Esami di Stato e valutazione finale

Tra elementi oggettivi, effetti distorsivi e tipologie di variabili

L’esame di Stato, momento conclusivo del percorso scolastico, è predisposto per accertare la raggiunta maturazione delle attitudini e delle capacità dell’alunno e, nei percorsi superiori, il raggiungimento di un profilo anche professionale. L’esame, quindi, chiamando in causa i tratti più significativi e qualificanti dell’offerta formativa, deve opportunamente e adeguatamente registrare la crescita della persona in apprendimento al termine del corso. La valutazione finale costituisce così un importante ambito di riflessione, che deve necessariamente prendere le mosse da una constatazione, rappresentata dal concreto accertamento dei livelli di apprendimento conseguiti dagli alunni.

Non si valutano solo le prestazioni

Tale valutazione, però, non dipende solo dalle concrete prestazioni dell’alunno: anche l’insieme delle relazioni in seno alle quali il ragazzo è maturato ed è cresciuto incide profondamente sui risultati ottenuti. È per questo che la valutazione finale di uno studente non può prescindere né dall’analisi del funzionamento del sistema scuola né da tutte quelle variabili che hanno contribuito al suo sviluppo. Mi riferisco a quei tratti caratteriali (la docilità, la buona volontà, la tenacia), a quei requisiti comportamentali (l’attenzione, l’impegno, l’applicazione, l’ordine, la puntualità nella frequenza, l’accuratezza nella predisposizione dei materiali richiesti, la partecipazione, la collaborazione, la disponibilità al dialogo educativo, il rispetto delle regole della vita di relazione, la capacità di autovalutazione) e a quei connotati della personalità (adattamento sociale, tensione, ansia) che sono essenziali per esprimere una valutazione attendibile e veritiera. Ne consegue che sulla valutazione finale, tesa alla verifica delle competenze acquisite, finisce sempre per influire o un dato comportamentale o un tratto caratteriale o una nota di apprezzamento individuale che, chiamando in causa la persona, si colloca ben oltre l’accertamento stesso delle prove.

Distorsioni valutative

In senso stretto, la valutazione consiste nell’attribuzione di un valore, che per alcune tipologie di prove può essere docimologicamente espresso con un dato oggettivo e confrontabile, per altre entrano in gioco altri fattori. Ad esempio, allorquando i docenti si trovano ad attribuire una votazione a prove non strutturate, quali quelle di tipo orale come il colloquio d’esame, possono determinarsi delle distorsioni valutative. Può capitare che un’estrema benevolenza induca talvolta un esaminatore sensibile, quando il candidato sia in difficoltà, a prendere su di sé sia le domande che le risposte o ad esprimere valutazioni frutto più di empatia che di motivazioni razionali.

Ma anche durante la correzione di prove strutturate possono esserci elementi di distorsione: nonostante il riferimento a indicatori di valutazione predisposti dalla Commissione per conferire univocità e trasparenza all’attribuzione dei voti, ciascun commissario potrebbe essere indotto dalla personale esperienza e dal proprio bagaglio professionale e valoriale, a mostrare maggiore sensibilità verso alcune caratteristiche delle prove a discapito di altre, per cui il punteggio attribuito da ciascuno degli esaminatori potrebbe dare luogo a valutazioni non concordanti e univoche.

Le distorsioni valutative a scuola (tra le più diffuse, l’effetto alone, l’effetto stereotipìa, l’effetto Pigmalione), frutto dell’interferenza di fattori soggettivi irrazionali, rappresentano senza dubbio i principali nemici della docimologia (dal greco dokimazein = esaminare) introdotta da H. Pieron[1], proprio per contrastare la soggettività e arbitrarietà delle valutazioni scolastiche.

Valutazione e misurazione a confronto

Relativamente alla funzione valutativa resta, pertanto, insoluta una rilevante questione teorica: come è possibile valutare tratti comportamentali non riconducibili a performances oggettivamente misurabili? L’intervento educativo prevede, infatti, il raggiungimento di un ampio ventaglio di competenze, sia sul piano delle abilità strumentali che su quello dei comportamenti socio-affettivo-relazionali, che non sono riconducibili a prestazioni concretamente misurabili mediante prove strutturate. La complessità e polidimensionalità dell’attività umana, nel suo dipanarsi processuale, è difficilmente contenibile in un numero che in aritmetica costituisce una grandezza corrispondente all’esatta quantità degli oggetti presi in esame.

Un’altra questione da sciogliere è la modalità attraverso cui rappresentare con un dato chiuso (il voto) il processo di apprendimento condotto dallo studente, difficilmente raffigurabile in termini di grandezze aventi carattere di forma, univocità e dimensione quantitativa.

Il processo educativo sfugge alle regole della scienza docimologica perché la valutazione scolastica non si identifica con nessuno dei quattro livelli di rilevazione con i quali Stevens propose di etichettare, codificare, organizzare eventi ed oggetti facenti parte del mondo e dell’esperienza sensibile[2] e che sono riconducibili alle quattro classiche scale di misurazione: scala nominale, scala ordinale, scala a intervalli, scala di rapporti.

