: amando Dio, aveva trovato sé stesso.

Forte dell’esperienza della scuola popolare di San Donato, la prima cosa che egli fa nella nuova parrocchia è la creazione di un doposcuola per i ragazzi che non avevano completato la scuola elementare. Dal 1962, con l’istituzione della scuola media unica e obbligatoria, la canonica diventerà l’ambiente di apprendimento anche per i giovani che non avevano conseguito il diploma di licenza media.

Per i ragazzi di don Lorenzo, la scuola di Barbiana è il luogo migliore di tutti gli altri: “non c’è letame, non si è mai soli, ci si riempie di orizzonti e si sconfiggono le paure” (Gesualdi, 2022).

Le incomprensioni con la Chiesa

Come quella di San Donato, la scuola che egli organizza a Barbiana è laica, nel senso che è aperta a tutti. Del resto l’art. 34 della Costituzione questo dice!

Stiamo parlando di una scuola privata, fatta per i figli del suo popolo, composto da pastori che pascolano le pecore e da contadini che strappano faticosamente qualche frutto ai duri versanti della terra del Mugello. E quei pochi raccolti dovevano essere divisi a metà col padrone in regime di mezzadria. Anche il parroco ha due poderi; don Milani però decide subito che non chiederà ai due mezzadri che lo coltivano la metà del raccolto che gli spetterebbe.

Nei primi anni del “confinamento” in questa “Macondo” (Cent’anni di solitudine) italiana, egli completa nel 1957 Esperienze pastorali, una delle narrazioni più belle della sua concezione educativa. In questo libro anticipa la rivoluzione che si accinge a fare.

Il libro viene ritirato nel 1958 dal Sant’Uffizio e su La Civiltà cattolica, l’organo di informazione dei Gesuiti, padre Angelo Perego stroncherà pesantemente il contenuto del testo, segnando in senso negativo l’incomprensione tra don Lorenzo e la Chiesa, incluso il patriarca di Venezia, Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII.

Il “profilo professionale” del maestro di Barbiana

L’utopia educativa di Barbiana è incentrata sulla figura di un maestro e un gruppo di alunni che scriveranno uno dei libri più letti al mondo, Lettera a una professoressa.

Don Milani conosceva le caratteristiche che avrebbe dovuto assumere l’esperienza culturale sua e dei suoi ragazzi. Gli era soprattutto chiaro il “profilo professionale” del maestro. In Esperienze pastorali, annotava: “Spesso gli amici mi chiedono come faccio a fare scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola.”

Poi aggiunge che non è facile spiegare questo passaggio e si rivolge provocatoriamente a chi è interessato al problema con queste parole: “Finite di leggere tutto questo libro e poi forse lo capirete”.

L’istruzione dei poveri

Come a San Donato, anche a Barbiana la sua prima preoccupazione è l’istruzione dei figli del suo popolo. Ma se essi, fin da piccoli, si dedicano a badar le pecore e a lavorare nei campi, sono inevitabilmente destinati ad abbandonare la scuola in condizione di semianalfabetismo. Dunque, defraudati di un diritto, costituzionalmente garantito (ma solo sulla carta!). Condannati ad essere emarginati sul piano sociale, discriminati su quello culturale, incapaci di capire le cose come cittadini e come cristiani.

“L’istruzione dei poveri è il vero volto dell’amore verso gli esclusi. E la scuola nella concezione di don Milani è lo spazio nel quale i ragazzi costruiscono le conoscenze, attribuiscono significati, assumono responsabilità, creano legami, si fanno carico uno dei problemi dell’altro. In fondo, imparano l’amore per sé stessi e per il prossimo.” (Rondanini, 2017).

La casa del Priore si trasforma così in scuola. Nella bella stagione si sta fuori, tutti insieme attorno ad un tavolo, sotto il pergolato; d’inverno ci si chiude in canonica.

La scuola all’aperto, sotto il pergolato della canonica
Il maestro deve “ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore” (Esperienze pastorali).

Già provato dalla malattia che lo porterà nel giro di pochi anni nel piccolo cimitero dove aveva “prenotato” la tomba, appena giunto lassù, troverà nella professoressa Adele Corradi un valido aiuto per far camminare il suo progetto. Ella si dedicherà completamente alla causa di don Lorenzo e seguirà, anche se per pochi anni, i ragazzi con competenza e totale dedizione.

L’obbedienza non è più una virtù

Prima della pubblicazione di Lettera a una professoressa nel 1967, avviene un fatto molto importante. Un gruppo di cappellani militari toscani in congedo, il 12 febbraio 1965 dà alle stampe sul quotidiano fiorentino La Nazione un breve comunicato in cui essi “considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.

Don Lorenzo Milani risponde a quella presa di posizione inviando una lettera a tutti i giornali. Viene però pubblicata solo sulla rivista Rinascita, organo culturale del partito comunista. Il Priore di Barbiana e il direttore di Rinascita, Luca Pavolini, vengono rinviati a giudizio per apologia di reato. L’obiezione di coscienza, infatti, sia per la Chiesa che per lo Stato è un comportamento che rasenta l’illegalità, in quanto invita i giovani a sottrarsi dal prestare il servizio militare.

Don Milani, non potendo presentarsi nell’aula di tribunale a causa delle gravi condizioni di salute, il 30 ottobre 1965 invia ai giudici una lettera di autodifesa. Si tratta di uno dei manifesti educativi più belli della cultura politica e pedagogica del Novecento.

Alcuni riferimenti

Don Lorenzo Milani (1071), L’obbedienza non è più una virtù, Perugia, Tipografia Giostrelli.

Gesualdi S. (2022), Prefazione al libro di Valeria Rossini, La scuola difficile. Disagio educativo e sfide pedagogiche, Milano, San Paolo.

Rondanini L. (2017), Don Lorenzo Milani. La lezione continua, Napoli, Tecnodid.


[1] Vedi “Cento anni dalla nascita di Don Milani” in Scuola7.it