Oltretutto, il risultato ottenuto con l’attribuzione di un numero (il voto) costituisce un elemento statico che risulta utile a contrassegnare un esito, ma non riveste alcuna dimensione prospettica: a fronte dell’estrema flessibilità e dinamicità dell’atto educativo, non presuppone nessuna funzione diagnostico-predittiva, nessuna indicazione di orientamento educativo, nessuna apertura ad un possibile orizzonte formativo.

Quali variabili per determinare i risultati raggiunti

Il voto, quale tradizionale sistema di accertamento del profitto scolastico, è immediatamente comprensibile per la sinteticità espressa dal numero che lo rappresenta, ma preclude una valutazione dei processi di apprendimento da declinare, invece, sulla base di quelle specifiche imprescindibili variabili che, articolandosi in sfumature, sfuggono per la loro approssimazione ai criteri del rigore e della precisione. Si fa riferimento alla personalità dell’alunno con le sue variabili di ‘sfondo’, a quella dell’insegnante, alle modalità della loro interazione, ai molteplici requisiti del contesto didattico-organizzativo che favoriscono la costruzione di conoscenze e abilità nei destinatari/protagonisti dell’apprendimento.

In altre parole, il risultato di ogni percorso formativo individuale costituisce una variabile (potremmo definirla ‘variabile-esito’) che di per sé non riveste alcun valore se non in relazione con altre dimensioni da tenere in considerazione. Esistono, infatti, ‘variabili indipendenti’ proprie del contesto scolastico, rappresentatedai tratti più rilevanti dell’impianto organizzativo-didattico della scuola, e ‘variabili assegnate’ dal contesto di appartenenza che contribuiscono a determinare vantaggi, svantaggi e condizionamenti rispetto ai preventivati traguardi minimi, comuni e irrinunciabili (variabili-standard).

Le diverse prospettive della valutazione finale

In premessa delle nostre conclusioni, è bene ricordare che il processo formativo si colloca in un contesto socio-culturale-educativo di natura transazionale[3], in quanto implica il rapporto insegnante-alunno regolato da un’ampia gamma di variabili a valenza socio-personale-ambientale. Pertanto, nel tentativo di sciogliere i nodi problematici sopraindicati, si può approdare ad una serie di considerazioni relativamente alla valutazione finale in sede d’esame.

  • La valutazione finale viene a connotarsi come una pratica di accertamento di natura inferenziale, i cui risultati vanno letti come funzioni (nel senso matematico del termine) dove ogni variabile non ha un valore assoluto, ma assume rilevanza solo nel rapporto con altre variabili: il mondo personale del docente, quello dell’alunno, l’ambiente socio-culturale-educativo in cui vivono, le loro norme, la loro scala di valori, la preparazione professionale, le teorie e le esperienze proprie del docente, le esigenze e le aspettative dell’alunno e del suo ambiente socio-familiare.
  • La valutazione finale, che scaturisce dalla verifica degli esiti degli alunni, risulta essere, in ultima analisi, una rilevazione della qualità dell’intervento organizzativo, educativo e didattico intrapreso per fornire risposte calibrate in termini di educazione, istruzione e formazione: laddove non si provveda a rimuovere e/o colmare i disavanzi di partenza, la scuola si riduce a svolgere un ruolo passivo, quello di semplice ripetitore di meccanismi sociali.
  • La valutazione finale, come “sintesi di tecnica e atti di intuizione” – per dirla con Visalberghi – implica anche una misurazione, perché “la misurazione nasce dalla valutazione e nella valutazione confluisce”[4]. Ma misurazione e valutazione, pur essendo fasi di un medesimo processo, non presentano metodiche di rilevazione similari, perché implicano operazioni conseguenti e separate che assolvono a distinte funzioni: mentre la misurazione è un’operazione che si concretizza con l’attribuzione di un punteggio, la valutazione non è una semplice operazione aritmetica, ma si identifica con l’azione interpretativa del punteggio assegnato rispetto a determinati parametri di riferimento, esplicitati sotto forma di indicatori. Affinché una valutazione risulti attendibile deve prendere l’avvio da una rilevazione di dati e contemplare l’implicazione di molteplici fattori interagenti. E l’esame di Stato procede proprio in questo senso: la misurazione dei dati, che comporta l’attribuzione di un punteggio, si completa con una valutazione delle variabili di incidenza e si codifica con un voto.
  • La valutazione finale, che dovrebbe rilevare con puntualità e accuratezza il livello di competenza raggiunto dal singolo alunno, deve tenere ben presente come la competizione richiamata dal concetto di competenza (competenza e competizione hanno la stessa radice latina = cum + petere) rivesta il significato di disputa personale che si concretizza nel misurarsi, nel gareggiare, non con gli altri ma con sé stessi, per superarsi.

[1] H. Pieron, Esami e docimologia, Armando, Roma, 1965.

[2] Il riferimento è alla “Teoria delle Scale di Misura” dello psicofisico S.S. Stevens elaborata nel 1946.

[3] J. Dewey, A.F. Bentley, Conoscenza e transazione, 1949.

[4] A. Visalberghi, Misurazione e valutazione nel processo educativo,1955.